Una storia di amore e cibo
La chianina
«Quando tagliarono le bistecche, la carne era grigiastra e in bocca, anziché sciogliersi come burro, era stopposa. Fecero cena tutti e tre in silenzio. Barbara bevve diversi bicchieri di vino per aiutarsi a buttare giù quella gomma da masticare, che però, imbevuta di quel liquido acido, era ancora più disgustosa»
Barbara si girò verso suo marito e gli scosse leggermente la spalla destra. Vedendo che non si svegliava ripeté il gesto. “Ti sta suonando di nuovo il cellulare”. Sul comodino stile Impero il Samsung emetteva una luce intensa, vibrando come una zanzara gigante.
“Ancora?” sbuffò Giancarlo, allungando la mano verso il telefono. Poi con voce calma e ferma, come se fossero state le nove di mattina e non le due di notte, rispose. Il collega all’altro capo del filo balbettò delle scuse, prima di iniziare a fare un resoconto dettagliato dell’intervento. Nella semioscurità della stanza, perché dormivano sempre con un’anta della finestra aperta, Barbara riconobbe uno dei gesti abituali di suo marito, quel passarsi la mano destra sulla testa tutte le volte che si concentrava, come se si stesse pettinando una ritrosa che dal vertice scendeva verso l’attaccatura dei capelli. Il colloquio telefonico durò per parecchi minuti, durante i quali non venne mai meno quel tono sicuro di sé che Giancarlo ostentava nelle questioni di lavoro.
Barbara si girò verso il muro solo quando lo vide riattaccare. “Speriamo che per stanotte non ci siano altre urgenze”.
Suo marito tornò sotto le coperte e le si avvicinò. “Babi, mi dispiace, ma te lo avevo detto di farmi dormire in mansarda: quando il Cannavero è di guardia una telefonata ci scappa sempre”.
“Certo anche te a dirgli di chiamarti se ha bisogno…”
“Lo sai che non posso fare diversamente; è arrivato in Reparto da un mese e ancora non mi fido troppo di lui”.
“Lo so, lo so”.
“E guarda caso tutte le volte che è di turno c’è qualcuno da portare in sala operatoria. E’ come se si portasse sfortuna”.
“Era un brutto trauma?”
“Una frattura esposta di caviglia, con lesione dei tendini.”
Il viso di Giancarlo si appoggiò alla sua spalla e il suo braccio destro le cinse la vita. “Grazie per la tua pazienza. Non tutte le mogli l’avrebbero avuta”.
Barbara sorrise mentre suo marito cominciava a sbaciucchiarla. La sera in cui avevano festeggiato il primariato, durante il brindisi era stata lodata pubblicamente. “Se sono arrivato dove sono, il merito è anche della donna che in tutti questi anni mi è stata accanto”. Era arrossita e aveva abbassato gli occhi, un attimo prima di intravedere lo sguardo di sua madre che brillava più dei cristalli e degli argenti che imbandivano la tavola.
Quando lo sentì frugare sotto il pigiama di seta, per arrivare a palpare le curve morbide del suo sedere, si abbassò i pantaloni e divaricò le gambe: Giancarlo le salì sopra con cautela, cercando di non schiacciarle la pancia, dove una striscia sottile, che sembrava disegnata col gesso, scendeva dall’ombelico fino ai peli del pube: bastava sfiorare quella cicatrice per farle venire la pelle d’oca.
“Visto che ormai il Cannavero ci ha svegliati, approfittiamone”.
“Ho fatto bene a non farti andare a dormire in mansarda”.
Dopo aver fatto l’amore suo marito si girò su un fianco e iniziò a russare, mentre Barbara non riuscì a prendere sonno. Dopo essersi girata e rigirata nel letto, si alzò piano piano e andò in bagno: nello specchio a tutta parete sopra il ripiano di marmo cipollino vide riflessa l’immagine di una bionda, in leggero sovrappeso per qualche bicchiere di troppo, ma ancora piacente; la donna allungò la mano destra dentro un armadietto laccato di celeste e tirò fuori un blister, ma anziché prendere una compressa come al solito, perché da quando era entrata in menopausa soffriva di insonnia, ne buttò giù due. Ora il Cannavero poteva pure chiamare altre dieci volte.
