Arturo Belluardo
Editoria d'arte

Poesia in bianco e nero

Incontro con Mariagiorgia Ulbar, poetessa e curatrice della “Collana Isola", una raccolta di libri che supera i generi tradizionali: «Le case editrici si muovono ancora intorno a una netta divisione tra categorie che, secondo me, è un moto contrario a quello della letteratura»

Il prossimo 11 ottobre dalle 18,30 ci sarà un gran festa di poesia alla Libreria TIC in Piazza San Cosimato a Roma. Protagonista la “Collana Isola”, che pubblica libriccini di poesia e illustrazione di autor* contemporane*. Prodotte e distribuite in maniera garibaldina, quasi in un passaparola da tiaso di adepti, le plaquette della Collana sono concepite, realizzate, fatte stampare e spedite grazie alla cocciutaggine abruzzese di Mariagiorgia Ulbar, una delle voci più interessanti e oblique del panorama poetico italiano. Ed è un progetto che va avanti da undici anni, a cadenza irregolare, ma inesorabile. Incontro Mariagiorgia Ulbar qualche giorno prima dei festeggiamenti.

Ulbar, come nasce la “Collana Isola”? Cosa l’ha spinta a creare questa serie di pubblicazioni che per me rappresentano un’antologia preziosa, singoli capitoli di un unico volume che si arricchisce di nuovi compendi anno dopo anno? Per citarla, io vedo la sua Collana come un invito a “mettere in un sacchetto il nostro oro/se dovesse servirci all’improvviso/per mangiare, lasciare un posto troppo buio,/salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo”…

La Collana Isola nasce a Bologna intorno al 2012, da una prima collaborazione tra Andrea Bruno, riconosciuto fumettista di nascita catanese e me, per un piccolo libro che conteneva un mio poemetto con cui Andrea era entrato in dialogo con dei disegni. Il formato è lo stesso della vecchia Stampa Millelire, anarchica, sghemba ed eroica, che è stata fondamentale per le letture di chi negli anni 90 aveva voglia di leggere, era giovane e con una paghetta irrisoria in tasca; la carta è sempre la stessa, una Fedrigoni Betulla riciclata, sempre sempre sempre bianco e nero. Dopo quella prima uscita abbiamo sempre avuto voglia di farne altre e oggi sono più di trenta e sono libri che possono dare, con pochi testi, l’idea di un’opera e di un segno, libri che servono a curiosare nella poesia come in un mercato di chincaglierie, dove si scoprono cose prezione, strambe, uniche e lo si fa spesso con la grazia del caso e del fatto che si può acquistare per un prezzo piccolo.

I librini della “Collana Isola” sono curatissimi, illustrazioni prepotenti, mai accomodanti, in un bianco e nero che sa di antichi inchiostri, perle di ostriche del Mar Nero, nere a loro volta. Qual è il motivo di questa scelta estetica?

Il bianco e nero allude, riesce ad essere più potente del colore nel suo evocarlo, in alcuni casi. In un’intervista Letizia Battaglia, che ha fotografato la Sicilia, il popolo siciliano, i morti ammazzati, sempre in bianco e nero, diceva che il sangue, in una fotografia in bianco e nero, sembra più rosso che se fosse rosso. Ho una predilezione personale per il bianco e nero, sia nell’illustrazione che in fotografia e bisogna dire anche che Andrea Bruno disegna solo in bianco e nero, quindi, la Collana ha preso avvio così e così è rimasta. Voglio aggiungere una nota: l’editoria, lo sappiamo bene, anche e soprattutto quella in piccola scala delle produzioni dal basso, delle fanzine, delle stampe irregolari, dei movimenti underground, è possibile soltanto se si fa una valutazione di costi che, tolto lo scopo di lucro, permette a chi sceglie questa sorta di militanza, di stare in piedi. La scelta di una stampa in bianco è nero è funzionale anche a un contenimento dei costi. La Collana Isola ha voluto mantenere questo intento: un prezzo basso per una veste grafica che riesce a essere dignitosa e bella, la scelta di potersi esprimere come oggetto di affezione senza entrare nel campo del culto, del collezionismo – che non disdegno assolutamente, ma è un’altra dimensione, ha un’altra portata sociale, poter essere un libro che ogni persona può permettersi di comprare.

La “Collana Isola” ha il pregio di coinvolgere autori noti, come il compianto Carlo Bordini, e di farci scoprire voci nascoste in caverne di oracoli e poco sentite finora. Ho trovato splendida una delle sue ultime pubblicazioni, la “Plegaria al mar” di Doroty Armenia. Armenia vive a Stafenna, nella campagna tra Noto e Rosolini, nel siracusano, tra tombe millenarie e timo selvatico, allevando trote, e compone in una lingua trobadorica, forse derivante dalla poesia della corte federiciana, che mischia siciliano, catalano, greco e provenzale in versi rigorosissimi e luminosi. Come snida i suoi autori? Come li convince a partecipare alla “Collana Isola”?

