Memorie di guerra
Le bombe di Torino
Guerre di ieri e guerre di oggi: l'incontro con una "pietra parlante" sulle strade di Torino è l'occasione per legare un passato tragiche che sembra dimenticato e un presente terribile
A Torino in via San Quintino sono diretto con Piergiorgio ad una vicina osteria. Camminiamo sul marciapiede di destra ed ecco una lastra di pietra della pavimentazione che presenta quasi in centro un foro e una raggera di lesioni. – Fermati – dico a Piergiorgio – sai cosa ricorda questa pietra? – No -, proprio non lo so. – Ebbene in questa pietra quel foro è quello di uno spezzone incendiario o di uno spezzone dirompente o forse solo di un bengala lanciati sulla Città nei bombardamenti inglesi del novembre 1942. Avevo visto questi spezzoni ancora con resti roventi quando, finito il bombardamento, ero uscito dal rifugio antiaereo, o meglio dalla nostra cantina in via Palmieri vicino a piazza Benefica, e mi ero trovato tra fiamme, fuoco, pianti, urla, sirene, calcinacci.
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Mi ero svegliato che tutto il cortile era investito da una luce violenta. Gli aerei inglesi erano già arrivati e avevano lanciato le torce, i “bengala”, che illuminavano quasi a giorno tutta la città, e mi stupiva il nitore diverso della prima neve di quel novembre del 1942 con quella luce nuova.
La sirena d’allarme era suonata tardi ed eravamo scesi in cantina in fretta e furia vestiti a metà mentre si sentivano i primi scoppi. Mamma e papà portavano la nonna bloccata dall’artrite, sul seggiolino fatto con le mani intrecciate. In cantina eravamo tutti raccolti nel corridoio e nelle cantine private che erano state aperte: avevamo paura.
lo pregavo, pregavo a più non posso a voce alta, altissima, insieme agli altri bambini e intanto sentivamo gli scoppi delle bombe e ogni tanto ci chiedevamo: “Ma è già caduta la casa?”
In quel terremoto che entrava nelle ossa a me sembrava che, ad ogni scoppio, i muri di mattoni rossi si avvicinassero tra di loro almeno di un metro: l’avrei giurato e così l’ho poi sempre raccontato.
Erano finalmente suonate le sirene della fine del bombardamento, lungo come una stagione della vita.
Uscimmo, la casa era salva e tutti abbracciavano e baciavano noi bambini, era merito delle nostre preghiere, dicevano. Eravamo usciti ed era tutto fiamme, erano in fiamme le case intorno alla piazza Benefica vicino alla quale abitavamo, il cinema Principe bruciava con lingue di fuoco vivide, la Casa Benefica era avvolta dalle fiamme, c’erano alcuni alloggi che erano a fuoco per spezzoni incendiari e fiamme uscivano dalle finestre; l’isolato a fianco al nostro era distrutto fino alle cantine: aveva due scantinati ma un grappolo di bombe li avevano divelti entrambi e c’erano decine di morti. Avevo visto portato a braccia un mio compagno di scuola, Ugo, che abitava nella casa distrutta: non parlava più, balbettava e gli si accartocciava la lingua, era passato tra i morti, stava morendo.
Si sentivano le sirene dei pompieri e delle autoambulanze e c’era folla sbigottita dolente e silente dappertutto…
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Siamo arrivati all’Osteria il Caminetto e ne parlo con Piergiorgio davanti a un muto pesce profumato. “Scrivi, – mi dice Piergiorgio – la testimonianza diretta dei tempi è benvenuta.”
Sì, se le parole, strumento potente e versatile, sono come pietre, è anche vero il contrario: le pietre sono come le parole, parole che hanno un peso, una forma, una consistenza, occupano spazio nella nostra mente e nel nostro cuore, ma in qualche modo anche fuori di noi. Parlano di fatti, cose o persone, pietre d’inciampo per il ricordo degli ebrei assassinati, pietre più semplici come le pietre col foro e i raggi di rottura, a stella, quelle degli spezzoni caduti dall’alto a provocare rovine e lutti…
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Papà e mamma avevano deciso: avremmo preso la bicicletta, avremmo fatto un grande fagotto di tutte le cose che ritenevano più necessarie o importanti, avremmo chiuso le finestre sgangherate dagli scoppi inchiodando tavole di legno, assi di compensato, cartone, insomma qualcosa di solido e via.