La mattina dopo Barbara era ancora stordita dall’eccesso di benzodiazepine, quando vide con la coda dell’occhio Giancarlo che sbirciava alle sue spalle.
“Babi, mettici un altro po’ di prosciutto”.
“Non avevi detto che volevi dimagrire?” Come al solito stava preparando il panino che suo marito si portava dietro al lavoro, dove non aveva tempo di andare né a mensa né al bar.
“Ma così mi ci strozzo”. Dal semel tagliato in due spuntava una timida fetta di speck.
“Va bene”. Barbara aprì di nuovo lo sportello del frigorifero rivestito di legno chiaro, in stile provenzale, come il resto della cucina: quando avevano cambiato casa e c’era stato da comprarne una nuova, lei aveva subito scartato quella ultramoderna. “Questa è come dire…asettica. Tutto questo acciaio mi ricorda la sala operatoria”. Il commesso aveva sgranato gli occhi. “E’ perché ci lavoro” aveva chiarito. Con Giancarlo si erano conosciuti mentre si stavano specializzando, lei in anestesia e lui in ortopedia, ma appena avevano finito lei aveva preferito lavorare in una clinica privata anziché in ospedale, per non dover condividere con lui anche il luogo di lavoro.
“Babbo ma te non eri a dieta?”. Claudia entrò in cucina sorridendo, già pronta per andare a scuola, con indosso un piumino corto color fucsia.
“E questo da dove sbuca fuori?”
“E’ dell’anno scorso, ma non me lo sono mai messo perché tiene troppo caldo”. Madre e figlia si scambiarono uno rapido sguardo d’intesa.
“Infatti oggi è prevista neve”. Il tono di Giancarlo era ironico: dalla finestra della stanza il sole primaverile disegnava un quadrato di luce sul pavimento.
“Io vado, ci vediamo stasera”.
“Dammi un bacio prima di andartene”.
“Babbo, sono grande per queste smancerie”.
“Dalla MaxMara c’erano le liquidazioni questa settimana” fece Barbara dopo che sua figlia fu uscita dalla stanza. Ora il panino di Giancarlo era bello imbottito di prosciutto.
“Hai fatto bene a comprarlo. Le sta molto bene”.
“Vero?” Era la stessa considerazione che aveva fatto lei la sera prima nel negozio: il fucsia esaltava i capelli neri corvini della ragazza, simili a quelli del padre, e il modello stretto in vita ne valorizzava il fisico magro. “E poi non era particolarmente costoso”.
“Un affare, immagino”. Suo marito sollevò le sopracciglia mentre riponeva il pranzo in una borsetta a tracolla, ma stava solo scherzando: in tanti anni di matrimonio non aveva mai avuto niente da ridire sulle spese della moglie, di cui condivideva i gusti; ci teneva troppo che né lei né la figlia facessero brutta figura. “A stasera” aggiunse accarezzandole il volto.
Barbara tornò in camera e si rimise sotto al piumone: quel giorno era di riposo e ne approfittò per dormire ancora qualche ora. Prima di chiudere gli occhi gettò uno sguardo verso il dipinto appeso di fronte al letto dove alcune coppie, tratteggiate da pennellate pastose di colore, ballavano abbracciate.
“Accidenti quanto è bello quel quadro” aveva detto davanti alla galleria d’arte a pochi passi dall’ospedale dove stava per essere operata: la variopinta festa di Carnevale che vi era rappresentata, per lei che aveva sempre adorato vestirsi a maschera, era un vero e proprio inno alla vita. Una volta tornata a casa, Giancarlo glielo aveva fatto trovare nella loro camera da letto, dove avrebbe trascorso la convalescenza: una delle tante attenzioni che le aveva dedicato in quel periodo. Quando Barbara aveva saputo che i margini del pezzo operatorio erano puliti e che era tecnicamente guarita, aveva concluso che il dipinto le aveva portato fortuna.
All’una e mezzo la chiamò suo marito. “Quel prosciutto era speciale. Ma dove lo hai preso?”
“Dal solito macellaio”.
“Stasera torno più tardi, te lo ricordi vero?”
