Paolo Petroni
Il «Premio Montale fuori di casa»

L’avventura di Elio Pecora

La poesia di Elio Pecora ci fa capire come “l’avventura di restare” sia complessa e presupponga scrivere versi di resistenza da leggere per ritrovare l’armonia con noi stessi

Nei giorni scorsi è stato consegnato a Elio Pecora il «Premio Montale fuori di casa». La cerimonia di premiazione si è svolta a Roma: Paolo Petroni ha tenuto il discorso che qui riproduciamo per cortese disponibilità dell’autore.


Parlare di poesia credo sia molto difficile. È difficile perché vi è in essa sempre qualcosa di ineffabile o, come diceva Ungaretti, nella poesia c’è qualcosa di segreto che va al di là del significato delle parole, un segreto che quanto più resiste tanto più arriva al profondo del lettore. La poesia di Elio Pecora a una prima lettura apparentemente sembrerebbe invece non avere segreti, sia tutta in un disvelarsi e confessarsi, in un misurarsi con sentimenti e accadimenti, ma attenzione, perché quel che leggiamo sono “semplicemente, per così dire, il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono”, usando le parole di Josif Brodskij che ha messo a epigrafe della sua raccolta intitolata appunto Rifrazioni, ed è proprio cogliendo la personale intimità di tale percezione che questa racchiude il suo segreto e riesce così farci intravedere qualcosa di umanamente universale.


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

Rifrazione allora è quella nell’acqua di Narciso che Pecora vede non autoreferenziale ma impegnato nella ricerca faticosa e senza fine del segreto che possa permettere finalmente la vicinanza, la scoperta dell’altro da sé: “Narciso procede nel gioco./ Almeno amare qualcuno, tanto da rivelargli l’obbrobrio,/ confidargli questa verità finora taciuta./ Sì che quel che parve terribile, disciolto nelle parole,/ mescolato alle cose, a un volto, a un luogo/s’addolcisca, si plachi./ Spogliarsi dei panni del teatrante costretto”. Per il poeta “Narciso deve compromettersi” e tutto il poemetto sarebbe da leggere, quasi come una dichiarazione di poetica, tanto che non a caso è stato messo in apertura di questa recentissima raccolta, L’avventura di restare (Crocetti, pp. 240 – 16,00 euro), che ripercorre una vita.

In quest’ottica mi piace allora iniziare a parlare della sua poesia come di poesia civile, perché non è tale solo quella che canta metaforicamente o direttamente la libertà o si indigna per la sua assenza, ma specialmente questa che ci introduce e ci fa capire come “l’avventura di restare” sia complessa e presupponga scrivere versi di resistenza (e già scrivere versi è resistenza) da leggere per ritrovare l’armonia con noi stessi, la vita, il mondo, con la guerra ‘’non quella / che sventra i cieli e le case’’ ma questa “che in petto aggomitola l’ansia …. Sempre, ogni giorno, dovunque una guerra /-neanche in sogno entriamo disarmati-/ pure ciascuno porta nella mente / un segno, un punto, una stanza segreta /- e là cercarsi, di là ripartire”.

Una quotidiana battaglia di cui fa parte una sensibilità che, al di là della denuncia, si interroga cogliendo riverberi, rifrazioni in sé anche di avvenimenti, della realtà in cui viviamo e si possono citare varie poesie (da Il recinto) sin dagli incipit: ‘’Le piazze sono strapiene di uomini, donne, ragazzi / avanzano dietro striscioni, chiedono un altro presente’’ oppure ‘’Nessuno sbarco stanotte a Lampedusa’’.  Allora, dopo l’ultimo telegiornale, si chiede chi riuscirà ancora a perdersi guardando la falce di luna nel cielo (Palazzeschi, amato da Pecora, diceva per esempio di non esserne più capace dopo aver visto in tv lo sbarco dell’uomo sulla Luna). E la luna è un punto costante, ritorna spesso nei versi di Pecora, ma non, si è visto, perché lui passeggi guardandola e non vedendo quel che gli accade attorno, ma anzi, come contraltare proprio alla percezione di una certa asprezza del mondo, come rifugio di infinto e bellezza.  C’è infatti in Pecora sempre lo sforzo, la fatica di guardare in faccia le cose per sentirle come vivono in lui, rimanendone disincantato, disilluso, ma appunto non per questo arreso.

La sua poesia direi che nasce da una laica religione della vita. Abbiamo parlato di versi di resistenza e, tra malinconie e entusiasmi, senso del dramma e ironia, pianto e allegria, questi sono frutto di un coraggio di vivere senza false illusioni, accentando la fragilità e, specie con l’avanzare dell’età, la finità della vita, nel suo essere, nel suo procedere inquieto e contraddittorio. Ecco allora il non aver ‘’un luogo dove andare, dove stare / che sono libero, ma questa libertà / è un vuoto, una solitudine / Eppure so, proprio per questo vuoto / per questa libertà solitaria, io ho il luogo della scelta / Io sto qui”, come afferma in versi del 1970, ma sempre attratto dall’ “Andare dove non v’è confine, solo fine/l’andare. Interminata avventura e tutto/ confonde ed esalta, una nave, una barca/ e un mare senza onde, remote le sponde,/ la luna nel cielo innestata, la gioia insediata/ là dove si stempra la pena, un saluto, un addio”, così che oggi (2020), chiude , dopo lo stupore per un tramonto sul mare, con “Non valgono parole / in questo restare / solo il dono / ulteriore / di questo tornare”.

