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Il futuro dei Fori
“Che fare dei Fori?”, un documentatissimo libro di Carlo Pavolini, riapre la discussione sulla sistemazione della più importante area archeologica di Roma. Dal cemento d'epoca fascista ai vari progetti di recupero mai completamente realizzati
Che fare dei Fori? È il titolo del saggio (Robin edizioni, 180 pagine, 20 euro) con cui Carlo Pavolini, un archeologo di lungo corso che ha sempre cercato di non rinchiudere il culto della memoria e della ragione nei templi d’avorio del suo mestiere, torna a riaccendere l’attenzione sul futuro del cuore antico di Roma, patrimonio del mondo precipitato nel limbo indecoroso di un cantiere di transenne ed attese. Il copione della politica, segnato dal doppio cambio di guida e orientamenti del governo della città e del paese, avvolge di una nube di nuove incertezze la risposta a questo domanda. La stessa che ha fatto da bussola al lavoro di una commissione di studio insediata proprio a questo scopo dal sindaco Gualtieri e affidata ad un regista qualificato come Walter Tocci, testimone e protagonista delle due stagioni che hanno segnato la storia recente e il malmesso presente dell’area archeologica centrale, quella delle giunte Argan e Petroselli che riportò sulla scena la questione dell’area dei Fori e dell’intero patrimonio archeologico della città, e quella della Giunta Rutelli, cui si affiancò come vicesindaco e assessore ai trasporti, che dette in via all’operazione di scavo. Tocci avrebbe dovuto presentare il rapporto finale entro fine anno, ma i tempi sono slittati a data da destinarsi per consentire al nuovo ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, targato Giorgia Meloni, subentrato al pd Franceschini, di prenderne visione e rifletterci su.
Uno slittamento che rende più pregnante e prezioso come una sorta di prologo d’introduzione il contributo di ricostruzione, riflessione e giudizi del libro di Carlo Pavolini.
L’autore ripercorre a grandi falcate ma con molto rigore gli interventi urbanistici e di scavo previsti o realizzati sull’area partendo da quelli messi in campo nel periodo napoleonico per arrivare a quelli portati a compimento con l’insediamento dei Savoia a Roma, dalla creazione dei nuovi assi viari per far fronte all’espansione demografica e alle ambizioni di modernizzazione della capitale, tra cui spiccano il tracciato di via Cavour, che porta allo smantellamento dell’antico quartiere della Suburra, e la sistemazione della passeggiata archeologica, una zona monumentale riservata tra il Colosseo, le pendici del Palatino e la spianata delle Terme di Caracalla che include anche il primo tratto dell’Appia antica. Resta fuori da queste mappe, registrate dai piani regolatori e da successive varianti, la distesa dei Fori, delimitata da una grande piattaforma rialzata, la collina Velia, che oscura la sagoma del Colosseo, e occupata da due fitti insediamenti edilizi che si sono sovrapposti alle rovine romane dal Medioevo in poi.
Poi dal balcone di palazzo Venezia, dove Mussolini si insedia nel 29, infastidito di quel caos di “sudici” agglomerati istallati sulle rovine e da quel rilievo di terra che gli nasconde la vista dell’Anfiteatro Flavio, emblema di quell’Impero che il regime ha eletto a modello e sogna di restaurare con le sue imprese coloniali, parte l’ordine di buttar giù tutto per far posto a una nuova maestosa strada che taglia trasversalmente i perimetri in gran parte sepolti delle piazze dei primi grandi Cesari e punta senza più ostacoli verso Il Colosseo e da lì verso il mare di Ostia, orizzonte di trionfi e conquiste a venire.
In tre anni l’impresa è compiuta. Un rettifilo che esalta il futuro della velocità e delle macchine di cui il duce si è infatuato. E relega le rovine a recinti. Nessun dibattito. Qualche mormorio di rimpianto per quel che si è perso, ma nessuna vera polemica neppure sul metodo affrettato e selvaggio degli sterri che fanno riaffiorare le quota più antica e ne recintano i resti affioranti in una sfilata di quinte teatrali giù in basso. Un risalto distaccato che ne esalta l’alterità: è la vaga definizione metaforica che il governatore Antonio Munoz, responsabile delle bordature di alberi e giardini del rettifilo, strappa in un’intervista all’archistar Le Corbusier invitato a dare un suggello ufficioso all’operazione, condita da un paio di schizzi con cui suggerisce un sistema di passerelle in discesa per raggiungere e connettere le varie aree, idea che in gran parte verrà ai giorni nostri ripresa.
Poi non si muove più nulla. Neanche per l’idea messa a concorso di riempire il vuoto creato dalla scomparsa della Velia in piazza Corrado Ricci prima con un mausoleo del Littorio, poi con una Casa dedicata a Dante. Su via Dei Fori cala un lungo sonno. Alla Roma democristiana del dopoguerra e del boom quell’autostrada urbana che dirotta al centro il traffico veicolare in continua ascesa e accoglie le sfilate militari del 2 giugno, sta bene così.
