Danilo Maestosi
Al Museo Andersen di Roma

Il maldimare di Modica

Omaggio a Giuseppe Modica, il pittore siciliano trapiantato a Roma. Nelle sue opere dedicate al Mediterraneo c'è il trionfo della fantasia: come un vascello che impone il maldimare...

Due quadri di Giuseppe Modica entrano a far parte del patrimonio pubblico. Li ha acquisite il museo romano Andersen alle spalle di piazzale Flaminio, studio e dimora di un visionario artista norvegese che nell’anteguerra ha progettato e inseguito il sogno di fondare una città ideale.

Lo ha fatto cogliendo al volo l’occasione di un bando finanziato del ministero. E scegliendo due lavori che Modica,71 anni, siciliano trapiantato da un trentennio a Roma, aveva esposto in una personale, proprio in queste stesse sale del piano nobile, dove nelle intenzioni della direzione verranno messe a confronto con i paesaggi dipinti da Andersen e da suo fratello per arredare il villino. La pittura di oggi che, specchiandosi in quella di ieri, rivendica la sua esistenza e la sua possibilità di misurarsi col proprio tempo.

Come fa la mostra, appena inaugurata e messa in cartellone fino a settembre per celebrare l’acquisto, abbastanza raro in questi anni di vacche magre per fare evento. Il tema è quello del Mediterraneo. Tutte le immagini cantano la vastità domestica e misteriosa di quell’oceano interno tra sponde d’Europa, d’Africa e lembi d’Asia che Modica si è trovato di fronte da quando era un bambino cresciuto in riva al mare, storia e visione che ha cominciato a registrare all’inizio della sua carriera e ha continuato ad interrogare e aggiornare in tutta la sua produzione come uno sfondo, una profezia di destino, personale e collettivo, vincolata all’incanto e al dolore di un eterno ritorno.

Eco onnipresente che riaffiorava anche quando ritraeva i tetti, i cieli, i monumenti di Roma, nella magia di quel blu che è il colore delle sue soste di riflessione e dei suoi umori  della distanza che lo separa dagli enigmi della natura e del sacro, dei giochi di luce che a volte inghiottono , a volte marcano i confini fra acqua e cielo, della foschia che avvolge come in un sudario il senso dell’esistere , ne libera e ne trattiene come prova e ricordo, premio e colpa, le scorie.

Da qui quella visione circolare che nel titolo della mostra i curatori, Giuseppina di Monte e Gabriele Simongini hanno voluto richiamare e aggiungere a rotte mediterranee, come una bussola per dare direzione a questo viaggio, e fornire appigli al senso di continuo spaesamento, al maldimare che Modica impone come un dazio a chi sale sul vascello della sua fantasia.

Una vertigine di stupore costruita con una sapiente e calibrata scrittura pittorica, una dote che conquistò un narratore conciso e senza sbavature come Leonardo Sciascia, ammaliato alla fine degli anni ottanta dal geometrico intreccio di forma e intenzioni di quel pittore scoperto per caso in una nota galleria di Palermo, con cui volle subito fare amicizia e al quale i suoi editori si rivolsero per illustrare la copertina di vari testi.

Giusto dunque sottolineare l’attrezzatura concettuale che da corpo e fascinazione alle tele di questo pittore. Partirei subito da due assenze che ricorrono in maniera costante. La prima è quella di figure umane. Davvero raro che Modica inserisca all’interno degli ambienti che con grande mestiere da scenografo tira su come soglie e ti invita ad abitare dei corpi umani: ricordo in qualche serie precedente solo qualche nudo di donna, in genere mai in primo piano. Presenze riconoscibili sostituite da altri oggetti parlanti, indizi, bisbigli, tracce, fughe prospettiche che riempiono il vuoto. E chiamano chi osserva i suoi quadri a riconoscerli e dar loro voce con altri processi d’immedesimazione. A volte il tragitto d’agnizione è più agevole. Chi ha messo lì e che ci sta a fare quella macchina fotografica sorretta da un cavalletto puntata verso di te e non verso il panorama da souvenir alle spalle.? Non è che un sussurro, ma serve a ricordarti che quello che eri pronto a guardare in realtà ti sta guardando e dunque rivendica la tua complicità, da spettatore diventi attore.

A volte l’appiglio è più vistoso ma più arduo da decifrare perché nasce da un rimando che bisogna conoscere e da una lettura filosofica che ne dilata il senso. Esemplari quelle curiose rocce che occupano e stanze o le pedane corrose dall’uso che l’autore ci stende davanti come un ingresso obbligato. Qualcuna ha la forma di una sfera, ne evoca la perfezione e la durata da idea platonica, che è già un preludio della dimensione circolare di spazio dentro la quale dobbiamo addentrarci. Altre invece sono sagome di poliedri nate dalla citazione di un capolavoro del rinascimento, la melanconia di Durer, che per Modica è come una bibbia. Fantasmi di pensieri e posture mentali che presidiano e amano il palcoscenico. Altre volte sono residui di una vita che per quelle case -finestre sull’infinto è passata.

La seconda assenza è denunciata dalla calma stagnante di quel mare che si spalanca immenso come un aldilà irraggiungibile o si affaccia intravisto da un’apertura di fuga che spezza la simmetria da labirinto modellata dal gioco di quinte sfalsate che ti imprigiona di altri dettagli, rifrazioni ed emozioni lo sguardo. Mai una tempesta, un moto d’onde scomposto ad increspare quel Mediterraneo così inverosimile nell’assoluto del suo splendore di luce e d’azzurro, come partorito da un sogno, scrigno di una memoria remota quanto la storia dell’universo e le mutazioni imposte dall’avvento della specie umana. Ma è uno stato di calma solo apparente, una bellezza da ultimo paradiso che racchiude e trattiene minacce e tragedie d’inferno, e spesso si capovolge nei vortici di una storia che non concede tregue d”innocenza e illusione. Una bufera che Modica non può e non vuole ignorare per non tradire il senso di umanità e di ancoraggio alla realtà del proprio tempo che è bussola primaria del suo mestiere d’artista. Per rappresentarla però, fedele ai suoi codici espressivi che sposano la forza della riflessione e della distanza, rifiuta la dittatura della denuncia gridata. Non solleva onde o uragani. Per evocare i venti di guerra che sente incombere sul Mediterraneo gli basta aggiungere su quello specchio di azzurro polveroso il profilo di qualche nave militare, la paura dipinta come un fantasma.

Solo il dramma e il dolore della morte, l’orrore ormai quasi quotidiano di quelle barche di migranti che in fuga dalle coste africane e sprofondano prima di raggiungere i porti del futuro e della salvezza, lo spingono a oltrepassare il suo istintivo pudore. Abbandonando le sue abituali visioni di quel Mediterraneo d’incanto che da mitico mare nostrum si è trasformato in un mare mostro. Ecco in una saletta laterale due quadri più cupi, il paesaggio ridotto a carta geografica, le sponde dell’Africa e dell’Italia trasformate in caselle, e la lavagna di quel bacino d’acqua da attraversare costellata di macchie più scure con sopra un bollino con un numero. Una ragnatela di lutti, i morti dei vari naufragi. Le cifre di un massacro. La nostra cattiva coscienza faccia per una volta i suoi conti.

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