Mi viene da sorridere. Nel corso del tempo, ho avuto modo di conoscere personalmente autori e autrici sia nel campo della poesia che del disegno e hanno giocato un ruolo fondamentale il fatto di essere io stessa autrice e lettrice accanita di poesia e di essere una che ama tutto ciò che non sta ai margini o che ha dei margini variabili pur ricoprendo una posizione più centrale o che si muove dentro una dimensione in maniera saltuaria e occasionale e anche il fatto di vivere a lungo in una città come Bologna, di aver collaborato con l’associazione Hamelin, storica nella ricerca nell’ambito del fumetto e illustrazione, in una città che è stata pioniera nel campo. In alcuni casi, come ad esempio quello di Doroty Armenia, è stata pura casualità e pura magia. Mi innamoro delle scritture, cerco sempre, leggo di tutto, sempre cercando di incontrare la scrittura che sa di Isola.

Tornando alla “Plegaria”, questa plaquette ha il pregio di essere corredata da un QrCode che consente di ascoltare il poemetto letto dalla stessa Armenia. La poesia va ascoltata, oltre che letta, va letta ad alta voce, che la lingua inciampi negli ostacoli dei versi e goda proferendo il suono delle parole. Si sta sull’attenti leggendo poesia.

Sì, la lettura ad alta voce è importante, nel caso della Plegaria al mar, poi, è necessaria. Spero di poter inserire la lettura ad alta voce in molte delle prossime Isole.

Da mero lettore, sono portato a prediligere la poesia ambivalente, oscura, che serva da viatico misterico per discendere negli abissi di Orfeo. Mi interessa di più la criptopoesia dei Misteri Eleusini che quella dichiarata, dalla lingua “normalizzata” e quasi quotidiana. Il linguaggio ha grandi proprietà evocative, le singole lettere che compongono una parola possono alludere ad altri mondi, ad altre dimensioni, dove lo spazio e il tempo si sfarinano. Il fumo del Qoelet insomma (mal tradotto in vanità). Mi sembra che la sua azione poetica, sia di autrice che di editrice, volga in questa direzione.

Sì, in poesia cerco una lingua che sia una casa che somiglia a quella di Via dei Matti N.0

Dalla sua biografia, sempre in equilibrio tra Marche e Abruzzo, in giro per l’Europa, Germania, Serbia, Catalogna, lei sembra essere una nomade. È questo per lei la poesia? Un continuo spostarsi sbilenco, un cambiare sempre punto di vista? O ha, sempre per citarla, finalmente trovato “l’isola” e “un posto sicuro dove trascorrere il tempo, riuscendo a stabilire la misura delle cose”?

No, non l’ho trovata. Ogni isola è confortevole e scomoda al contempo, crea la solitudine giusta e poi la smania di uscirne, una coesistenza di sentimenti contradditori che contribuiscono a un’atmosfera non rassicurante, ma certamente viva. Come si fa a far convivere ciò con l’età adulta, la società borghese, è domanda sempre possibile e risposta sempre cangiante.

Veniamo alla sua ultima fatica, “Hotel Aster”, pubblicato da Amos Edizioni. È un testo anomalo, quasi un diario in prosa, ma che utilizza il linguaggio misterico della poesia. Con, sullo sfondo, il crollo dell’Hotel Aster, facilmente riconducibile al racconto di Poe viaggiamo in territori che non sappiamo, a volte onirici, a volte più che reali, ma con un linguaggio puntuale, quasi da cronaca di naufrago, da Robinson Crusoe. Ce ne vuole parlare? E ci vuole raccontare le difficoltà che ha incontrato a pubblicarlo?

La difficoltà è stata legata al fatto che è, appunto, un testo anomalo, e le case editrici, nel panorama contemporaneo, si muovono ancora intorno a una netta divisione tra categorie e generi che, secondo me, è un moto contrario a quello della letteratura. Succede diversamente in posti come ad esempio la Francia, alcuni paesi dell’est Europa, la Germania in alcuni casi. La difficile riconducibilità di Hotel Aster a un genere definito  ha fatto sì che dovesse arrivare una collana editoriale, la A27 di Amos Edizioni, con la volontà di fare un salto di valutazione e considerare il libro una scrittura, parola in cui tutto può convergere che sia riconoscibile, che abbia una peculiarità stilistica, che abbia una costituzione immaginifica e un valore artistico, e così ora il libro esiste e si sta creando la sua strada, il suo spazio, da solo e in un tempo disteso, come è giusto che sia per un’opera. Parlare di Hotel Aster  in poche parole è arduo, così come lo sarebbe se anche avessi molte pagine da spendere. È un libro di cui io sono stata autrice, ma poi anche lettrice, perché quando l’ho ripreso dopo anni si era creata quella giusta distanza che mi permetteva di approcciarlo da un altro punto di vista, in un altro momento del tempo, così ho potuto compiere il mio atto creativo di lettura. Ecco, forse questo: Hotel Aster è un libro che concede a chi legge di compiere un atto creativo molto forte e, di questo, dà sia lo scompiglio che il piacere.

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