Al Palazzo delle Esposizioni di Roma/2
Fotografia del dolore
Come si usa la camera oscura? Qual è il segreto dell'attesa del fotografo? Nell'omaggio romano a Don McCullin, fotografo che ha raccontato tutte le guerre più recenti, c'è la risposta
Don McCullin a Roma è una imponente mostra di duecentocinquanta fotografie che dal 10 ottobre 2023 al 28 gennaio 2024 sarà ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma. È la prima grande retrospettiva in Italia, l’esposizione più ampia mai dedicata al fotografo britannico di fama internazionale Donald McCullin (1935, Finsbury Park, Londra).
La mostra, che raccoglie le diverse fasi del suo lavoro, dagli inizi sino alle fotografie più recenti, è curata da Simon Baker in stretta collaborazione con Don McCullin e Tim Jefferies e con l’assistenza di Catherine Fairweather, Jeanne Grouet, Lachlann Forbes e si riallaccia idealmente, ma in forma più ampia per l’inserimento della sezione sull’Impero Romano, all’antologica della Tate Britain curata da Simon Baker nel 2019. “È stato necessario quasi un anno e mezzo di preparativi per arrivare all’evento romano”, ha affermato Marco Delogu, direttore del Palazzo delle Esposizioni.
Estraggo dalle note biografiche: Don McCullin è autore di oltre una dozzina di libri e le sue opere sono presenti in numerose collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. Nel corso degli anni gli sono stati conferiti molti riconoscimenti tra cui i prestigiosi premi del World Press Photo, il Cornell Capa Award dell’International Centre for Photography di New York per il contributo dato alla fotografia nella sua intera vita nel 2006, il Lucie Award per i suoi successi nel campo del fotogiornalismo nel 2016 nonché il premio alla carriera dell’International Centre for Photography nel 2020. La sua importanza nell’arte britannica è stata confermata da una retrospettiva dedicatagli dalla Tate Britain nel 2019, poi replicata alla Tate Liverpool nel 2020. Nel 1993 è stato il primo fotoreporter a essere nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico (CBE) e in seguito nel 2017 è stato insignito del titolo onorifico di baronetto.
La retrospettiva romana è accompagnata dall’uscita di un nuovo libro dal titolo Life, Death and Everything in Between, pubblicato da GOST Books, Londra.
Sono proprio i concetti di vita, di morte e di tutte quelle cose nel mezzo che non hanno dignità di nome, definizione, chiara individuazione perché affastellate, strazianti, incomprensibili e incomprese, schiacciate nel percorso della vita, che definiscono questa imponente mostra in cui, quando si parla di vita e di morte e di tutte quelle cose in mezzo, non si sa bene se ci si debba riferire ai racconti fotografici o alla vita stessa dell’autore, al suo percorso esistenziale che è legato inestricabilmente alla sua vita professionale, a cominciare dal primo servizio fotografico che realizzò Guv’nors of the Seven Sister Road, la banda di violenti che McCullin conosceva personalmente. È proprio la fotografia I Guv’nors in abito da festa, Finsbury Park, Londra, Inghilterra, 1958 ad aprire la mostra, una stampa ai sali d’argento delle dimensioni di centimetri 50,8 x 60,96. L’annotazione della tecnica di stampa e delle dimensioni dell’immagine esposta non sono pleonastiche, ma hanno uno stretto riferimento con le scelte linguistiche ed espositive che McCullin ha voluto operare, ma del suo particolare bianco e nero ne parleremo più avanti.
Don McCullin nella postfazione al libro Homecoming descrive la sua infanzia con queste parole: “Conosco l’odore della povertà. È simile a quello di uno strofinaccio per il pavimento che non è mai stato lavato se non nella sporcizia del pavimento stesso che sta cercando di pulire…”.
