Arturo Belluardo
Le sorprese della scrittura

I due Calafiore

Emozioni, autobiografia, immaginazione: quali sono, davvero, gli strumenti usati da un romanziere? Ecco la storia di due "Calafiore", uno scolpito con le parole e uno con la realtà, che si inseguono tra verità e finzione

Mi sono sempre chiesto a quale dimensione accediamo quando scriviamo un romanzo. O un racconto. Quale sia il tessuto connettivo da cui far scaturire storie e costruire personaggi, dar vita a esseri senzienti che, per un periodo lungo o breve, camminano di vita propria, parlano una loro lingua, hanno una voce, delle espressioni, ridono, piangono, tremano, mangiano.

Spesso la materia autobiografica è una grande miniera: leggendo la biografia di Philip Roth di Blake Bailey ho scoperto che il plot principale di Ho sposato un comunista è basato sulla lunga relazione dello scrittore di Newark con Claire Bloom e che il centro del romanzo, l’autobiografia dell’ex diva del muto Eve Frame, con cui accusa il marito Iron Rinn di essere una spia al soldo dell’Unione Sovietica, altro non è che Leaving the Doll’s House, l’autobiografia della Bloom con cui l’attrice inglese mette alla gogna il suo ex-marito, accusandolo di essere un misogino e un manipolatore machiavellico.

Roth si sente oggetto di una vera e propria persecuzione, basata su falsità, e reagisce, si vendica a modo suo, svergognando la Bloom, rivelandone il rapporto morboso con la figlia Anne Steiger, le sue manie, le sue inadeguatezze. Roth racconterà al suo biografo Bailey che tutti i dettagli delle scene più scabrose del romanzo, come quella in cui la figlia obesa della Frame cavalca la madre insultandola e picchiandola, non sono che la trasposizione fedele di scene a cui lui stesso ha assistito nella casa londinese della famiglia Bloom.

Ma questo è solo un esempio.

Anche perché l’autobiografia, nel momento stesso in cui si trasforma in corpo narrato, diventa altra cosa: non c’è mai fedeltà a quello che è accaduto veramente nel momento in cui lo si traspone sulla pagina, anche se si raccontano i fatti esattamente come sono successi.

Si mette in atto una sorta di “archeologia sentimentale”, per cui si parte dalla vividezza del ricordo, se ne succhia come vampiri il sangue delle emozioni e ci si costruisce su una storia.

Ma c’è dell’altro: l’agosto scorso, al termine di un seminario di Qabbalah, ho estratto una delle carte dei 72 nomi di Dio, che mi raccomandava di essere in connessione con la fonte.

Ecco, io credo che, quando, scrivendo, ci si accosta con verità e purezza alla “fonte”, si entri in relazione con una dimensione universale: si attinge per dar vita a una creazione artistica, viaggiando in mondi, modi e canali che oltrepassano il semplice esercizio della memoria. Era lo stesso Roth, sempre per tenermelo accanto, che nel saggio Juice or gravy? raccontava di aver trovato gli incipit di tutti i suoi romanzi su un foglietto abbandonato sul bancone di un self-service italoamericano, dove si recava tutti i mercoledì sera per mangiare l’arrosto.

Io non so se qualche mano misteriosa mi abbia messo in connessione con la “fonte” quando ho scritto il mio secondo romanzo Calafiore. Sicuramente volevo parlare della mia esperienza di binge-eater, uno di quelli che si ingozzano per riempire un buco interiore, che mangiano senza freno, con la paura da bambino che qualcuno gli possa sottrarre il piatto davanti, quel piatto pieno di affetti perduti. Volevo parlare di come sono diventato un obeso grave, uno che è arrivato a pesare centocinquanta chili e che, a un certo punto della sua vita, tormentato dai dolori e dalle ernie, non riusciva più a muoversi.

E così ho creato Pino Calafiore, un bancario siciliano obeso di 45 anni, binge compulsivo, che traspone nel cibo spazzatura, nella cioccolata tutto il suo desiderio di amore e di distruzione, e ho raccontato di come sia diventato così mentre studiava all’università e con la morte della madre.