Due le svolte che riaccendono i riflettori, a partire dalla seconda metà degli Anni Settanta. La prima è la nomina alla guida della soprintendenza di un archeologo non rassegnato a gestire e subire l’esistente come Adriano La Regina. Il sasso che lancia dello stagno è la campagna per salvare i monumenti e le sculture dell’area centrale. Lo smog e le polveri del traffico pubblico e privato lungo lo stradone stanno devastando i rilievi di marmo. Su tutti i giornali e in tv cominciano a circolare foto agghiaccianti, sotto la coltre di sporco i marmi si stanno sfarinando, stanno scomparendo. L’allarme rimbalza in tutto il mondo, arriva in Parlamento, trova eco nei salotti, scatena domande e dibattiti. La città s’infiamma, si mobilita e invoca rimedi: succede sempre così nel nostro imprevidente paese quando gli piomba addosso l’emergenza di una catastrofe in atto, una prospettiva di scomparsa di perdita definitiva e di morte. Un orizzonte cupo che purtroppo non sarà possibile evocare per chi vuole riprendere le redini della questione: il disordine, lo scempio della provvisorietà in cui oggi annega la bellezza e il valore dei monumenti non suscita lo stesso sdegno collettivo.
L’allarme di La Regina ebbe allora i suoi effetti immediati. Passano tutte o quasi le sue richieste: le limitazioni antismog, la liberazione del traffico attorno al Colosseo, il restauro e la ripulitura immediata di tutte le emergenze storiche dell’area. Dal nuovo ministro Biasini arrivano i soldi, 180 miliardi, una cifra mai vista, per mettere tutto in sicurezza.
La seconda svolta, ancora più radicale, è quella impressa dai sindaci targati Pci che, per la prima volta, nel 1976 la vittoria elettorale proietta alla guida del Campidoglio. Prima Giulio Carlo Argan, poi Luigi Petroselli. Con dietro uno stuolo di intellettuali, preparati e decisi come Antonio Cederna e Italo Insolera, che reclamano lo smantellamento del rettifilo fascista e la riunificazione dei Fori, nel rilancio di un’area più vasta, estesa ad abbracciare anche l’Appia antica. E con la scesa in campo dei docenti di punta dell’Università e delle accademie straniere. Ma soprattutto della stampa. L’archeologia come leva per cambiare volto alla città e restituire la Roma dei monumenti antichi a tutti i suoi abitanti anche quelli delle periferie, dove parte un piano parallelo per l’eliminazione dei borghetti e un massiccio programma di costruzione di case popolari.
La terza svolta, non meno importante, è segnata dal risveglio culturale impresso da Renato Nicolini e dalle sue Estati romane: il cinema, il teatro, la musica, il circo nelle platee di via della Consolazione, che Petroselli ha demolito, suo il primo colpo di piccone, e ricongiunto con il Campidoglio, tra le absidi della basilica di Massenzio, davanti al Colosseo e all’Arco di Costantino. Un intreccio di stimoli e un uso delle rovine come fondali e teatri, parti di città che tutti i romani possono vivere e abitare. Pratica che il ritorno all’ordine degli Anni Ottanta ha di fatto interrotto e anche oggi continua a centellinare, un occhio rivolto soltanto ai salotti buoni e ai calcoli di botteghino.
Congelati e insabbiati tutti gli altri studi e progetti che questa straordinaria stagione ha innescato e prodotto: l’idea del Grande Campidoglio all’archeotram studiato da Italo Insolera, il progetto di ripristinare il volume della Velia dell’architetto Gregotti per ospitarvi un museo anticamera dei Fori, l’isolamento pedonale del Colosseo, il piano di riassetto dell’area e ricucitura urbana commissionato dal soprintendente Adriano La Regina agli architetti Leonardo Benevolo e Francesco Scoppola. Un “dibattito senza scavi”, riassume con molta efficacia questa lunga fase Carlo Pavolini. Aggiungendo subito una seconda chiosa, “Scavi senza dibattito”, che introduce la seconda fase, quella che si prolunga all’oggi che stiamo vivendo. E scatterà una decina di anni dopo con i primi colpi di piccone, che partono con il ritorno della sinistra in Campidoglio, e proseguono per impulso dei sindaci Rutelli e Veltroni, dai giardinetti che nascondono quel che resta dei Fori imperiali, dopo le demolizioni del fascismo.