Nell’accompagnare le foto degli Esordi, la prima delle sei sezioni che compongono la mostra, l’autore si ricorda così: “Sono cresciuto a Finsbury Park, a Londra che allora era un quartiere operaio molto povero. Mio padre, mia madre, mio fratello ed io dormivamo in una stanza buia nel seminterrato in cui mio padre ha passato la vita a lottare contro l’asma cronica. La mia paura era che morisse. La mia forza è stata contribuire alla sua riscossa… Queste non sono un sacco di stupidaggini sentimentali, ma un dato di fatto: ecco perché le ragioni della mia presenza oggi come fotografo sono di natura emotiva, cosa che gli altri faticano a capire. Molta gente mi chiede: perché fa queste foto? È perché so che cosa provano le persone che fotografo”. Una dichiarazione, questa, che rende esplicito il rapporto di McCullin con il suo lavoro, quello di un’immersione esistenziale, di una necessità interiore di aderire all’altro.
Nelle foto della Londra della fine degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta l’occhio del fotografo ci restituisce una città che sembra guardare al passato e allo stesso tempo al futuro: pecore che vengono ancora portate al macello all’alba, appena dietro alla stazione di Kings Cross, mentre intorno nuove comunità si insediano e nuove mode e tendenze politiche prendono piede. Il primo “incarico” (si fa per dire) all’estero fu lui stesso ad assegnarselo, visto che si pagò personalmente il biglietto per Berlino: 42 sterline, la paga di un mese. Era proprio nel momento in cui si procedeva alla costruzione del Muro. McCullin ritornò con immagini che gli avrebbero valso un contratto con il quotidiano The Observer e il suo primo Press Award.
McCullin ha lavorato come inviato di guerra per importanti giornali britannici, oltre al già citato The Observer, anche per The Sunday Times, esponendosi per i suoi servizi a grossi rischi. Se la prima delle sue guerre fu quella dello scenario della Berlino divisa, le sue prime vere e proprie esperienze di reporter sulla violenza di guerra le ha vissute a Cipro, in Congo e poi in Vietnam, sempre spinto dall’imperativo morale di mostrare la guerra senza infingimenti. L’elenco prosegue col Biafra, col Bangladesh, con l’orrore della guerra civile in Libano fino ai disordini nell’Irlanda del nord. Nonostante nel 1979 si fosse ripromesso di smettere di fotografare guerre e conflitti, McCullin ha continuato di quando in quando a rimettersi in gioco, documentando la repressione dei curdi in Iraq agli inizi dei primi anni Novanta e la seconda guerra irachena nel 2003 e, più recentemente, anche quella in Siria.
Le esperienze vissute durante i reportage di guerra hanno segnato in modo indelebile Don McCullin tanto che i riferimenti, sia verbali che fotografici, anche quando ha affrontato mille altri reportage, ossessivamente presenti negli occhi, nella mente e nel cuore, dell’autore (tanto che le 6 sezioni in cui sviluppa la mostra: Esordi, Guerre e Conflitti, Immagini Documentarie del Regno Unito, Immagini Documentarie dell’estero, Paesaggi e Nature Morte e L’impero Romano) finiscono per costituire un unico tragico racconto.
Come accennato precedentemente, le foto in esposizione sono in bianco e nero (per McCullin sarebbe paradossalmente e con tutto il rispetto che il caso impone, più consono utilizzare la locuzione “declinazioni del nero”) e sono di vario formato, tutte stampate in camera oscura dall’autore stesso.
Quando si fotografa si vive una prima esperienza; ci si muove insieme al fluire degli eventi, cercando di capirli e di individuare il punto di vista che si ritiene più significativo. Non si sa ancora cosa sia fissato sulla pellicola. Quando si entra in camera oscura, ci si muove al buio in mezzo ai ricordi, davanti ad una immagine negativa che deve essere di nuovo interpretata dosando le luci sotto l’ingranditore, caricandole in alcune aree della superficie sensibile e “mascherandole” in altre per ottenere il positivo che corrisponda alla nostra visione, al significato che abbiamo capito di voler dare all’immagine, per ottenere la fotografia da esporre.
Sia chiaro, in camera oscura, di qualsiasi evento si tratti, di un pianto o di un sorriso la stampa non è mai un processo indolore.
