“Dove qualcosa manca” e “Il mio amico"
Storie e Storia
Nei due libri recenti di Francesca Zanette e Daniela Matronola affiorano i grandi temi della storia e del "tempo" che vengono affrontati in modo parallelo, lambendo la grande tradizione per poi allontanarsene
In questo tempo di panorami letterari dominati “dalla pietà e dalla beneficenza” – per dirla col Corrado Costa che invitava gli scrittori “a non dare mai ascolto al proprio cuore […] perché il cuore è la guida più falsa che abbiamo ricevuto dalla letteratura” – e di perdite gravi come quelle di Martin Amis e di Cormac McCarthy, il caso mi ha fatto incontrare due libri non recentissimi e molto diversi tra loro, entrambi ricchi di una grazia non comune e di specifici doni d’autore: il romanzo d’esordio di Francesca Zanette Dove qualcosa manca (Readerforblind, 234 pagine, 17 Euro) e i racconti-romanzo di Daniela Matronola Il mio amico (Manni, 112 pagine, 13 Euro).
Entrambi, per ragioni analoghe, mi hanno ricordato un libro uscito per Feltrinelli nel ’93, Leggere e amare, titolo scelto con accurata intenzione dalla sua autrice, Anna Maria Testa, per sottolineare l’ingannevole apparenza dei significati. Infatti, spostando l’accento dalla prima alla seconda “e” di “leggere” e a intendere “amare” non come verbo ma come aggettivo, ecco che il senso cambia del tutto. Già, ma quale sarà quello giusto? E soprattutto, esiste il senso giusto? Dubbi seminati non a caso, tanto per ribadire come nulla, nel campo della parola, possa mai dirsi definitivo. Illustre precedente, quanto ad ambiguità, il gioco con l’ortografia francese che Tommaso Landolfi si è concesso col suo La biere du Pecher (Vallecchi, 1953).
Il piacere con cui ho attraversato il libro di Francesca Zanette – un suo racconto, Contr. Alt. Canc. appare nell’antologia Vite sottopelle. Racconti sull’identità (Tuga Edizioni, 2019) e molti testi di fulminante brevità sono leggibili sul suo profilo Instagram, spesso in dialogo con foto altrettanto belle – e il piacere, analogo, suscitatomi dal libro di Daniela Matronola – che ha all’attivo Il luogo dell’appuntamento. Poesie anni Novanta (Manni, 2002), Partite. Romanzo in tre movimenti (Manni, 2010), Melamangiai. Poesie (RP libri, 2018), Tempo tecnico. Poesie (RP libri, 2019) – mi hanno spinto a disseppellire dalla memoria lo sfuggente Leggere e amare al solo fine, per quanto riguarda entrambe, di escludere subito l’ipotesi che invece di due verbi possa trattarsi di due aggettivi. Ma torniamo ai due libri in questione.
Ambientato in un paesino delle Prealpi venete, Dove qualcosa manca copre un arco temporale esteso dal ’44 al ’58. In quella piccola comunità – una bottega dove si vende di tutto, la parsimonia dei più, tanta vita di chiesa quanti pettegolezzi – i lunghi anni di pace potrebbero aver reso matura la presa di distanza dalla guerra, se non fosse che tra alcuni degli abitanti, impegnati a suo tempo nella Resistenza, esiste un grumo di non detto che l’improvvisa apparizione in paese di un ex ufficiale della Wermacht, anch’egli attivo in zona nel ’44, rende esplosivo.
Una volta ricreatosi l’ordine da cui ebbero origine tanti lutti e sofferenze, impossibile sottrarsi alla resa dei conti che via via, con una sorta di effetto domino, arriva a coinvolgere l’intera comunità. A causa del precipitare della situazione, il centro della scena, fino a un certo punto sempre occupato dalle ragioni perentorie della Storia, cambia i suoi protagonisti e si apre alle sorprendenti ragioni di un “personale” che già allora, molto prima che l’epoca e il femminismo lo dichiarassero esplicitamente, era di fatto politico. Anche qui, dunque, nulla è come sembra.
Attraverso un minimalismo realistico tutto giocato sulla precisa essenzialità della forma, e alternando di continuo le voci del passato e del presente, Zanette entra con coraggio nell’ambito narrativo resistenziale, così ricco di precedenti illustri tra i quali basterebbe citare, per vicinanza geografica, I piccoli maestri di Luigi Meneghello (Feltrinelli, 1964), e senza lasciarsi intimorire dai predecessori, arriva a distinguersene mettendo al centro della sua sfida proprio uno slittamento non comune del vissuto, da lei trattato con tale acutezza e rispetto delle sensibilità da permettere alla vicenda di sfiorare il melodramma e di allontanarsene indenne grazie alla maestria con cui le parole portano alla luce verità troppo a lungo sofferte e nascoste. Che sia poi la testimonianza di un bambino curioso l’elemento in grado di strappare il velo alle apparenze e di far sì che la loro capacità di fuorviare non semini altri dolori, suona quasi come un’implicita fiducia nelle doti terapeutiche del tempo quando si è liberi di coniugarlo al futuro e con l’energia di chi ha tutta la vita davanti.