“Me lo hai detto ieri sera che avevi tanta gente in ambulatorio. Ci vado io a prendere Claudia a lezione di nuoto”. La figlia che era andata in piscina solo per emulare la sua migliore amica, sembrava avere la stoffa dell’agonista. “Purché non perda un anno di scuola” diceva ogni volta Giancarlo quando parlavano degli allenamenti. “Non sarebbe una tragedia” rispondeva Barbara che vedeva sua figlia al settimo cielo ogni volta che vinceva una gara.
Lungo la strada passò davanti a una macelleria di cui aveva sentito parlare dalle colleghe, ma dove era mai entrata; visto che era in netto anticipo rispetto all’appuntamento con Claudia, si fermò a comprare un paio di bistecche per cena: la bottega era un locale angusto ma all’interno vi si respirava un odore appetitoso di salumi. Dentro c’era già un cliente, un giovane alto e col fisico piazzato, da giocatore di rugby, e la testa squadrata, che stava chiacchierando con il proprietario.
“Quanto ci vuole a cuocere in forno queste polpette?”
“Ci vogliono venti minuti, girandole ogni tanto. Se poi le frigge sono ancora più saporite…” Al macellaio, un uomo stempiato di mezza età, sorrisero gli occhi parlando di cibo; aveva un addome rotondo che tirava il grembiule candido, con sotto una camicia a quadri da boscaiolo, con le maniche rimboccate.
“Allora le friggo come mi consiglia lei. Me ne darebbe una decina?” Il giovane aveva una voce simpatica, calda, e parlava con un accento settentrionale; mentre il negoziante incartava le polpette gli squillò il cellulare.
“Pronto? Ciao Giulia, sono a fare la spesa, ti posso richiamare più tardi?”
“Se vuole intanto servo la signora” intervenne il macellaio.
Il giovane annuì prima di proseguire: “Sono ancora stanco morto dopo la nottata di ieri”.
“Io per fortuna ho recuperato stamani” pensò Barbara.
“Te l’ho già detto, è stato un intervento complicato. Ma non ti ho raccontato quello che è successo stamani, quando ho preso una lavata di capo dal primario”
“Volevo un paio di bistecche di chianina” disse Barbara al negoziante. “Deve essere qualcuno che lavora in ospedale, probabilmente un medico” si disse.
“Guardi come vengono bene da questo taglio”. Il macellaio prese con le mani un grosso pezzo di carne di un colore rosso vivo, con un venatura bianca in mezzo e un sottile osso biancastro che lo circondava da due lati. “Questa è chianina, è un po’ più cara ma è più saporita.” fece ammiccando. Sopra l’occhio destro l’uomo aveva una voglia rossa, in tinta con la camicia, che copriva parte del sopracciglio.
“Anche se spendo di più, mi dia questa, mi fido di lei”.
“Ma no, non era arrabbiato per via della telefonata alle due di notte”, continuò il giovane al telefono, “me lo ha detto lui di chiamarlo quando c’è qualcosa di importante.”
“Stai a vedere che è il Cannavero” pensò Barbara mentre chiedeva al macellaio di tagliare le bistecche belle alte: a loro tre in famiglia piaceva che la carne fosse abbastanza spessa da restare poco cotta al centro. Presa dalla curiosità, si girò a guardarlo meglio, ma lui le dette le spalle alla ricerca di un po’ di privacy.
“Senti cosa è successo: lui era arrivato tranquillo al lavoro, quando eccoti lei, sì la solita, che mi fa: non capisco che urgenza c’era di operare stanotte, potevamo farlo stamani quell’intervento.”
Il macellaio affettò il taglio di carne con un coltellone. Poi arrivato all’osso della bistecca prese un’accetta.
“E lui ha cambiato atteggiamento. In effetti Luigi potevi anche aspettare, mi fa stizzito. Quando c’è lei di mezzo è così: padron cumanda e caval trota. E’ per questo che la chiamano la Favorita”.
“Bum” fece il pezzo di carne spezzandosi in due.
Barbara sussultò mentre sentiva una morsa che le serrava la gola.
“Le ho fatto paura” disse il macellaio.
“Non me lo aspettavo”.
“Si prepari allora”.