Il romanzo è diventato una parabola grottesca e splatter su “chi mangia chi” e sul potere che divora, ma a me il personaggio di Calafiore è rimasto seduto accanto, ho continuato a volergli bene, anche se da qualche anno io non sono più obeso, grazie a un minibypass gastrico.

E così, quando Emanuela Cocco, all’inizio dell’anno scorso, mi ha chiesto di scrivere un racconto horror per il terzo numero dell’antologia Trema 3: Overlook loop, ho deciso di ridare vita al mio amato, facendolo diventare un poliziotto obeso e sudaticcio che indaga su uno zoo infestato.

L’antologia è appena uscita per la Arcoiris Edizioni, ci sono racconti di fior di scrittori come Veronica Galletta e Claudio Morandini, per citarne solo due. Il mio racconto non c’entra nulla con il romanzo precedente, il personaggio è lo stesso, ma l’ho trasposto in un setting diverso. Ma si può fare? L’autore sono io, si può fare.

E sulle future gesta di Calafiore continuo a rimuginare.

Arturo Belluardo e Natale Calafiore

Anche perché l’estate scorsa ho conosciuto su Facebook un siracusano brillante e arguto, con cui ci siamo divertiti a scherzare sui post di Mario Fillioley.

Si chiama Natale Calafiore.

A Natale ha fatto effetto il suo cognome sulla copertina di un libro, l’ha letto e mi ha scritto su Messenger:

“Dal primo capitolo ho capito che non me la raccontavi giusta. O meglio, che la raccontavi troppo giusta. Perché non ci sono ricerche che possano permettere di parlare di frigoriferi notturni, di giri a cercare arancine, di macchine piene di cartoni di pizza, come hai fatto tu.”

E così continua il Calafiore reale:

“Mia madre mi ha sempre chiamato Lino. E i nomi come Lino, Pino, Tino etc. hanno il pregio di essere del tutto spersonalizzanti, la radice del nome va persa, rimane solo il suffisso diminutivo che ti sminuisce e, nei nostri casi, diventa ridicolo.

Sono binge eater dai tempi dell’università. Sono 178cm per 143kg, e ho appena finito gli esami di pre-ricovero per una Sleeve Gastrectomy.”

Qui mi si è strozzato il respiro. E Natale prosegue:

“Ho avuto una vita molto diversa dal tuo Calafiore, eppure ho un ventaglio emotivo del tutto coincidente. Perciò boh, potrei anche dirti che Calafiore sono io. Che potrei arrivare a dire che questo libro sia stato molto liberamente ispirato a me. (…) E ora ci sarebbe tutta la menata dell’arte che supera la realtà e le taglia la strada, dell’incredibile coincidenza, del segno del destino e bla bla. (…)”.

E bla bla.

A me questo messaggio ha fatto venire i brividi, mi ha commosso. Mi fa venire i brividi e mi commuove anche adesso che lo sintetizzo qui. Ha fatto venire i brividi e ha commosso l’editore di Nutrimenti che ha pubblicato il romanzo. E così Anna, Rossana, Paolo, Antonio… Insomma, tutti quelli che mi hanno seguito e mi seguono in questo percorso incerto di scrittura. E ha fatto venire i brividi e commosso anche Yarona Pinhas, la mia morah di Qabbalah, che ha trovato la prova della connessione con la “fonte” della creatività. Di percorsi invisibili e ineluttabili che il nostro spirito trova a nostra insaputa.

Io e Natale Calafiore, siamo ormai amici, ci siamo sentiti prima e dopo la sua operazione.

A dicembre, poco prima di Natale, ho presentato il mio nuovo romanzo Ballata per la sirena a Siracusa e questa è stata l’occasione per conoscerci di persona.

Quando Calafiore è entrato in sala, l’amico che lo accompagnava ha gridato: “Eccolo, il tuo personaggio in cerca d’autore!”.


Accanto al titolo, la Venere di Willendorf, una statuetta risalente al 30.000 a.C.

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