A proposito di "Primitivo americano"
La poesia dei sensi
Escono finalmente tradotti in italiano da Paola Loreto, i versi della poetessa americana Mary Oliver. Nelle sue liriche la ricerca di un nuovo spirito dionisiaco
Più di una volta, leggendo Primitivo americano (Einaudi, 2023, pagg. 180) – primo libro tradotto in italiano di Mary Oliver, poetessa statunitense, scomparsa pochi anni fa, molto amata in patria, ammirata, letta, pluripremiata – mi è tornata in mente una poesia di Dylan Thomas: La forza che attraverso lo stelo sospinge il fiore: “La forza che attraverso lo stelo sospinge il fiore/sospinge la mia verde età; quella che spacca le radici degli alberi/è la mia distruttrice”. La Oliver, è bene dirlo subito, è del tutto distante da Thomas e dalla sua poesia visionaria e spesso oscura, dalla sua musicalità densa, dalla sua tessitura complessa. Eppure con il poeta gallese condivide lo stesso impeto panico, la stessa concezione della natura come crogiolo ribollente di vita e di morte.
Paola Loreto, che ha curato mirabilmente questa edizione con la passione della studiosa e della poetessa (invito a leggere la sua “Nota alla traduzione”), parla di “libro dionisiaco” di un “libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollabile della natura”. E basterebbero a conferma pochi versi luminosi di Attraversando la palude :“Questo è il cosmo/infinito, fitto,/bagnato, il centro/ di tutto – la vena/ di linfa densa, di tralci/ramificati, pantani/di lappole, bui,/appena eruttanti” e dove la Oliver si sente “splendente /di mota grassa/d’erba – il midollo/ricco, succulento/della terra” o un “povero stecco”, “un ramo che ancora potrebbe,/ a distanza di anni, metter radice,/germogli, gemmare/fiorire – / fare della sua vita un palazzo/vibrante di foglie”.
O si legga L’albero del miele: “Ma ora striscio su come un serpente,/ mi arrampico come un orso fino/a dove il muso annusa, fino alla luce”. Oppure The Sea, nei cui versi vive il desiderio di tornare creatura marina, con “pinne, branchie che/ si aprono come fiori nella/ carne”.
L’aspirazione alla felicità, la pulsione erotica e la fame di vitalità passano per la Oliver nel ritorno alla confusione pre-umana (o post-umana), in grado di reinserirci in cicli stagionali e in altre forme organiche, in altri corpi. Conoscere il mondo è conoscerlo attraverso i sensi, nutrendosi fisicamente di esso, diventando parte costitutiva delle sue linfe, dei suoi umori. La poesia della Oliver non può che essere poesia di emozioni, sensazioni, percezioni, di uno sguardo ravvicinato sui “misteri inosservabili”, di un esame accurato, da botanica, si direbbe, o da zoologa.
Libro di una compattezza rara, American primitive (1983) è un’epitome perfetta dei temi che si ritrovano nelle sue numerose raccolte. In queste poesie incontriamo i paesaggi amati dalla poetessa, l’Ohio, dove era nata, e Cap Code, dove viveva, e nella cui natura si aggirava e camminava per ore, fermandosi ad ammirare le mille forme viventi. Nei suoi versi ricorrono paludi, laghi, boschi, fiori, frutti, insetti, uccelli, pesci, alberi, animali, i paesaggi marini del Massachusetts: un Eden primordiale dove tutto vive, muore, si trasforma, nelle “infinite cascate della metamorfosi”. Dove ogni esistenza trova posto, viene osservata, vissuta, auscultata: “Conosco più vite che vale la pena di vivere” (Megattere).
La natura di Oliver non è né materna né matrigna: è quel che è, feroce e buona al tempo stesso, creatrice e distruttrice, selvaggia e tranquilla. È la forza che lega passato, presente e futuro del mondo e dell’umanità, un rituale perenne di nascita-morte-rinascita, ere geologiche ed ere biologiche che ci attraversano, noi creature nate dalle paludi: “Ma questi sono i boschi che ami,/dove il nome segreto/di ogni morte è una nuova vita – un miracolo/certo operato non da una semplice trasformazione/ma da una rimessa in scena densa, bruciante. Non/tenerezza, non anelito, ma audacia e forza bruta/fan crollare la cascata di ghiaccio, il passato” (Cavolo di palude).
