Periscopio (Globale)
Il mondo di Antonia Byatt
Ritratto di Antonia Byatt, la scrittrice inglese appena scomparsa che, negli anni Novanta, raggiunse il grande successo popolare con il romanzo "Possessione"
Due mesi fa, il 16 novembre dell’anno scorso, veniva a mancare all’età di 87 anni Antonia S. Byatt, una scrittrice inglese oggi forse un po’ meno letta, ma di enorme successo negli anni Novanta e a cavallo del millennio, in particolare grazie al romanzo Possession (Possessione), che nel 1990 le valse fra l’altro il Booker Prize.
La fama, sebbene piuttosto improvvisa, in questo caso non colpì a tradimento una principiante, ma una scrittrice esperta, il cui primo libro, Shadow of a Sun (Ombra di un sole), risaliva al 1964 e che a partire da quell’esordio, pur con qualche parentesi accademica, non aveva mai smesso di scrivere, alternando principalmente narrativa e saggistica.
Con Possessione, uscito nel 1990, alla Byatt riuscì, e brillantemente, un’ardua impresa combinatoria: riconciliare certe caratteristiche della moderna detective novel con la compilazione tipicamente ottocentesca di lettere, diari e poesia (vittoriana), eseguendo un triplo salto mortale nel vuoto degli orizzonti d’attesa del lettore comune, vuoto in cui ben pochi editori, inizialmente, vollero seguirla, tanto nel Regno Unito quanto in America. Eppure, come talora accade, non ebbero ragione gli specialisti del marketing librario, ma lei, l’autrice, ebbero cioè ragione l’intuito e il fiuto di una scrittrice che non solo conosceva e padroneggiava perfettamente la propria materia – non a caso in precedenza aveva scritto diversi saggi sulla poesia inglese, da Wordsworth a Coleridge –, ma si era anche forgiata le risorse stilistiche per sfruttarla appieno, riuscendo a trovare una felice sintesi fra divertimento ed erudizione. Un grande e meritato successo, insomma, che trasformò la Byatt da scrittrice di nicchia ad autrice per le masse (o quasi), tradotta in non meno di trentotto lingue.
Se prima di Possessione, come ricordavo, la Byatt aveva già alle spalle una dotazione narrativa di tutto rispetto – oltre a diverse raccolte di racconti, i romanzi The Game (Il gioco), del 1967, e The Virgin in the Garden (La vergine nel giardino), che è anche il primo volume (1978) di una tetralogia che prosegue nel 1985 con Still Life (Natura morta) –, solo dopo la pubblicazione del capolavoro si assiste a una vera e propria fioritura, che si tradurrà in diverse uscite di grande interesse. Fra queste, mi limito a menzionare qui Angels and Insects (Angeli e insetti), del 1992, Babel Tower (La torre di Babele), del 1996, che è anche la terza parte della serie poc’anzi menzionata, The Biographer’s Tale (Il racconto del biografo), del 2000, A Whistling Woman (Una donna che fischia), del 2002, che chiude la tetralogia, e The Children’s Book (Il libro dei bambini), del 2009. Per finire in bellezza nel 2011 con un libro assai singolare e inquietante come Ragnarök: The End of the Gods (Ragnarök. La fine degli dèi), basato sul mito nordico della fine del mondo, lo stesso che ispirò il Crepuscolo degli dei wagneriano, visto però qui con gli occhi innocenti di una bambina che s’imbatte nella leggenda negli anni dei bombardamenti tedeschi sull’Inghilterra.
La stessa Byatt qualificò come un’improvvisa e insopprimibile joie de vivre il sentimento provato al momento di potersi finalmente permettere, grazie al successo internazionale di Possessione, di lavorare come scrittrice a tempo pieno, anziché dover far ricorso all’insegnamento, sia pure di livello accademico, per poter sopravvivere. Insegnamento che in passato, tuttavia, non fosse che come impegno costante e distrazione, aveva rappresentato, come non mancherà di riconoscere, la sua ciambella di salvataggio: le aveva infatti consentito di superare in qualche modo – ammesso che questo per un genitore sia mai possibile – l’improvvisa scomparsa del figlio undicenne Charles, falciato a un incrocio da un pirata della strada ubriaco. Per dieci anni buoni Antonia Byatt non era più riuscita a scrivere un rigo e aveva convogliato tutte le sue energie sulle lezioni allo University College, sulle riunioni di facoltà e sui comitati di lettura e discussione di cui faceva parte nonché, più in generale, su quello che definì il salutare egocentrismo degli studenti, costringendo se stessa a pensare anche ad altro. In un’intervista precisò poi di aver cominciato a superare davvero il senso di perdita e di frastornamento provocato dalla morte di Charles solo quando la seconda figlia, Miranda, di cui all’epoca dell’incidente era incinta – la Byatt avrà quattro figli in tutto, da due mariti –, raggiunse anche lei l’età di undici anni. Come se questo dell’undicesimo compleanno fosse diventato per lei un limite, un’invisibile e fatidica soglia da superare per poter riprendere in mano la propria vita.
