Alfonso Maurizio Iacono
La filosofia di Mauro Ceruti

Tre sfide per il futuro

Esce in questi giorni, edito da Mimesis, un libro con contributi di vari autori che dialogano con il pensiero del filosofo animato, in tutta la sua opera, «dalla preoccupazione di comprendere la complessità umana». Anticipiamo il testo di Alfonso Maurizio Iacono

Esce in questi giorni, edito da Mimesis, il volume La danza della complessità. Dialoghi con la filosofia di Mauro Ceruti a cura di Francesco Bellusci e Luisa Damiano. Al filosofo teorico del “pensiero complesso” («tutta la sua opera è animata dalla preoccupazione di comprendere la complessità umana, cosa che richiede non di isolare l’umano, ma di situarlo nei suoi contesti cosmici, fisici, biologici, sociali, culturali e ormai anche nella comunità di destino planetaria» scrive in apertura Edgar Morin), sono dedicati una serie di saggi di vari autori. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il testo di Alfonso Maurizio Iacono “Una tensione necessaria”.

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Non sono sicuro ma credo che il primo incontro con Mauro fu nel 1986 a Milano, quando, su richiesta di Marcello Cini e Michelangelo Notarjanni allora direttori della rivista “Scienza Esperienza” (fondata da Giulio Maccacaro e oggi, nella nostra epoca, impensabile, purtroppo), mi recai alla Casa della Cultura per intervistare Francisco Varela. La Casa della Cultura era allora il centro attorno a cui, grazie a Gianluca Bocchi e a Mauro Ceruti e con la spinta di Sergio Scarpelli, ruotava il meglio degli studiosi e dei ricercatori che, a livello internazionale, lavoravano a partire dalla nozione di complessità. L’anno prima era uscito il volume La sfida della complessità, curato da Bocchi e Ceruti, che raccoglieva i contributi delle conferenze tenute presso la Casa della Cultura e a cui avevano partecipato, tra gli altri, lo stesso Francisco Varela, Henri Atlan, Ervin Laszlo, Douglas Hofstadter, James Lovelock, Edgar Morin, Stephen Jay Gould, Ilya Prigogine, Heinz von Foerster, Luciano Gallino. Nello stesso anno era uscito in traduzione italiana, su proposta di Giorgio De Michelis, il libro di Humberto Maturana e Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione. Fu un periodo di un ritrovato entusiasmo culturale e politico. Dopo gli anni di piombo, cominciavano ad emergere più fortemente e liberamente idee che erano maturate negli anni 70 e in particolare si faceva strada la nozione di complessità. È sicuramente grande merito di Mauro Ceruti e di Gianluca Bocchi avere contribuito a far sì che tale nozione cominciasse ad affermarsi tra gli intellettuali e i ricercatori attraverso un dialogo rinnovato tra scienze naturali e scienze storico-sociali e soprattutto che si introducesse una nuova mentalità scientifica e culturale che intrecciava la riflessione epistemologica con la riflessione politica e democratica. Non fu semplice. Gli anni 80 furono anche quelli della “Milano da bere” e del neoliberismo che riaffermava l’idea del mercato a ‘mano invisibile’, dell’individualismo e dell’autoreferenzialità e spesso nozioni come complessità o come autoorganizzazione venivano assimilate a tale contesto culturale emergente, con la conseguenza di un irrigidimento critico di chi temeva appunto la contaminazione tra l’idea di complessità e l’immagine della mano invisibile. Inoltre, si tendeva a parlare di scienza o paradigma della complessità. Di più, la nozione di complessità veniva spesso fraintesa e usata all’interno di vecchie concezioni epistemologicheriduzioniste.

Ceruti e Bocchi, nella Presentazione a La sfida della complessità non fanno mai cenno all’idea che la complessità sia una scienza o un paradigma. Anzi, uno dei testi che compongono il libro, quelle di Isabelle Stengers, ha per titolo Perché non può esserci un paradigma della complessità. In un altro testo, Complessità. Effetto di moda o problema? (pubblicato nel 1988 in Da una scienza all’altra edito da Hopefulmonster, una casa editrice fondata da Stefano Isola che pubblicava contributi sulla complessità), Isabelle Stengers scrive che se il discorso sulla complessità deve avere un senso, questo senso non può essere omogeneo alla scienza che critica; la visione di un mondo complesso non può, come tale, sostituirsi a un’altra visione scientifica del mondo. Nessuno nega le peculiarità dei saperi scientifici; ciò che va negata è invece la loro “alterità privilegiata” culturalmente o socialmente. Già Ludwig Fleck, nel 1935, in Genesi e sviluppo di un fatto scientifico aveva chiarito questo punto. Ma togliere questa “alterità privilegiata” ai saperi scientifici significa passare a ciò che anni fa veniva chiamato il pensiero debole? Non lo penso. Significa invece pensare la complessità come la scoperta di una tensione necessaria, ma significa anche togliere al pensiero forte l’effetto di rassicurazione. In questo senso, a mio parere, Mauro Ceruti, con Gianluca Bocchi, si è mosso nel solco di riflessioni che hanno trovato, per esempio, un punto di riferimento (per me decisivo) in testi come Il sapere senza fondamenti, di Aldo G. Gargani, pubblicato nel 1975. La tensione necessaria aumenta il problema delle contraddizioni e dei conflitti che le tradizionali visioni unificate del mondo trasferivano al loro esterno, così come le società tendono a trasferire il loro nemico interno all’esterno dei loro confini, nel regno del caos e del disordine. È un prezzo assai caro di quella identità che sostituisce all’autoriflessione critica il proprio senso di sicurezza. È per questo che, per esempio, l’idea di unità necessaria tra mente e natura, proposta da Gregory Bateson in opposizione al materialismo meccanicistico e allo spiritualismo, gioca, a mio parere, un ruolo decisivo. Ma è anche per questo che il suo monismo, cioè la soluzione dell’“unità necessaria” in una visione unificata del mondo, appartiene a un altro livello, quello della rassicurazione filosofica.