O come nella poesia Il pesce: pescato e mangiato, schiude al poeta un’epifania metafisica: “Adesso il mare/è in me: sono il pesce, il pesce/luccica in me; siamo/risorti, in un groviglio, certi di/ricadere nel mare. Col dolore,/e il dolore, e ancora il dolore/alimentiamo questa trama febbrile, nutriti/dal mistero”. E ancora: “Ciò /che sappiamo: siamo di più/del sangue – siamo di più/della nostra fame eppure/apparteniamo/alla luna” (Fioritura).
La scrittura della Oliver è sobria, piana, spesso di una semplicità sconcertante, con un passo narrativo scandito da continue spezzature. Ma il suo stile, nella più pura tradizione del New England, nasconde percorsi profondi, accensioni fulminee e venature di ambiguità semantica. È il parlare “obliquo” della Dickinson e di Robert Frost, citati nella introduzione dalla Loreto insieme agli altri maestri della Oliver, a cominciare da un’altra grande poetessa di quei climi: Elisabeth Bishop.
Come la Bishop, con la quale condivide non solo la volontà di “immersione totale”, ma anche la meticolosa abilità di osservatrice, Mary Oliver descrive minuziosamente fenomeni naturali e mentre li descrive, li scopre, li esplora. Ma differenza della Bishop, la Oliver non sente il bisogno di ritrovare nel mondo la presenza di Dio: la sua è una poesia dello stupore appagante, una poesia aconfessionale in radice perché radicalmente panteista. Una poesia dell’attenzione partecipata, dell’amore senza giudizio per tutte le creature, per “tutto ciò che è mortale”, per quel tutto che vive “muovendosi/da una visione luminosa all’altra, per sempre/in questi pascoli momentanei” (Canto d’autunno). Poesia, dunque, come glorificazione del mondo.
Paola Loreto, a cui va il benemerito lavoro di far conoscere da noi questa altissima poesia, definisce Mary Oliver “la mistica del Cap” e non sbaglia. In Maggio, una dei più intensi momenti di questa raccolta, il poeta, come le api, si tuffa dentro i fiori “per succhiare il loro miele spirituale”, ormai consapevole che anche “il fiorire del corpo fisico”, parte del “miracolo di cui ogni cosa”, vale quanto “una poesia o una preghiera, può perfino/illuminare qualsiasi posto oscuro della terra”. È quasi una dichiarazione di poetica.
Concludo su questo aspetto, il fare luce della poesia. In un bellissimo volume sulla letteratura angloamericana, Nelle vene d’America (JacaBook, 2013), Antonio Spadaro, tra i primi a parlare della Oliver nel nostro Paese, già intuiva come la poesia della Oliver, “levigata come un sasso di fiume”, fosse in grado di condurre il lettore non solo verso scoperte interiori, ma anche di dischiudere “una visione intrisa di grazia del mondo” nelle oscurità misteriose dell’esistenza.
Post scriptum.
Se c’è una poesia civile oggi questa non può che essere anche una poesia ecologica, che protesti per il disastro ambientale, che denunci l’affermarsi del post-umano come mera tecnologia predatoria e come assenza di corporeità. E che esprima, al contrario, la volontà di rispettare la natura, di riconnettersi a quanto vi è di più autentico e primigenio, che cerchi di vincere la disperazione. Che rivendichi, infine, un’etica del fare poetico come strumento per conservarci umani.
Primitivo americano è un manuale d’amore per la Terra. Ma ancora di più un manuale per noi stessi, per riscoprire un paradiso di cui dovremmo sentire nostalgia, che era nostro e potrebbe ancora esserlo. Per tornare a godere della bellezza del mondo. La Terra non ha bisogno di essere difesa, sa da sola come difendersi dalle devastazioni dell’antropocene. È l’uomo ad essere in pericolo.
La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo. Quella di Mary Oliver è di Mariana Cook.