Il fagotto avvolto nelle lenzuola era enorme, forse di un metro, un metro e mezzo di diametro. L’avevamo legato tra il manubrio e la sella della bicicletta.
Poi avevamo preso altre borse e ci eravamo incamminati, papà davanti, mamma dietro, io cercavo di dare una mano a papà e le sorelline erano attaccate un po’ alle gonne di mamma o un po’ ai calzoni di papà.
Eravamo diretti a piedi a Reaglie sulle pendici della collina del Pino che distava più di dieci km.
Ci eravamo avviati per Corso Francia. Le distruzioni erano molte; c’erano le zone infette, dove i pompieri avevano messo dei segnali di non avvicinarsi perché c’erano ancora dei morti da recuperare tra le macerie fumanti, e poi c’erano i fili del tram giù, rotaie accartocciate verso l’alto, piante sradicate, alcune bruciate, anzi che ardevano ancora, sembravano candelabri neri.
C’era fumo da tutte le parti e all’angolo di Via Pagetti c’era una casa che era sventrata a metà e si vedeva una fetta di stanza dove era andato giù tutto ed era rimasto solo una fettina di pavimento con sopra, quasi a sbalzo, un pianoforte mezzo dentro e mezzo fuori che sembrava oscillare nel vento e la gente si fermava e diceva: “Andrà giù o rimarrà su?, “andrà giù o rimarrà su?”, quasi un diversivo per quella folla che si muoveva dolente nell’incertezza della meta da raggiungere: una casa di amici, un fienile o anche solo un prato.
Poi da Corso Francia avevamo percorso lunghe strade alberate. Tutti i corsi erano pieni di gente, una vera “fiumana” in lenta processione con fagotti, pacchi, valige, con carri e carretti, qualcuno trainato da cavalli… camminavamo, camminavamo, fuggivamo.
A Porta Palazzo c’era un tram, quello degli inizi del secolo con davanti in alto grande a mezzaluna il numero e il percorso. Si muoveva adagio pieno di gente dentro e con grappoli umani fuori alle porte e il tranviere pestava con forza sulla campana di ferro.
Poi per Corso Belgio eravamo arrivati alla Madonna del Pilone e ci eravamo dissetati a un “turet”; dalla Madonna del Pilone avevamo affrontato la dura salita della strada del Pino anch’essa piena di gente in processione.
Con la sirena urlante passavano le autoambulanze; genitori disperati non trovavano i bambini, anziani, sfiniti dalla fatica, cadevano nella folla e dovevano essere portati a spalla; un uomo, che si era attaccato con la bicicletta dietro un camion, era caduto proprio vicino a noi ed era stato investito dal camion che seguiva ed era ferito e il sangue usciva dalla tempia in un fiotto turbinoso che ancora mi raccapriccia.
Ormai avevamo perso la nozione del tempo e della strada quando finalmente eravamo arrivati a sera inoltrata alla villa dei Conti Gioppi, in una grande pace, accolti d’improvviso dal graa … graa delle rane, dai fantasmi della notte, dalle grandi piante e poi dalle calde mani degli amici…
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Le pietre come parole, quando ricordano fatti che, ripetendo i drammi della storia, riguardano l’attualità… dittatori africani, zar alla Gengis Khan, medio Oriente violento e, a fronte, un antico popolo perseguitato che, raggiunta la sempre agognata terra promessa, sembra copiare i persecutori … Ne parlo con Piergiorgio; a quando una tregua? Ma – esclamo – chi mantiene economicamente questa gente della striscia di Gaza di 41 km di lunghezza e da 6 a 12 km di larghezza priva di risorse autonome e ora distrutta? Gli stessi israeliani? I paesi arabi? Ogni tregua è, secondo me, fonte del rinnovarsi del conflitto. Possibile che un popolo, una volta considerato di grande intelligenza, e gli enti internazionali non si ingegnino per dare un allaccio della striscia alla Cisgiordania e così individuare un possibile stato da rendere economicamente autonomo?