Da archeologo, Carlo Pavolini rimprovera in questo periodo, in cui la questione dei Fori torna con tanta forza alla ribalta, a se stesso e ai suoi colleghi, da La Regina a Cederna, due errori: il primo è di aver troppo radicalizzato il dibattito sulla demolizione dell’ex via dell’Impero, scatenando l’intransigenza del fronte più conservatore. Il secondo è di aver sottovalutato l’aiuto essenziale che poteva venire dalla sponda di architetti e urbanisti, trascurando di mettere a fuoco da subito come inserire nel tessuto della nuova Roma quel vasto e manomesso spicchio di centro. Io penso che sia un rilievo non del tutto giustificato: perché in questa fase di gestazione, con la salvezza dei marmi da raggiungere, in realtà il coinvolgimento di un urbanista come Benevolo e l’intesa con il Campidoglio ha definito con molta chiarezza il panorama molto dettagliato di una ricucitura urbana stimolante e fattibile e dimostrato che quell’asse viario di penetrazione verso piazza Venezia poteva essere progressivamente depotenziato senza problemi, come di fatto è poi avvenuto. A mancare è stata la spinta politica.
Penso invece che sia invece giusto segnalare come scrive l’autore, la solitudine autoreferenziale degli archeologi che ha segnato il momento in cui a metà degli anni Novanta gli scavi hanno cominciato davvero ad attaccare l’assetto mussoliniano dei Fori, con un’operazione che poi è proseguita a singhiozzo. Ricerche condotte con assoluto rigore e notevoli risultati scientifici che sono però andate avanti senza curarsi del terremoto che si stava causando in una zona così delicata. Colpa delle modeste sistemazioni provvisorie, scale, rampe, terrazze, realizzate per rendere accessibili le piazze imperiali restituite a poco a poco alla vista. Ma ancor più del disordine e della confusione visiva creata dalla decisione di conservare tutti i resti riaffioranti dei quartieri demoliti dal regime fascista, pavimenti, murature, scarpate, cantine, che si sovrapponevano alle basi dei monumenti della quota antica. Caos accresciuto dall’inizio dei lavori per il prolungamento della metropolitana, barriere di lamiera, puntellamenti che ancora fasciano il tratto da Corrado Ricci in su. Soluzioni al ribasso sulle future stazioni. E dalle incertezze e dai ritardi nel mettere in cantiere interventi di ricostruzione in elevato o altri accorgimenti di impatto divulgativo che avrebbero potuto e dovuto compensare quel paesaggio precario e illeggibile. Ancora più negativo, il silenzio che ha avvolto questi problemi e questo desolante spettacolo: inerte persino il fronte dei difensori dello stradone imperiale, che non ha registrato e forse neppure si è accorto che il vecchio scenografico impianto mussoliniano, per il quale era persino riuscito a far scattare un vincolo, era ormai irreparabilmente dissolto.
Gli ultimi capitoli del libro ci portano oltre la soglia del Duemila. Registrando interventi di studio e progetti che si affacciano a singhiozzi sporadici e circolano solo tra ristrette cerchie di esperti. Il più completo e stimolante è prodotto e firmato da un architetto della Sapienza, Raffaele Panella. Ma anche questo ritrova solo un relativo sussulto di risonanza, nel breve e fallito intervallo della Giunta Marino, che recupera la questione dei Fori ma di fatto si limita a sfornare solo un piano ancora in vigore che restringe ancor più il traffico lungo il rettifilo littorio e lo incanala in nuovi percorsi a monte e a valle.
Il dibattito e il confronto non coinvolgono i romani, si spostano in altre sedi. Tra gli esperti chiamati a far parte di commissioni pubbliche, insediate per fare il punto della situazione e cercare soprattutto di mettere d’accordo su obiettivi comuni i due centri di potere, Comune e Beni culturali, che si spartiscono in concorrenza il governo delle aree monumentali. La penultima è quella guidata da Volpe, un archeologo di fiducia del ministro Franceschini, che di fatto trova ancoraggio nello studio di Panella, sancendo la necessità di ridurre ma mantenere come una fettuccia soprelevata di attraversamento il rettifilo Anni Trenta. Ma non adotta alcuna decisione concreta. Ad incagliare le prospettive di intesa tra Stato e Campidoglio è la politica dello stesso ministro che, seguendo una sua perversa logica di spartizione del controllo e degli incassi, distribuisce la competenza sulle aree archeologiche centrali fra tre diverse soprintendenze. Unico passo avanti è l’aver almeno archiviato tutti i progetti di sistemazione urbanistica prodotti: dai sommari schizzi suggeriti dall’architetto Fuksas, a quelli prodotti da un concorso internazionale di architettura, rimasto senza esito, ed esposti a Villa Medici, dalle indicazioni della commissione insediata da Petroselli nel 1983 alle previsioni del piano regolatore varato dal sindaco Veltroni.
Un materiale che è il punto di partenza dell’ultima commissione, quella affidata dalla Giunta Gualtieri a Walter Tocci. Non ci resta che attendere. E stavolta, partecipare. Senza deleghe in bianco.