“Che poi quell’intervento era un’urgenza vera e propria. Ma stamani lei doveva far vedere che è la vicedirettrice.”
L’accetta cadde di nuovo sul tagliere, facendo lo stesso rumore: Barbara sussultò un’altra volta nonostante fosse concentrata sull’osso che si spaccava.
Il giovane chiuse bruscamente la conversazione telefonica, come se si fosse lasciato scappare una parola di troppo. “Ora ti devo lasciare, ci sentiamo dopo”.
Il bottegaio guardò sorpreso la cliente che frugava con mani tremanti nel secchiello di pelle alla ricerca del portafoglio.
“Le borse delle donne…” disse per smorzare la tensione che le leggeva negli occhi. Su uno scaffale alle sue spalle c’erano alcune bottiglie di vino rosso. “Me ne dia una” fece Barbara.
“Questo è di nostra produzione, sentirà quanto è buono”.
C’era da dubitarne, ma non seppe dire di no: quella sera l’avrebbe aiutata ad affrontare la cena facendo finta di niente.
Entrata in macchina appoggiò la testa sullo schienale e si sforzò di respirare.
“La Favorita! La Favorita!”. La parola le rimbombava in testa. “E quello è sicuramente il Cannavero. Chi altro vuoi che chiami un primario alle due di notte?”.
Le venne subito in mente quello che era successo dieci anni prima, quando aveva ricevuto per tre mesi di seguito decine di sms che la informavano di una relazione tra suo marito e un’infermiera molto più giovane. Giancarlo, dopo aver giurato e spergiurato che erano tutte maldicenze, si era fatto in quattro per individuare il responsabile. Alla fine, grazie a un investigatore privato, era risalito a una collega, che aveva smesso di mandare messaggi solo dopo essere stata denunciata per calunnia. “Te sei la madre di mia figlia, sei l’unica donna che conta” le ripeteva suo marito ogni volta che Barbara veniva presa da qualche dubbio e tirava fuori quella storia. E poi quella collega era una mezza matta, piena di livore col mondo. Dopo quella faccenda si era trasferita in un altro Reparto dove aveva litigato un’altra volta con mezzo mondo.
Anche sua madre aveva minimizzato la faccenda. “L’ospedale è un covo di chiacchieroni” aveva sentenziato scuotendo la chioma bionda cotonata stile anni cinquanta “e poi anche se fosse stato vero, vuoi rovinare la vita di tua figlia per una scappatella? Gli uomini, si sa, a volte non pensano con la testa ma con quello che hanno tra le gambe”.
“Mamma! Ma come ragioni?”
“Come una più vecchia di te.” Per una frazione di secondo a Barbara era venuto in mente il matrimonio dei suoi, dove non c’erano mai stati degli screzi, almeno in apparenza. Da quando suo padre era morto poi, era diventato il marito ideale. Non ebbe il coraggio di approfondire.
Sentì suonare il cellulare e sollevò la testa dal volante. Sullo schermo dell’apparecchio apparve il nome di Claudia. “Mamma sono davanti alla piscina. Dove sei?”
“Sto arrivando”.
“Hai una voce strana…”
“A tra poco” tagliò corto.
Certo ora sua figlia era un’adolescente e non la bambina malaticcia di tre anni, che passava le notti a piangere, con lei e Giancarlo che si alternavano nella sua camerina. “Ma non posso fasciarmi la testa per una telefonata sentita in un negozio. Che poi non sono sicura al cento per cento che quello sia il Cannavero”. Mise in moto dirigendosi verso la piscina.
La sera a cena le due bistecche sfrigolavano sulla piastra riempendo tutta la cucina di un profumo invitante.
“Non le ho prese dal solito macellaio, speriamo siano buone lo stesso”. Aveva in mano il bicchiere con il vino appena aperto, che era acido come un limone e sembrava un succo d’uva.
Padre e figlia avevano già cominciato a farsi un antipasto con i sottaceti della nonna.
“Mamma hai la faccia stanca”.
“Stanotte mi sono addormentata tardi”.
“Tutto per colpa mia. Anzi del nuovo arrivato. Gli ho detto di chiamarmi se ha qualche problema e lo fa spesso, anche alle due di notte” fece Giancarlo rivolto alla figlia.
