Marco Vitale
“L’ora delle verità” di Simone Zafferani

Andirivieni del cuore

«Scansione del pensiero che si fa poesia» con «una fiducia nella parola impegnata in uno scavo continuo… pronta a rimettersi in gioco». Sono alcune riflessioni sulla nuova raccolta dell’autore giunto alla maturità di una vocazione lirica «apparsa sicura e originale fin dal suo esordio»

«La gioia ha l’aspetto di un paesaggio»… Quante volte ci sarà capitato di pensarlo, nei tempi e nei modi di una corrente interiore che passa per uno sguardo, un semplice cenno, uno scarto minimo che si colma di senso e di improvvisa bellezza. Vorrei partire da qui, da questo verso che dice molto di un poeta, Simone Zafferani, approdato alla sua quarta raccolta di versi significativamente intitolata L’ora delle verità (peQuod, Ancona 2023, 111 pagine, 15 euro), che è poi l’ora del giungere a maturità di una vocazione lirica apparsa sicura e originale fin dal suo esordio (Questo transito d’anni, 2004). Partiamo dunque da una voce che in questa nuova stazione di poesia trova il modo di misurarsi su più registri senza venire meno a se stessa, condotta da uno stile misuratissimo e trasparente che orienta in più direzioni lo sguardo. Dal componimento breve alla favola (Piccola storia boschiva), ma favola di segno leopardiano, dagli accenti gnomici alla riflessione più distesa fino all’incanto di un breve canzoniere amoroso, Zafferani mette insieme un libro articolatissimo e interconnesso, individuato da sezioni omogenee e legate da sottili, ma necessari richiami l’una all’altra.

Simone Zafferani (fotografia di Dino Ignani)

Tema saliente è senza dubbio quello del paesaggio, nei termini e nella funzione poc’anzi evocata, che può andare da una lirica classicità di sapore morandiano a vere e proprie sequenze in movimento: penso alla giovane artista di strada a un semaforo sotto la pioggia con le sue bandiere colorate che volano, nella sezione omogenea per understatement intitolata Cartoline. O ancora, nella stessa sezione, alla visionarietà di una Roma barocca dove «un lieve tremore nelle vene si perde nel fraseggio del fiume». Ma penso anche a come il paesaggio si articoli di fronte alle maschere che il poeta decide di indossare nella sorprendente sezione intitolata Vite perpendicolari, che non sono le Vite di uomini non illustri, ma il prisma di «un io pulviscolare» posto al servizio della visione e del pensiero che a essa è immancabilmente connesso. C’è, come c’è sempre stata in questo poeta, una fiducia nella parola che lo porta a impegnarla in uno scavo continuo, in una riflessione inquieta e innamorata del proprio percorso, mai paga e pronta a rimettersi in gioco, a lasciarsi sorprendere dai colori come dalle aporie della vita. C’è Auden e c’è Saba, nel cielo poetico di Simone Zafferani, un Saba filtrato dalla lezione dell’amata e conterranea Patrizia Cavalli, ma anche dalla frequentazione della poesia di Anna Cascella Luciani, a cui è dedicata una bellissima lirica tramata da «lunghe file di alberi alle Milizie / e i nidi delle rondini su Giulio Cesare / che dalla finestra il cielo fanno rosa / quando le guardi e indietro le richiami / al mestiere arduo di ambasciatrici / perché inesauste sorvolino terre e mari / spargendo notizie per te da scrutinare […]».

Poesia del paesaggio, fin qui si è detto, ma senza dire ancora come le sue note più alte risiedano probabilmente nel raziocinio febbrile delle liriche amorose, nel loro ricercare favorito da una cantabilità mai esibita e venata da un sentimento ansioso, notturno, trasfigurante: così i corpi, nella sacralità della notte, paiono «fatti con la sostanza delle stelle». L’innocenza tornerà solo con l’alba. Colpisce – e vado alla splendida sezione conclusiva intitolata Sul finire – la scansione del pensiero che si fa poesia, si apre la strada nell’andirivieni del cuore imprimendo la sua scia luminosa e fa dire all’amante: «Così soltanto, guardando il nostro amore / lo cambieremo prima che ci cambi. / Sarà un altro amore ma essendo noi gli stessi / ritroveremo il cardine e gli accessi». Nulla di diverso penso che avrebbe potuto scrivere un poeta elisabettiano. Come pure nel caso di questa breve gemma, che riporto nella sua interezza perché si capisca di cosa sto parlando:

Punta il compasso e allarga a piacere
poi traccia con segreta ponderazione
il cerchio che ci delimita e protegge
perché un confine deve averlo questo amore
una linea da cui uscire e poi rientrare,
filo della memoria ed esperienza,
perimetro allarmato all’occorrenza
che si attiva se siamo noi a fuggire.

Nell’immagine vicino al titolo, particolare di “Nuda Veritas” di Gustav Klimt

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