In queste tragedie è sempre più difficile passare al di là delle notizie per recuperare un livello di pensiero che consenta un miglior grado di conoscenza e consentirci un migliore ritmo qualitativo di vita e una serenità d’animo.
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Non molto lontano dalla casa di Reaglie, al “Bric” del Pino, c’era una batteria contraerea per sparare sugli aeroplani inglesi: quando partiva la salve di cannonate c’era un frastuono enorme.
Scendevamo tutti nella grande cucina a piano terreno che era una stanza grandissima col vecchio, grande braciere davanti all’imponente camino sovrastato dall’enorme cappa con lo stemma.
Con il cielo che lampeggiava di rosso o di azzurro elettrico, a noi bambini scappava di fare la pipì, ma con tutte quelle cannonate avevamo paura di uscire dalla cucina, e allora il Conte, il padrone di casa, un bell’uomo alto e sereno, aveva provveduto a mettere dei vasini appena fuori dalla porta, nel sottoscala, e tutti, uno dietro l’altro, a far pipì e poi andava a vuotare i vasini! Fuori uno, fuori due, fuori tre, fuori quattro, fuori cinque, fuori sei, eravamo otto dieci bambini e facevamo vasini e vasini interi di pipì.
Qualche volta gli adulti e, per concessione speciale di papà anch’io, uscivamo nel giardino a vedere il bombardamento su Torino e si vedevano gli scoppi delle bombe, il fumo, le luci dei bengala e si vedevano tracciate nel cielo le scie infuocate delle cannonate contro gli aerei e le luci delle fotoelettriche dell’Esercito che cercavano di individuarli per poterli colpire e tutto il cielo era percorso da fasci di luce e come da stelle cadenti.
Lasceremo poi quella casa amica per andare in una casa avita dai cugini a Castagnito d’Alba nel Roero sulle ultime propaggini del Monferrato di fronte alle Langhe da cui ci separava solo il fiume Tanaro.
I colli di Castagnito saranno un grande giardino dai mille frutti e fiori ma avrebbe imperversato ancora la mitraglia della lotta tra partigiani, fascisti e tedeschi e avrei vissuto di nuovo ore drammatiche. E vedrò uccidere: l’eccidio di Castagnito con quattro uccisi barbaramente dai fascisti della brigata Muti, i mistici, ed io ricordo di essere fuggito di casa per vedere i morti e li stavano caricando su un carro, molle pietra tombale, e si era aperta la bocca di uno di quei miseri e l’avevo visto morto vivente e mi si era agghiacciato il cuore, poi avevo sentito scorrere dal bordo dei calzoni corti la pipì calda, caldissima ed ero fuggito …
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Abbiamo raggiunto da queste vicende delle consapevolezze interiori? O svaniscono e cambiano come i giochi delle suggestioni, quelle delle luci del cielo? Può valere lo scherzo delle nuvole che deviano i raggi dei pensieri?
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Parlo con Piergiorgio delle mie pietre con il foro a raggi: avevo visto con papà quelle pietre ancora ardenti e papà e gli amici ne parlavano, ed aggiorno il racconto visitando il Museo di Torino.
Gli spezzoni lanciati sulla città erano in maggioranza spezzoni esagonali alla termite. Si considera che su Torino ne vennero complessivamente lanciati oltre 200.000. Di potenza superiore erano le bombe incendiarie al fosforo dal peso di 30 libbre, di cui, si pensa, ne vennero lanciate oltre 20.000. Si tratta di vere bombe, munite di spoletta ritardata, in cui l’effetto esplodente è quello che determina l’apertura dell’involucro contenente il liquido infiammabile, la sua accensione e la sua violenta proiezione all’intorno. Gli spezzoni a termite erano costituiti da un involucro di electron composto da magnesio puro e alluminio e carica interna di termite compressa (alluminio, limatura di acciaio, sesquiossido di ferro). Le bombe al fosforo, invece, sono ripiene di fosforo bianco o giallo che si accende spontaneamente a contatto con l’aria; il fosforo causa gravi danni all’apparato respiratorio. Il peso di queste bombe variava da 1-2 chili a 50 chili e le più frequenti erano le più leggere….