Qualcosa di analogo, anche se su piani relazionali molto diversi, accade anche nei quattro racconti de Il mio amico, la cui omogeneità quasi romanzesca Daniela Matronola sigilla grazie alla presenza, in tutti e quattro, dello stesso io-narrante. Qui, fin da subito, le pagine brillano per la vocazione al parlarsi che impegna così a fondo i vari protagonisti da concedere alle loro parole l’euforica leggerezza, quasi una lontana eco, di quanto accadeva in certi salotti parigini del XVII e XVIII secolo, dove la pratica del dire viene perfettamente sintetizzata dal titolo di una famosa opera di Benedetta Craveri La civiltà della conversazione (Adelphi, 2001).
Che poi l’io-narrante, Mauro, sia un anestesista arrivato per incontenibile indole a esercitare la sua professione, la dice lunga su quanto la necessità di arginare il dolore di vivere faccia da propellente a ogni movimento di questa laica sinfonia che attraversa le vicende senza nessuna soggezione per l’ordine cronologico; si inizia nel 2019, infatti, per concludere nel 1982. E cosa può mai importare un tale capovolgimento? Se si arriva a ricordare in modo fertile, e questo conta, sono gli elementi del passato rilavorati dalla presente comprensione il vero qui e ora di una vita (Il presente è un tempo unico / Ritorno a uno stato ricorrente scrive Matronola nell’incipit di una poesia tratta da Melamangiai), così che l’evento lontano, sottratto alla cecità dell’accadendo, diventi il capitolo più aggiornato dell’oggi, il termine ultimo di un ordine che continua a essere cronologico ma a modo suo, e in virtù di un tempo totalmente altro assimilabile, semmai, a quello ritrovato.
Forse è per questo che in ogni pagina de Il mio amico – in controtendenza con le molte doglie di decenni allenati a fronteggiare le difficoltà che via via si sono succedute nei trentasette anni del loro arco narrativo – si respira un’aria capace di non perdere freschezza, come se una inesausta possibilità fosse sempre a portata di mano, pronta addirittura a indossare l’ottimismo; sempre che il termine, col senno del poi, non rischi di apparire offensivo.
Infatti, a ridosso di quel 2019, che è la data di partenza alla quale il protagonista torna dopo aver fatto i conti col padre in un memorabile viaggio a Parigi in treno nell’82 (determinante il ruolo di un libro di Michel Butor, La modification (Les éditions de Minuit, 1957), imposto dal padre come lettura d’occasione, chissà se nella consapevolezza che una sua chiosa a matita avrebbe gettato luce su un segreto di famiglia), a ridosso di quel 2019, si diceva, sappiamo essere incombenti, cosa che Mauro non può sapere, gli anni del covid e della guerra; due fratture globali la cui percezione, altrimenti, avrebbe di sicuro sottratto ai protagonisti freschezza, fiducia e ottimismo.
Rimane intatto il principio che tutto sia raccontabile perché, infine, è solo il “come” che dà consistenza a quel nero su bianco in cui va a racchiudersi ogni storia. Anzi, si potrebbe dire che tutto “debba” essere raccontato, perché è solo attraverso l’accoglienza di una storia che si può entrare in un ordine di senso sopportabile. Lo suggerisce da par suo Karen Blixen le cui parole in proposito – riportate nell’incipit di Tu che mi guardi, tu che mi racconti – Filosofia della narrazione (Feltrinelli, 2001) – Adriana Cavarero cita aggiungendovi anche il commento che ne fa Hannah Arendt: “Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno. Ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. «Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?» si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere: il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso? […] Il significato del racconto sta infatti proprio in questo semplice risultare che non consegue ad alcun progetto, e nell’unità figurale del disegno. Detto altrimenti il disegno […] non è ciò che guida fin dall’inizio il percorso di una vita, bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza poterlo mai prevedere e neanche immaginare. […] nel senso che il disegno che ogni essere umano si lascia dietro altro non è che la storia della sua vita. «Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi», scrive Karen Blixen; e Hannah Arendt commenta: «la storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi»”.
Ecco, non so se le autorevoli osservazioni contenute nell’incipit del libro della Cavarero siano del tutto pertinenti con queste note di lettura, ma ogni volta che arrivo a pensare a quelle imperdibili parole, e capita spesso, mi sembra sempre che contengano una qualità capace di renderle opportune anche laddove, in apparenza, l’accostamento dovesse sembrare forzato.
Nel nostro caso, comunque, essendo partiti dal sentito ammonimento di Corrado Costa e dal perfetto esercizio di ambiguità di un titolo come Leggere e amare, aver ricordato le parole di Karen Blixen e di Hanna Arendt sul rapporto vita-scrittura ci sembra il modo migliore per chiudere il cerchio.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini