Danilo Maestosi
Alla Galleria Nazionale di Roma

Per Rocco Scotellaro

Una mostra molto interessante rende omaggio a Rocco Scotellaro, lo scrittore e poeta lucano. Quarantacinque artisti (da Pier Paolo Lista a Giulia Napoleone) si misurano, qui, con le sue parole: un modo per capire quale sia il rapporto fra arte e letteratura

C’era una volta Rocco Scotellaro (1923-1953). È come una favola che lascia l’amaro in bocca la biografia di questo intellettuale lucano, protagonista e voce del Meridione in cerca di riscatto negli anni tumultuosi del dopoguerra. Una vita da migrante in varie città italiane, sigillata da una morte precoce a soli trent’anni. E da sconfitte, tentativi interrotti prima di arrivare al traguardo: la laurea mancata, un’esperienza politica da sindaco socialista del suo paese natale, Tricarico, bruciata da false accuse e da giorni di prigione da cui uscì assolto ma irrimediabilmente segnato, una produzione letteraria giunta a pubblicazione e a riconoscimenti di prestigio quando era già nella tomba.

Una corona tardiva di poeta contadino che gli sta stretta addosso e rinchiude entro confini troppo angusti la sua vena espressiva. I suoi versi oggi ammirati da un’élite di stimatori e di recente raccolti in un’antologia degli Oscar Mondadori, ma ancora da scoprire dai lettori impigriti di questo Terzio Millennio. Versi che finalmente reclamano echi d’attenzione, resuscitati insieme alla straordinaria aura dell’autore in una mostra d’arte aperta a Roma alla Galleria nazionale di valle Giulia fino al 9 novembre. E sorretta da una scommessa, un patto di complicità lanciato dal curatore Giuseppe Appella, un critico che sa guardare avanti e indietro, col sostegno della Regione Lucania, a 45 autori di solida carriera e di varie generazioni, ai quali è stato inviato il corpo completo della produzione letteraria di Rocco Scotellaro come punto di partenza e d’arrivo attorno cui costruire altrettanti nuovi lavori. Senza alcun vincolo, ma con la preghiera di corredarli con un proprio commento. E citarli come titoli delle proprie opere.

Il risultato è un test davvero illuminante. La grande maggioranza degli artisti confessa infatti di non aver conosciuto Rocco Scotellaro e solo di rimbalzo, senza averli mai letti o studiati, i suoi versi e la sua biografia. Tutti, senza eccezione, confessano di esserne stati conquistati, di averci trovato dentro strade d’ispirazione sorprendenti e impensate. Modi di rivisitare la condizione umana e il rapporto con la natura che sprigionavano visioni. Succede quando arte e poesia si incontrano, scoprendosi diversi e complementari.

Emilio Isgrò, L’uva puttanella

Non è raro che a un artista sia chiesto il compito di rendere omaggio a uno scrittore, illustrarne qualche opera, disegnare la copertina di un libro. O a uno scrittore di presentare o commentare una mostra. Ma succede sempre meno spesso, perché tra questi due campi convergenti di creatività si è consumato, a mio avviso, un divorzio quasi insanabile. Che ha interrotto una feconda contiguità che in passato, nel dopoguerra e fino agli anni settanta, era condivisa da entrambi ed arricchiva la vita culturale del nostro paese. E con sfumature e proporzioni diverse dell’intero Occidente.

Una separazione che certo ha molte cause. Ma ha trovato un’incubatrice, innegabile, nella tendenza onnivora delle arti visive contemporanee a invadere tutti i terreni confinanti della creatività. Teatro, cinema, danza, fotografia, letteratura. Impadronendosi dei loro linguaggi fino a considerarli cosa propria.

È toccato anche al mondo della parola, che lungo le derive dell’arte concettuale da preziosa fonte di ispirazione si è trasformata in opera. A volte con qualche ritocco, spesso senza neppure quello. Preoccupata più di rivendicare quel che stava guadagnando, che di riflettere su quello che stava perdendo, in una linea di tendenza che la rivoluzione tecnologica e l’avvento dei social ha accentuato.

