Daniela Matronola
A proposito di "Spiriti"

Ritratto del talento

Francesca d’Aloja ha ripubblicato in volume gli elzeviri scritti per "Il Foglio". Sono ritratti di personaggi fuori dall'ordinario il cui talento è talmente fuori misura, fuori norma, da farne dei disadattati; se non da renderli inaccettabili

Il 2 ottobre 1981 Gordon Matthew Sumner compiva trent’anni, e come regalo di compleanno ebbe (e si fece) un album, il quarto dei Police, The Ghost in the Machine (il fantasma dentro la macchina, ma anche – in senso metaforico – l’ombra nel meccanismo): pezzo di punta Spirits, il cui refrain ricorrente e motto martellante è We’re spirits in the material world. Ho avuto in testa la voce di Sting che ripete il ritornello durante tutta la lettura di Spiriti, nuova raccolta di ritratti formidabili messa insieme da Francesca d’Aloja (sì, l’attrice; sì, la regista; dal 2007, con l’esordio Il sogno cattivo, scrittrice), pubblicata da La Nave di Teseo lo scorso ottobre nella collana Oceani (224 pagine, 18 Euro). Si tratta di ritratti di artisti, di spiriti eccelsi e speciali, di talenti geniali e tormentosi, già apparsi sul quotidiano Il Foglio, salvo l’ultimo, Le mani in tasca, su Ezio Comparoni meglio noto come Silvio D’Arzo: figura dalla biografia kafkiana, mentre intuitivamente mi viene spontaneo pensare che quel titolo, Le mani in tasca, riecheggi, non a caso ma per affinità elettiva, il titolo del film d’esordio di Marco Bellocchio, maestro, mi risulta, amato.

Si dirà, malignamente, che dopotutto cavare un libro da elzeviri già pubblicati mettendoli solo in fila in qualche ordine (il più facile, l’ordine d’apparizione) sia un gioco da ragazzi, o l’uovo di Colombo, anche.

In realtà, entrare in questa scintillante galleria e imbattersi in persone in qualche caso già molto note, anzi ormai consegnate al mito, come in altre, meno note ma dall’avventura biografica ugualmente strepitosa, piccoli e grandi prodigi qualche volta scivolati nell’oblio, o peggio relegati in posizione arretrata con vera cattiveria, è una non piccola esperienza dell’anima, ed è, per chi legga poco o tanto, spesso o saltuariamente, in modo vorace o a piccoli sorsi, con immersione assoluta o trasvolando e piluccando tra le pagine, una specie di salto nel vuoto (la poetica del vuoto sarà presto un tema da affrontare una volta per tutte).

Nel vuoto dell’esistenza, o meglio della sorte, non nel vuoto della letteratura.

Si assapora senza intermediazioni, e con percezione totale, il buco sconfinato in cui proprio il talento, il destino inaggirabile di essere iperdotati e senza pelle, metta alcuni spiriti per l’appunto nella condizione di correre ogni possibile rischio, di incappare in ogni possibile tremenda difficoltà, di vedersi spalancare davanti non le porte ma gli orizzonti illimitati della percezione, andando incontro a disastro sicuro con slancio, persino.

Fin qui, ancora in modo parziale, il tema del libro. Spenderei parole però anche su come la voce narrante è partecipe con trasporto e dedizione ai destini che, per una specie di istinto governato dal fiuto, l’autrice ha deciso di volta in volta (descrivendo dopotutto una sua personale cerchia di spiriti eletti–vi) di seguire anzi di pedinare con un suo tallonamento inflessibile che in corso d’opera si evince esserle tipico.

Già in Corpi Speciali, la serie precedente di figure straordinarie raccolta nel 2020 sempre in Oceani, La Nave di Teseo, Francesca d’Aloja ci aveva presentato alcune “vite maiuscole” con le quali ammetteva di sentire una altrettanto straordinaria consonanza, destata a volte da fortunati incontri personali: Dino Risi, Vittorio Gassman, Edith Bruck, Franca Valeri, o da incontri avvenuti da distanze meno ravvicinate, o più remote, come Nadia Comaneci o Lucia Joyce – bene, l’adesione alle loro avventure personali, a dispetto di successi o circostanze familiari in apparenza invidiabili (la grande campionessa olimpionica di ginnastica a corpo libero era in realtà schiava dell’efficientismo sportivo del suo Paese incarnato nel suo allenatore-vessatore; la figlia di James Joyce, il più grande scrittore o uno dei tre o quattro grandi del Modernismo, è stata in realtà distrutta da un amore non corrisposto che ha tirato fuori la schizofrenia annidata in lei condannandola alla segregazione in una struttura psichiatrica dove per sua ulteriore disgrazia a lungo è sopravvissuta), è anche in quel caso totale e travolgente, capace di esplorare certi destini in tutte le loro pieghe, possibili e reali.