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E Il cielo era tutto rosso per chilometri e chilometri. Le serrande dei negozi divelte e contorte, in terra larghe macchie bianche, il fosforo lasciato cadere dagli inglesi. Sembrava che una nuvola di fuoco, resa ancor più luminosa dall’oscurità, gravasse su Torino
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Le lastre spezzate dalle bombe dirompenti sono state sostituite, ma in sito si trovano alcune di quelle che erano state perforate dagli spezzoni incendiari, ne conosco una decina, quella di via San Quintino dopo il civico 43, in corso duca degli Abruzzi primo isolato al civico 3, poi tre di fila dopo via Vela e ancora in corso Re Umberto al civico 18 e al 9bis, una in via Montecuccoli di fronte alla scuola. Questi ordigni, quando cadevano da grande altezza sugli edifici, arrivavano con tale impeto da perforare tetti, solai e soffitti; ne sono testimoni proprio le pietre dei marciapiedi forate nettamente pur essendo spesse dieci centimetri, come fosse stato azionato un punzone di trancia. E correvano voci macabre di passanti che non avevano fatto a tempo a rifugiarsi, ed erano stati trafitti dalla testa ai piedi….
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La forza, la serenità, la morte scolpita nelle pietre, forza incisa nel tempo di noi stessi, piramidi, monumenti, incisioni rupestri, resuscitano e ricostruiscono tempi, persone, miti.
Improvviso mi assalta un pensiero che mi attanaglia: quelle pietre possono essere strumenti di crescita o possono diventare pietre che schiacciano l’anima ?
Sentiamo e vediamo in ogni telegiornale e leggiamo scritto ovunque su ogni carta stampata di stragi quotidiane con tali impressionanti statistiche e contabilità di morti, distruzioni, di popoli in fuga e disperazioni tali che quello che ho vissuto mi pare a confronto un fatto storico con significati ormai antichi.
Il mio tempo forse può essere chiuso in un libro di storia e relegato nello scaffale perché, se mentalmente aggiorno i pensieri, questi possono deviare e passare a considerazioni che non voglio: è stato inutile l’olocausto degli ebrei? chi sono oggi quegli uomini allora in cerca di patria?
Ed è stata una speranza vana l’Etiopia in progress di quando nel 1965 ho costruito una highway di 111 chilometri e decine, centinaia di Etiopi, eritrei, tigrini e anche somali lavoravano con impegno unitario e sacrificio in una via di progresso, una vita rinnovata?
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Si vive in una costante inquietudine. La speranza angosciosa di tempi migliori può portare (dice Seneca) a uno sconvolgimento di passioni che turbano l’animo; ma è saggezza riappropriarsi dei momenti migliori del passato e concentrarsi su un futuro libero dall’ansia nel timore di vane speranze. Il Filosofo pensa che sia così possibile riappropriarsi del tempo.
Ha senso pensare alla bellezza in questi tempi? Parlo con Piergiorgio della mostra sul Liberty in corso a Palazzo Madama e vedo la ricerca del bello attraverso la valorizzazione della grazia impersonata dalla figura femminile, l’eterno femminino, fragranza di vita …. e subito a contraltare ecco i fanatici Ayatollah, la polizia morale, giovani impiccate!
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Ma confido nelle pietre che possono resuscitare un tempo interiorizzato nella propria storia e che oggi non è più possibile vivere, ma che è auspicabile si possa comprendere come testimone e docente.
Dice Alessandro Barbero: “Una società che non conosce la storia andrebbe avanti lo stesso ma senza un grande strumento di comprensione del mondo”.
Tuffato nei pensieri che mi affannano, lo sguardo fugge dalla mia Nivola sui tetti di corso Vinzaglio e corre lontano, al Monviso, al dorso di quel nobile monte… Stare in silenzio, ascoltare il silenzio, sfruttare le riserve percettive che non utilizziamo, poi sentire la voce dei campi e delle vigne, accarezzare i fiori e le foglie vellutate, umili e bellissime, di quando ero ragazzo sfollato nei colli del Roero.
È la magia della bellezza e sto pensando con i sensi e sento con la mente, ricco nei richiami del mio essere forgiato nel tempo.