“Botanico brogliaccio” di Rosa Pierno
Fu per errore che nacque la rosa?
«Allegorico e sorprendente» il poema in prosa dell’autrice napoletana, un teatro botanico dove scienza e arte «fanno corpo» mentre con lucentezza si susseguono le immagini di un erbario che nasce dalla realtà distanziandosene sempre
Il poème en prose, che ha come atto di nascita a metà Ottocento le fantasie fiamminghe di Aloysius Bertrand raccolte nel delizioso Gaspard de la Nuit, è un genere frequentatissimo della poesia francese, fino a divenirne per larghi tratti egemone. La cultura poetica italiana se ne è tenuta invece sostanzialmente distante, salvo aderirvi in rari e felici momenti. Tra questi si situa il recentissimo lavoro di un’autrice che si è caratterizzata negli anni per una ricerca poetica e di pensiero fra le più intense e originali, muovendosi su un territorio di confine dove significato e significante paiono le dramatis personae di una contesa che non può aver soluzione, non può aver fine. Di cosa ci parla Rosa Pierno in questo suo Botanico brogliaccio (Terra d’Ulivi edizioni, Lecce 2022, 44 pagine, 10 euro), mentre squaderna le tavole di un erbario che essenza dopo essenza sembra scostarsi da ogni crisma di catalogazione e un vortice di scrittura lo definisce e occulta?
Perché a balzare agli occhi, in qualunque punto ci si ponga di tale messa in opera, è la lucentezza della prosa poetica, la sua tenuta davvero rara nel procedere illusivo, in quanto «Esiste un abisso tra foglia reale e foglia descritta, pari all’abisso tra foglia vera e foglia disegnata». In altri termini «ceci n’est pas une pipe». Così da un apparente dato di “realtà” trae radice un vagabondare di immagini che si riflettono su se stesse e si sdoppiano, di pensieri poetanti che si distendono in misure musicali, si rapprendono in aforismi, si sciolgono nella luce della parola, nell’alea del significante, nell’ekphrasis. Tale «un romanzo sulle piante sbilenche di Guardi, su quelle zavorrate di segni di Piranesi o sugli arbusti privi di tronco e rami di Giorgione». Sì, «i pittori copiano dalla natura cosicché i quadri traboccano di specie vegetali: l’achillea, l’alchimilla, l’anagallide, l’aquilegia. Addirittura – e si noti ancora l’enumerazione di gusto barocco – vi figurano fiori sconosciuti alla letteratura e i nuovi viaggi, tosto, depongono, ai piedi delle madonne e dei santi, fratillarie, amarillidi, anemoni».
Fin dalle prime battute, dalle prime “tavole”, l’impressione è che Rosa Pierno ci abbia condotto in un teatro di verdura, o meglio in un labirinto, un “teatro botanico” in cui le piante, a dispetto delle incantevoli e cangianti colorazioni, «sono divise in velenose, sonnifere e pericolose». E ancora «I flagelli penetrano nei vaculi, dando vita a mostruosi fiori». Perdervi il senno è dunque una possibilità come le altre mentre si coglie un’iridescenza ariostesca nel procedere insieme imperturbato e in allarme della scrittura. Una scrittura che corteggia il disegno nella consapevolezza, come i disegni di Leonardo attestano, «che anche la scienza non muove un passo senza un’immagine che non sia tracciata pur anche ai margini delle formule matematiche».E viene in mente il volo degli uccelli, altra grande passione leonardesca, così come quello musicale degli storni di cui parla il premio Nobel Giorgio Parisi. Lo spazio dell’intuizione, il suo confrontarsi con il logos vengono così a svelarsi il vero cuore di questo libro sorprendente e allegorico, la scienza e l’arte vi fanno goethianamente corpo e noi restiamo in attesa di risposta a una domanda che ci avvince: «Fu per errore che nacque la rosa? O per desiderio della rosa stessa?»