È ciò che accade anche in Spiriti, appunto: l’autrice, con sensibilità raffinata e vigile, capace di rivelazioni, in aggiunta, illumina di luce nuova anche le parabole che in parte già conosciamo. È il caso dell’incidente, costato la vita a James Dean, che ha assicurato una vera vita d’inferno al passeggero sopravvissuto, nella vita interiore come nella sua sgangherata vita pubblica. È anche il caso di Richard Yates, scrittore maudit, la cui vita personale è stata infernale a dispetto della irresistibile simpatia, dell’inarrestabile affetto, della vera e propria devozione che egli riusciva a destare e non credeva di meritare perciò tendeva a respingere. È il caso davvero feroce di Camille Claudel, talentuosa scultrice ribelle, il cui destino personale è stato non poco più crudele dello sciagurato oblio toccato a Lucia Joyce. Ed è il caso di Jean Seberg, moglie-bambina dell’impareggiabile Roman Kacew / Romain Gary / Èmile Ajar eccetera, attrice e attivista sprovveduta, impavida incauta generosa. E che dire di figure come Lou Salomè, Chet Baker, Lebovici [l’agente delle star che ha ispirato la formidabile serie francese Dix-pour-cent (ASK my agent) di cui purtroppo incombe il remake italiano? Che dire di Nikola Tesla o di Robert Louis Stevenson? O dei frizzanti Fratelli Goncourt, titolari del più prestigioso premio letterario di Francia? Oppure dello scrittore in incognito Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni? Oppure di Mark Hollis, lead-voice e artefice in toto dell’esplosione dei Talk-Talk? O di Mimi Baez (sorella invidiata e sfortunata di Joan) e di suo marito, Richard Fariña? O di Friedrich Murnau, evocatore di ombre? Oppure di Rembrandt Bugatti?

Soprattutto che dire, spostando l’occhio, riorientando la camera, inquadrando la voce che narra e che accende lo spot su tutti loro, dell’autrice di questa pirotecnica galleria? — se non che è una voce piena di sincera passione umana e artistica totalmente investita sulle figure di tutti questi mavericks: spiriti liberi, e aerei, dissenzienti e dissidenti nei confronti della vita borghese, regolata e prudente, anticonformisti di natura, fatalmente spinti al rischio totale dal loro dono esorbitante, diverso in ciascuno.

Il talento.

Un talento talmente fuori gamma, fuori misura, fuori norma, da farne dei disadattati se non da renderli inaccettabili, o così speciali da richiedere che ci si impegni a maneggiarli con cura e non a sciuparli con la solita rozzezza che, del tutto ingiustamente sempre, si riserva d’ufficio agli altri. Perché il bello di questo libro (che va cavalcato in agilità – vi avverto, e costituisce una lettura divorante, non perché sia un libro “scorrevole”, piano, facile, ma perché contiene la calamita senza calamità delle letture nutrienti), è che apertis verbis lo si dice: queste persone hanno avuto talento. Sono stati talenti. E sono state creature libere la cui radicalità è consistita innanzitutto nell’avere l’incoscienza vocazionale, che potremmo razionalizzare come coraggio, a dare corso ai doni ricevuti, a non soffocare proprio le doti che li hanno resi ciò che sono diventati. Per la serie: basta ridimensionare, sminuire, annullare, annichilire chi segue la propria vocazione. Dopotutto il vero nemico da combattere è (sempre) il pigro imborghesimento che inclina a scegliere la vita comoda, i risultati sicuri e facili, e a scartare le avventure rischiose, le sorti insidiose e scomode. Esse viceversa permettono, in solitaria, di raccogliere uno spinoso testimone e portarlo qualche metro più avanti nella corsa verso il superamento del limite, o meglio del precedente record.  

La chiave però per capire definitivamente lo spirito che ha guidato Francesca d’Aloja a esplorare e lambire i mondi sconclusionati e magnifici degli Spiriti accostati in questo album sta in una frasetta di tre parole sapientemente portata fuori come si fa con l’incognita nelle equazioni algebriche: messa in quarta di copertina ed estratta da pagina 203, da Il vento che trasforma il mondo (magia dei titoli: un altro recita, Me ne frego dell’empatia, e mi sembra magnificamente programmatico).

Dice così: Vorrei essere te. Non ho la minima intenzione di svelare chi l’ha pronunciata verso chi, confido che correrete a scoprirlo da voi. Ciò che mi pare segnaletico però è la professione di immedesimazione, questa rivelazione di affinità (s)elettiva che l’attrice/autrice proclama per interposto poeta. Racchiude, questa minuscola chicca, un non piccolo processo per il quale dal desiderio di essere come qualcuno alla voglia matta (!) di essere, cioè diventare, quel qualcuno, il passo dopotutto è breve. Si tratta di uno spirito (di nuovo) emulativo, l’opposto dell’invidia. Mi pare questa l’interpretazione più profonda possibile dell’intento che ha mosso l’autrice a dedicarsi a ricostruire queste biografie straordinarie uscite da un mondo che siamo sempre portati tutti a considerare medio se non mediocre. Vuol dire che non solo, come vediamo seguendone le peripezie, queste persone fuori dall’ordinario, smisurate, sono uscite dal mondo isolandosi rispetto alla comune esistenza di tutti, ma sono anche il prodotto esemplare proprio di quel mondo che noi sempre siamo portati a deplorare. Sono oltre noi ma sono pur sempre alcuni di noi.


La foto accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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