In margine a un film di successo
Quei cani sovversivi
Il nuovo film di Luc Besson usa i cani per parlare di solitudine, di amore, di Dio e degli uomini. In fin dei conti, letto alla rovescia, God diventa Dog...
Che canaio! Dall’inizio all’ultimo, non peregrino fotogramma. Un’epopea cinologica – cani in tutte le salse, di ogni razza, per tutti i gusti – che ha scatenato commenti accesi e contrastanti reazioni. Dogman di Luc Besson. Accolto, malgrado il pedigree, come un fastidioso randagio a Cannes; ma una volta immessi nel circuito, quei cani che più bravi non si può hanno infiammato i cuori di massai e massaie con i loro Fuffy e fatto gonfiare di amorevole orgoglio i pettorali di palestrati e palestrate con i loro King.
I critici, invece, si sono arditamente issati su opposte barricate: capolavoro vs bufala, lodi sperticate vs giudizi beffardi sul “melodramma canino”, alimento per chi “ritiene che i cani siano migliori degli uomini”.
Ma davvero Luc Besson, che ha regalato al pubblico gioielli come Léon, si è convertito e inchinato ai dogmi della cinofilia, fino a sciogliere un’ispirata laude al “miglior amico dell’uomo”? Con tanto di esergo alla pellicola: “Ovunque ci sia un infelice, dio invia un cane”, un’inequivoca massima di Alphonse de Lamartine.
Senza pretesa alcuna di dirimere la diatriba critica (clicca qui per leggere il diario di Ida Meneghello), vale la pena tentare di individuare gli elementi fondamentali, quelli che danno corpo e fanno camminare la storia. Sono almeno tre: l’infelicità, ovviamente i cani e dio. Ci sarebbe anche l’amore, di cui si dirà.
Per mettere a fuoco il primo, bisogna innanzitutto soffermarsi sul protagonista. Anzi, prima ancora, sull’attore, Caleb Landry Jones, che cesella un’interpretazione da Oscar (e se non glielo danno, i giudici dovranno finire i loro giorni vendendo noccioline e bonbon nelle sale cinematografiche).
Caleb? Ma non è un nome biblico? Così pare. E che vuol dire? In ebraico dovrebbe significare “cane che latra”. Straordinaria coincidenza. Caleb, cioè nel film Douglas, Doug… Doug? Ma che incredibile assonanza con dog (cane); per non dire che se si leva la “u,” diventa proprio Dog a tutti gli effetti.
Insomma, Caleb/Doug è a pieno titolo infelice; maltrattato dal padre, che finirà col rinchiuderlo nella gabbia dei cani, e costretto a stare in carrozzella per una fucilata, del padre, che gli ha leso la spina dorsale e mozzato un dito.
Caleb/Doug non è il solo infelice. Anche la psicologa che lo visita in carcere ha le sue grane. Con un figlio piccolo, separata da un marito che, malgrado l’ordinanza del giudice e le rimostranze della moglie, continua a gironzolarle attorno con la scusa di voler stare vicino al piccolo.
Dei cani è quasi inutile parlare. Occupano ogni interstizio della pellicola. Infine dio. Che i dialoghi tirano a più riprese in ballo, riproponendo antiche domande e inquietudini. Ma ecco un’altra obiezione: una storia irreale con quei cani che hanno una destrezza e un acume da James Bond. Verissimo. Ma qualcuno ha mai obiettato all’irrealtà di una volpe che, rimasta a bocca asciutta per non essere riuscita a raggiungere l’uva, commenta sussiegosa: “Non è matura, di certo non la prendo acerba”? E allora perché sbalordirsi se Besson-Fedro, per le sue finalità, sguinzaglia cani che, sotto la regia di Doug, sgominano una banda di criminali taglieggiatori, svaligiano le case dei ricchi, massacrano un assicuratore corrotto?
Cani, si capirà nel procedere del racconto, dai tratti sovversivi. Per volontà e bocca del loro profeta Caleb, predicano un nuovo, auspicabile, ordine del mondo, avviano un’opera di redistribuzione della ricchezza, concentrata nelle mani di pochi, in spregio alle leggi che, commenta il protagonista, sono fatte dai ricchi per fregare i poveri.
In quest’ottica, la performance canina si rivela un apologo morale. Che squaderna sotto gli occhi, senza la compassata intellettualità di T. S. Eliot, una terra desolata. Un pianeta dominato dall’ingiustizia, dalla cupidigia. Un mondo alla rovescia perché privo di amore; quell’amore che, variamente modulato, dovrebbe costituire la linfa vitale dell’umanità, la base di ogni convivenza. Amore che ha in dio (comunque venga configurata la divinità o espresso l’assoluto) ha il suo motore immobile.
Ma c’è tanto melodramma, altro rilievo. Vero, Besson non si tira indietro di fronte alle tinte forti, alle esagerazioni. L’epilogo, che sembra voler mimare la tragedia del Golgota (ma in cui ricomparirà un barlume d’amore, sotto la stretta vigilanza di un cane), è estremamente melodrammatico. Ingmar Bergman, altro propalatore di quesiti esistenziali, avrebbe scelto soluzioni meno teatrali, più contenute. Ma ognuno adopera le forme espressive che predilige, o che ritiene più utili.
Per illustrare il suo pensiero, Besson semina tracce sulla strada verso la divinità assente. La fede sterile, cieco dogmatismo, della famiglia del protagonista. Caleb/Doug, già detto. Dog, è noto a chiunque mastichi un po’ di inglese, è l’inverso di God. Alle sbarre della gabbia in cui è rinchiuso il ragazzo, padre e fratello appendono uno striscione: “In the name of God”. Il giovane Doug, e quindi attraverso i suoi occhi lo spettatore, leggerà alla rovescia. God diventa dog; non solo: name, visto al contrario, fa baluginare man e rilancia il titolo dell’opera, che già allude al mondo capovolto che vuole descrivere. Una realtà che fa sgorgare, dalla bocca del protagonista, la domanda che, forse più di tutto il resto, dà senso all’intera vicenda e risuona di drammatica attualità: “Ma dio crede in me?”