La distinzione è importante, perché può evitare la trasformazione dell’idea monistica in una identità senza autoriflessione. Ora, sono convinto che le ricerche di Mauro Ceruti (nella foto accanto, ndr), così come quelle di Gianluca Bocchi, Sergio Manghi, Francisco Varela, Giorgio De Michelis e altri, si muovano, ciascuna autonomamente, entro ciò che ho chiamato “tensione necessaria” tra entità differenti che sono da un lato la complessità, dall’altro i paradigmi scientifici. In questo senso ritengo vi sia un nesso, sia pure nella reciproca autonomia, tra libri come Il vincolo e la possibilità e La danza che crea di Mauro Ceruti o come Origini di storie di Bocchi e Ceruti,e ciò che andavo scrivendo negli anni 80 e 90 sulle pagine del Manifesto in tema di complessità e autoorganizzazione e in L’evento e l’osservatore, la cui prima edizione fu pubblicata dall’editore Pierluigi Lubrina (con la quarta di copertina ideata da Gabrio Vitali) sotto l’impulso di Mauro Ceruti. Allora Mauro dirigeva insieme a EnzoTiezzi, sempre per Lubrina, la rivista “Oikos”, pietra miliare per la riflessione e la diffusione della nozione di complessità, la cui redazione era composta da Gianluca Bocchi, Marcello Buiatti, Federico Butera, Marco Casonato, Paolo Degli Espinosa, Giorgio De Michelis, Bruno D’Udine, Elena Gagliasso, Stefano Isola, Sergio Manghi, Giorgio Pizziolo, Gabrio Vitali e da me. Dopo Milano, ci incontrammo a Parigi e insieme andammo ad assistere alla prima lezione di Francisco Varela che si insediava all’università. E poi ancora voglio ricordare il Dipartimento di Epistemologia fondato a Perugia dalla Regione Umbria, un’iniziativa istituzionale oggi pressoché impensabile, e il convegno a cui parteciparono James Lovelock, Francisco Varela, Lynn Margulis, Giorgio Parisi e altri. Sulla scorta di Physis. Abitare la terra, un volume da lui curato insieme a Ervin Laszlo, che raccoglieva gli atti di un convegno tenuto a Firenze, Mauro Ceruti, nel presentare il convegno, sottolineava come nella ricerca occorreva affrontare tre sfide: la sfida ecologia, la sfida della complessità, la sfida della politica: «un ripensamento dei rapporti tra uomo e natura richiede un sapere in grado di superare la Scilla di una scienza che pretende di controllare e di manipolare la natura, indefinitamente e indiscriminatamente, ad uso e consumo dell’uomo, e la Cariddi di una filosofia che vede invece nella tecnologia umana il “male” e nelle leggi della natura, considerate necessarie e immodificabili, il “bene”, il “buono”, la norma da assecondare e a cui assoggettarsi».

Infine, desidero ricordare il convegno di Milano del 1990 su Gregory Bateson, con Edgar Morin, e altri. Nella mia relazione cercai di introdurre i temi del “pensare per storie” e del “creare contesti” come aspetti decisivi della critica dell’epistemologia moderna, che ci permettono di comprendere come il concetto di complessità, emerso dalle scienze fisiche e biologiche, trovi una fonte naturale in quel campo delle relazioni simboliche, sociali e umane, al cui interno, in fine dei conti, hanno luogo la conoscenza e i paradigmi che ne sorreggono la scientificità. La conoscenza storica, in questo senso, riguarda di per sé oggetti che sono per loro natura complessi, proprio in quanto non di oggetti si tratta, ma di soggetti irriducibili all’addomesticamento delle descrizioni pure e neutrali. Il convegno ebbe un enorme impatto di pubblico. Lì toccammo con mano che qualcosa era davvero cambiato dal punto di vista epistemologico, anche se, guardando con gli occhi di oggi, la speranza che tale cambiamento influisse sulla politica in chiave sociale e in chiave ambientale, non si realizzò. E tuttavia le tre sfide di cui parlava Mauro Ceruti, la sfida ecologica, la sfida della complessità, la sfida della politica sono ancora lì che ci attendono. Ad esse aggiungo la sfida della storia in un’epoca che tende a vivere quasi solo per il presente, dimenticando il passato e il futuro.

Vicino al titolo, particolare di un’opera di M.C. Escher.

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