Al Teatro Vittoria di Roma
Edipo e la Pizia
"La morte della Pizia" di Dürrenmatt nella versione teatrale diretta da Giuseppe Marini con Patrizia La Fonte e Maurizio Palladino è un grande omaggio al mito e allo scrittore svizzero. Un gioco ironico e raffinato sul caso in conflitto con la volontà
La Pizia, scocciata di dover fare un oracolo quando il suo ufficio era in orario di chiusura, e stizzita dalla prosopopea del richiedente, il principe di Corinto, «gli fece una profezia che più insensata e inverosimile non avrebbe potuto essere, la quale, pensò, non si sarebbe certamente mai avverata, perché nessuno al mondo può ammazzare il proprio padre e andare a letto con la propria madre». Comincia così La morte della Pizia, uno dei racconti più colti, profondi eppure spassosi di Friedrich Dürrenmatt (1921/1990), grande scrittore svizzero di lingua tedesca. Ebbene, non perdete la versione scenica che, di questo racconto, si dà in questi giorni al Teatro Vittoria di Roma, con Patrizia La Fonte (anche autrice dell’adattamento teatrale con Irene Lösch) e Maurizio Palladino con la regìa di Giuseppe Marini: un’ora e mezza ben spesa.
Partiamo dal racconto che, come si sarà capito, ruota intorno a Edipo e all’intero ciclo tebano. La premessa, abbiamo visto, è che la profezia che indirizza il terribile destino di Edipo sia in realtà il frutto di un capriccio, un’assurdità vaticinata per caso dalla sacerdotessa di Apollo. E, dunque, in principio Dürrenmatt ricama sul rovescio del mito di Edipo: la sua sventura è determinata dal capriccio degli uomini, non dal volere degli dèi. Tanto meno da sé stesso, che – secondo il mito e secondo Sofocle – con tenacia persegue un successo effimero, sia a Corinto sia a Tebe: cerca di piegare con la volontà il suo destino. Il guaio è che, con l’approssimarsi della morte, la Pizia moltiplica la sua capacità visionaria e, aiutata da un altro esperto del ramo, Tiresia, ricostruisce l’esistenza non di uno ma di tre, quattro, forse cinque Edipo. Ciascuno di loro colpevole di aver ucciso il proprio padre (non Laio, ma il vero padre, per ognuno diverso) e di essersi congiunto con la madre (Giocasta, sempre lei, che del resto qui viene descritta come una donna di facili amplessi). Insomma, lo avete capito: la verità è più casuale del caso. Anzi, sembra che il Fato si affanni a inseguire le cose che succedono per certificarne la casualità; senza mai riuscirci fino in fondo, per altro. E in questo labirinto, ovviamente, nessuno sa più chi è e finisce per dar retta alle visioni. O alle predizioni, appunto.
Dürrenmatt era un uomo di straordinaria cultura e ironia. Per esempio, aveva fama di menagramo conclamato sicché quando, chiacchierando con qualcuno, s’accorgeva che l’interlocutore aveva qualche modesto incidente (inciampava, o gli si agganciava un pantalone a un rovo, o gli cadevano gli occhiali), subito chiedeva scusa, spiegano di essere lui la causa dell’inconveniente. Naturalmente, sono testimone diretto di ciò che ho appena detto. E questo comportamento raffinato e ironico al tempo stesso era la cifra della sua scrittura che, con la leggerezza del sorriso (amaro) riusciva ad andare in grande profondità nell’analisi dell’individuo e delle società. Romolo il grande e I fisici di Dürrenmatt in questa chiave restano due tra i testi più lucidi e belli del secondo Novecento. Privi di chiare accensioni ideologiche ma impietosi nel ritrarre uomini vinti dall’interesse, dal potere, dall’ignoranza.
Ma quell’ironia e quella colta raffinatezza traspaiono anche dal piccolo, prezioso racconto La morte della Pizia. E, diciamolo subito, tutto il meglio dell’originale viene preservato e illustrato alla perfezione dallo spettacolo di Giuseppe Marini. Non era facile trasporre in scena le vicende narrate. Per esempio, tra realtà e visione, nel racconto compaiono numerosi personaggi ciascuno di capitale importanza: oltre alla Pizia Pannychis XI e al sacerdote del tempio, Merops XXVII, ci sono Edipo, Giocasta e suo madre Meneceo, Laio, Creonte e Tiresia. Qui, il gioco dei volti e dei ruoli si fa teatro allo stato pure: le varie voci e fattezze vengono tutte impersonate dai due (bravi) interpreti. Volta a volta trasformati nell’uno o nell’altro grazie a qualche piccolo trucco da teatro (un velo, un cappello, un paio d’occhiali approntati dalla costumista Helga H. Williams): sono accenti minimi sufficienti a caratterizzare i personaggi. Così è il teatro, del resto: una finzione che viene naturale credere vera.
I suoni e gli effetti di Paolo Coletta e le scene di Alessandro Chiti (un enorme ritratto di Apollo incorniciato sul fondo) dànno ulteriore tocco di linearità e chiarezza alla rappresentazione. Perché poi sono le parole di Dürrenmatt il cuore di questo spettacolo: tutto il resto è la magia che ci induce a seguirle con passione. E anche a capirle.
Le fotografie dello spettacolo sono di Pino Le Pera.