Anche a voler prescindere da Possessione, che ruota intorno alla scoperta di una tragica storia d’amore fra poeti vittoriani ad opera di due studiosi contemporanei fra i quali finirà per prodursi – quasi per osmosi – un’attrazione parallela, gli altri romanzi lasciatici da Antonia Byatt basterebbero a decretarne la centralità, quanto meno nell’ambito delle lettere britanniche. Non le sono certo mancate, nel corso del tempo, le ambizioni forti, come quella di raccontare, con la già menzionata tetralogia ambientata nello Yorkshire, trent’anni nella vita di tre membri di una stessa famiglia. Spicca fra questi, ispirata probabilmente in parte alla figura della madre della stessa Byatt, Kathleen Marie, il personaggio di Frederica Potter, una protofemminista, fra le prime studentesse dell’Università di Cambridge, prima moglie insoddisfatta, poi donna divorziata e impegnata a rifarsi una vita nel marasma creativo, stimolante e talora illusorio della Londra swinging degli anni Cinquanta e Sessanta. O, per continuare con le ambizioni, quella di tracciare un quadro dell’Inghilterra vittoriana, prima, ed edoardiana poi, nel ponderoso Libro dei bambini, la cui vicenda principale si estende dall’ultimo quarto dell’Ottocento alla prima guerra mondiale. Un modo, forse, anche per riuscire a imporsi in quella rivalità, durata tutta la vita, nei confronti della sorella minore Margaret Drabble, anche lei scrittrice (e biografa), e anzi, almeno fino a Possessione, considerata da tutti come la vera creativa e intellettuale della famiglia.
Volendo menzionare anche l’aspetto metodologico e critico della sua opera, va ricordato almeno che in un saggio tradotto in Italia con il titolo Gradazioni di vitalità (si tratta in realtà del testo di una conferenza tenuta a Leida nel 2004) Antonia Byatt attribuì al romanzo una “forma agnostica”, nel senso che, a suo parere, il romanzo accoglie in sé un interrogativo sempre più pressante e ineludibile sulla fede e “bilancia la visione religiosa del mondo, che aveva le sue storie e il suo genere di parole, con un nuovo materialismo, con le sue storie e parole.” Materialismo di cui peraltro la nostra scrittrice non è affatto entusiasta, dal momento che le nuove rappresentazioni da esso prodotte le sembrano tutt’altro che soddisfacenti: e se fa qualche esempio concreto che non sempre ci trova d’accordo (come quello di Philip Roth, campione per lei di una letteratura fatta da e per “animali morenti”, per citarne con qualche malizia un titolo), va detto che il ragionamento regge meglio se applicato alla cornice generale più che al singolo caso, al fatto cioè che lo scrittore (come ogni altro essere vivente) si nutre indefettibilmente di quanto lo circonda. E quindi, se la realtà che lo alimenta e bombarda di stimoli è falsa e ingannevole (Byatt parla in modo esplicito di schermi televisivi, di specchi e dell’onnipresenza dell’immagine), la letteratura che lo scrittore in questione produrrà rischierà anch’essa di rivelarsi misera e disanimata. Posizione, questa, che può essere ritenuta (e lo è stata anzi da molti) riduttiva e ingenerosa, ma che testimonia, nella scrittrice e non solo, di un rovello incessante, tutt’altro che archiviato ma anzi sempre più centrale, sul senso dello scrivere (ancora) romanzi.
Una curiosità, per concludere: il libro Angeli e insetti – che consta di due storie o novelle, fra naufraghi in Amazzonia che trovano un improbabile e pericoloso amore e sorelle di poeti (Emily Tennyson) che partecipano a sedute spiritiche – le consentirà di fregiarsi di un riconoscimento poco abituale per uno scrittore, seppure (come la Byatt) appassionato di scienze: un coleottero iridescente è stato ribattezzato infatti in suo onore Euhylaeogena byattae Hespenheide. Non sarà forse il fine massimo verso il quale uno scrittore può o deve tendere, ma non è mica da tutti.