Un sistema di arte parolaia, insomma, che curiosamente ha finito per consegnare gli artisti stessi ad una sorta di rassegnata afasia. E l’industria culturale che sorregge le arti visive resta nel fronte più debole, più esposto alla mercificazione, alla perdita d’identità e di memoria.

Merito di questa mostra è di tentare di muoversi contr’onda. Trovando ancoraggio in una scrittura come quella di Rocco Scotellaro, di emozioni scaturite dalla relazione con la nuda semplicità della terra, delle cose, dei sapori, dell’universo naturale che ci circonda e sovrasta. E di spingere l’arte stessa ad interrogarsi sui propri codici, concentrarsi sul suo modo di dare forma, attraverso l’uso di segni e volumi che seguono regole diverse da quelle della scrittura, all’invisibile.

Cinque le opere che più mi hanno colpito, perché sembrano concentrarsi con più consapevolezza e concisione su questo traguardo. La prima, realizzata da Pier Paolo Lista, un salernitano over 40, tra gli autori più giovani e meno titolati del cast, si intitola Contadini del Sud. È una sorta di arazzo, pochi tocchi di smalto cuciti su un fondale di cristallo temperato. Il lavoro della campagna evocato dalle sagome stilizzate degli strumenti per scavare e trattare la terra. Zappe, rastrelli, picconi trasformati in segni di un mestiere di vita che scavalca lo spazio e il tempo.

La seconda, battezzata dal titolo La terra mi tiene, è un’istallazione molto sobria realizzata da Gregorio Botta, 70 anni, una doppia carriera di giornalista scrittore e di artista, che sa unire e tenere distinte le due diverse vocazioni nell’inseguire il peso e la leggerezza della poesia di Rocco Scotellaro. Un fondale senza orizzonte alla quale ha appeso una sorta di scaffale, sul quale ha allineato libri di cera fusa di varie dimensioni, in posa in un campionario di abiti pastello, dall’ocra, al giallo sbiadito, al verde, al marrone.

La terza è un disegno a graffite, realizzato da Carlo Lorenzetti, romano, vicino agli 80 anni, una virgola di un segno nero più denso e più spesso che taglia una sorte di nube di tracce in chiaroscuro e se ne allontana. La vibrazione di una frase poetica di Scotellaro Io sono un filo d’erba, resa per sintesi puramente visiva.

Piramide di stelle di Giulia Napoleone

La quarta è la traduzione di un’immagine di Scotellaro, Piramide di stelle firmata da Giulia Napoleone, 87 anni, romana; il triangolo di luci su cui si sofferma incantato il poeta, trasformato nella sfera costellata di pulviscoli luminosi, e in un volo più vicino alla realtà, dalla libera fantasia di una pittrice astratta.

Non è una classifica di qualità. Ci sono lungo il percorso almeno una dozzina di opere e autori di grande prestigio, età e stili diversi, che catturano lo sguardo. Da Ruggero Savinio a Nunzio, da Giuseppe Modica a Mimmo Paladino, da Giulio Dessi a Marco Tirelli, da Roberto Almagno a Mario Cresci, ad Alberto Di Stasio. Ho scelto d’istinto quelle che mi sembravano imprimere a questo mostra un segno più forte di svolta, verso un ripensamento dei rapporti tra l’arte e la scrittura. Segnali di una strada ancor vaga e in salita che mi consentono con più nettezza di prendere le distanze da una decina di altri lavori di respiro performativo e concettuale, emblematici dello strappo dannoso, narcisista e suicida tra parola e visione che il sistema del contemporaneo ha avallato.

Due esempi tra tutti. La targa in ottone, replica di una esistente a Portici, con cui Francesco Arena, rende omaggio a Rocco Scotellaro, portando in scena un cimelio della sua morte precoce. E il foglio, acquarello su carta, con cui Giuseppe Caccavale, trascrive i versi di un libro di Rocco Scotellaro, Le parole offerte in doppione come lapidi pedanti di un cimitero. L’arte e la poesia che celebrano il funerale reciproco.

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