Tutto ciò contribuisce ad avvicinarsi all’anima della mostra in questione. Perché se è vero che ci troviamo di fronte a una serie ricca di fotografie, provenienti da varie parti del mondo, che raccontano di avvenimenti che ormai appartengono alla storia, è pur vero che i reportage rappresentati lo sono parzialmente. Il loro racconto, quindi, riguarda sì il Biafra, sì la guerra di Cipro, sì il Vietnam, sì la povertà in Inghilterra, sì il Somerset o i resti dell’Impero Romano in Siria, ma soprattutto, le 250 fotografie, riguardano il percorso umano di Don McCullin e la sua necessità di capire e raccontare.
“Fotografare non vuol dire semplicemente scattare. Ha a che fare con l’esperienza di essere lì. Nelle mie fotografie metto quelli che sono i principi che ho in testa e quello che mi propongo di fare. Ci metto il senso di ciò che sono e di ciò che ho visto. Ci metto dentro la mia identità attraverso il mio modo di stampare e di comporre le foto. Ci tengo tengo che la gente guardi le mie foto. Non voglio che non siano accettate perché la gente non ce la farebbe a guardarle. Spesso sono immagini di atrocità. Ovvio che lo sono. Ma quello che voglio è dare una voce a coloro che compaiono nelle foto. Voglio che quella voce persuada davvero le persone ad indugiare un po’ di più davanti alle foto affinché non se ne distolgano con un ricordo minaccioso ma consapevoli di un obbligo: Penso però che il rischio di una inerte acquiescenza sia sempre presente. Questa è la vera cosa contro cui bisogna lottare”.
Dopo gli anni duri di reportage di guerra McCullin sentì il bisogno di interrompere quel periodo di atrocità con le fotografie di paesaggio: “Dopo aver fotografato guerre e rivoluzioni per vent’anni, i ricordi di quegli anni dolorosi cercano quasi sempre di rovinarmi le giornate anche adesso in Inghilterra. Mi ricordo i sorrisi contorti dei cadaveri in quel loro sonno eterno; ancora mi ossessionano e fermentano nelle oscurità del mio io mentre passeggio nei campi del Somerset. La mia consolazione sta nel documentare quello che resta del bel paesaggio del Somerset e i suoi cieli scuri e metallici, che contribuiscono a dare di questa contea un’impressione di antico e talvolta di remoto, come se il passato fosse in lotta col futuro. La quiete del silenzio, e a volte, la mia solitudine accendono la mia immaginazione ma, proprio come la terra che mi circonda, anch’io sto combattendo dentro di me per lasciare andare il passato… Nei miei paesaggi si vedono le scure nuvole wagneriane, che quando stampo scurisco ulteriormente, la nudità degli alberi e il vuoto che fanno sembrare la terra come se fosse stata bruciata o polverizzata dalle bombe”.
Agli inizi del Duemila McCullin ha dato inizio a quello che lui stesso pensa che sarà il suo ultimo grande progetto, A Journey Across the Roman Empire, una sorta di immersione fotografica culturale, architettonica e storica sui resti dell’Impero romano nell’area del Mediterraneo meridionale dal Marocco, all’Algeria nel sud ovest fino alla Siria e al Libano nel nord est. Lo sguardo è contemporaneo, ma McCullin vede oltre, guardando attraverso la storia: “Quelle colossali strutture di pietra dell’epoca romana risalenti a duemila anni fa mi riempivano di meraviglia, poi mi sono reso conto di come erano state realizzate. Tramite crudeltà. Tramite la malvagità e la schiavitù. La loro incredibile realizzazione era frutto della brutalità. Mi hanno fatto pensare ai campi in Germania dove le persone lavoravano fino a stramazzare a terra. Nello stesso momento in cui la guardavo questa meraviglia vi veniva sottratta. Mi sembrava quasi di riuscire a sentire le grida delle persone schiacciate sotto quei pietroni enormi”.
Life, death and everything in between. What else?