Facile allora sottolineare che leggendo le poesie, le raccolte di Pecora e quest’ultima in particolare che le sintetizza,  è impossibile non pensare che tutta la poesia sempre, ma la sua in particolare abbia l’essenza del diario che cerca non di fermare, ma di cogliere l’attimo, l’essenza di ciò che fugge (come sosteneva Sandro Penna, grande amore di Pecora)  in quel teatrino del mondo in cui abbiamo avuto l’avventura di restare, che è accadimento ma anche proprio avventura, percorso coinvolgente che si compie imparando a resistere al passare del tempo, al mutare delle cose, davanti all’eterno riproporsi della natura, delle stagioni cui in questi libri si presta sempre molta attenzione, cercando di intravedervi un qualche senso non contingente, un sentire l’inafferrabile segreto della vita con le sue incertezze e angosce. Nell’ Autoritratto del 2011 eccolo ”Naso a vela nel vento, piedi sciolti, / e nel frastuono modula parole,/ socchiude porte dentro lo sgomento”, cercando Accordature, come si intitolano gli ultimi versi, alla ricerca di un approdo, al confronto con la fine, che ”sarà lasciare / questi banchi di sabbia / in cui affondammo i piedi”.

E’ in questo tutta l’umanità di Pecora, con la sua dolcezza, sensibilità, affettività nelle relazioni con quel suo Io poetico che non rappresenta mai un punto di vista chiuso, limitato o personalistico, ma diventa una sorta di Noi, di parte integrante di una visione, un disegno, un essere generale. Con la forza di non compiangersi, di non lamentarsi anche nel trasferirci un dolore profondo, che appunto si lenisce e si apre nel consistere della fortuna della vita, nella gioia dell’avventura del respirare, nella bellezza di essere parte di universo.

La sua allora, come si è detto, si rivela poesia scritta (e da leggere) per ritrovare una possibile armonia col mondo. Una ricerca che è andata maturando e appianandosi col passare del tempo, come è chiaro in questa raccolta di componimenti che vanno come si è visto dal 1970 a oggi, nell’anno in cui Pecora il 5 aprile ha compiuto 87 anni, nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1936 e trasferito a Roma, dopo un soggiorno in Germania, a 30 anni. Una vita in cui ha pubblicato libri di poesia (da La chiave di vetro del 1970 a Rifrazioni del 2018 e ora L’avventura di restare); di prosa, nei cui titoli ritornano ‘diario’ e ‘vita’ (dal romanzo Estate del 1981 a  La scrittura e la vita,  i ricordi di Il libro degli amici del 2017  e Quasi un diario del 201), di saggistica, testi teatrali, poesie e fiabe per l’infanzia. Dirige la rivista internazionale Poeti e Poesia, ha curato antologie di poesia italiana contemporanea e raccolte di fiabe popolari. Ha collaborato per la critica letteraria a quotidiani, settimanali, riviste e programmi culturali Rai e organizzato manifestazioni. Ha avuto vari premi e una laurea honoris causa in Scienze delle comunicazioni all’università di Palermo nel 2006.

Daniela Marcheschi, nell’introduzione a quest’ultima raccolta antologica, L’avventura di restare, si interroga, dopo avanguardie e sperimentalismi, su cosa resti dell’antico e del passato, cosa resti e sia sempre contemporaneo e in quali modi formali ci riesca. Pecora, ricordando il suo incontro con la poesia a scuola e l’impararla a memoria ecco che in sé, nelle sue letture, ritrova innanzitutto la misura, l’eleganza e il dramma, di cui rivive echi ”fra pena e allegria, fra sonorità della tradizione e modernità degli orizzonti”, e si potrebbe fare una bella serie di nomi, che vano da Euripide a Auden, dai latini a Leopardi, a Saba e così via. Tutto con una serenità, un’accettazione che sono anche un bisogno estetico, di armonia, che c’è sempre, qualsiasi forma lui provi, il verso libero o un componimento con rime, anche grazie a una musicalità costante, un ritmo interiore o dato dalla scelta di una particolare metrica. La musica è l’altra passione del resto del poeta e da essa non riesce a prescindere, trovato il tema, colta la scintilla col verso inziale, ne modula l’intonazione, le variazioni provando schemi, sviluppi diversi ma sempre conseguenti.  Quella musica che richiede partecipazione diretta, non interpretazione, come appunto la poesia, che è allora sentimento, educazione ai e dei sentimenti.  Ma restando vigili, se finisce chiedendo ‘’ma è forse innocua / l’innocenza?”, così, impietosamente interrogandosi sempre, ma con assoluta comprensione per l’uomo, il mondo.

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