“Ma il Cannavero ha l’accento milanese?” domandò Barbara. La domanda le uscì di bocca senza averci pensato prima. Arrossì, e non era solo l’effetto del vino. Si alzò e andò a controllare la cottura della carne.
“Certo. Parla stretto. E poi ogni tanto esce fuori con certe espressioni… ma come mai me lo chiedi?”
Barbara avvertì di nuovo nelle orecchie “padron cumanda” e “la Favorita” con quella t appuntita, e non strascicata come l’avrebbe pronunciata un senese. Detta così faceva anche più male.
Ma chi poteva essere? Di donne in Reparto ce n’erano solo due, una brava ragazza con cui aveva studiato insieme, e un’altra, la Sartini, di cui Giancarlo si lamentava spesso. Però a ripensarci ora, quando l’aveva incrociata ad un Congresso, aveva notato l’astio con cui la guardava, con quella faccia da strega. Anche se di fisico era discreta, con le gambe lunghe fasciate da un pantalone aderentissimo e un sedere da copertina. E a suo marito il lato B era sempre piaciuto.
“Mi era sembrato che il Cannavero parlasse milanese sentendolo al telefono”.
Dai buchi che stava facendo nella bistecca con un forchettone vide risalire in superficie il sangue. Le voci di suo marito e sua figlia le arrivarono improvvisamente confuse, come da lontano, coperte dal crepitare della carne sulla piastra.
Quando si girò li vide uno di fronte all’altra che stavano scherzando, con lo stessa forma ovale del viso, la stessa pelle olivastra, il naso sottile. Tra loro avrebbe funzionato anche senza di lei.
Giancarlo chiese allarmato: “Che succede? Non stai bene?” come se le avesse letto dentro.
“Niente, niente”.
“Le bistecche vanno tolte da fuoco” intervenne Claudia che si alzò per portarle in tavola.
“E’ solo un po’ di stanchezza” proseguì Barbara di fronte allo sguardo insistente di suo marito.
“Mica ti fa male la pancia?”
“Ma no. Mangiamo dai”.
Quando tagliarono le bistecche, la carne era grigiastra e in bocca, anziché sciogliersi come burro, era stopposa. Fecero cena tutti e tre in silenzio. Barbara bevve diversi bicchieri di vino per aiutarsi a buttare giù quella gomma da masticare, che però, imbevuta di quel liquido acido, era ancora più disgustosa.
“Era meglio se non ci andavo da quel macellaio”.
“In effetti sia la carne che il vino non sono un granché” commentò suo marito tra un boccone e l’altro: faceva fatica anche lui a ingoiare quella bistecca.
“Per una sera va bene” concluse Claudia che avvertiva una atmosfera pesante a tavola. Appena finito di mangiare la ragazza sgattaiolò in camera sua.
“Stasera ci sarebbe la riunione in Contrada lo sai, ma se vuoi resto a casa a farti compagnia” fece Giancarlo. “Sei strana”.
“Ma no vai pure”.
Entrò in camera mentre suo marito si stava cambiando e chiuse la porta. Dando le spalle al quadro con la festa in maschera, per non cambiare idea vedendoselo davanti, gli chiese a bruciapelo: “E’ vero che sei l’amante della Sartini?”
Giancarlo rimase fermo con il maglione arrotolato intorno al collo e le mani strette sull’apertura a V per qualche secondo, poi lo indossò con calma guardandosi attentamente allo specchio. Anziché scoppiare a ridere di fronte a un’ipotesi così assurda, stava prendendo tempo per decidere come rispondere. Con la mano destra si pettinò la ritrosa.
“Chi te lo ha detto?”
“Te rispondi alla mia domanda”.
“Sono solo chiacchiere dell’ospedale, faresti bene a non ascoltarle”. Suo marito si avviò verso lo stanzino dove tenevano le scarpe.
Barbara gli andò dietro e lo osservò attentamente: mentre si stava allacciando gli scarponcini appoggiando prima un piede e poi l’altro allo scaleo addossato al muro, gli tremavano leggermente le mani, sempre così ferme in sala operatoria.
“Sono chiacchiere consistenti”.
“Te l’ho detto mille volte, te sei la madre di mia figlia, questa è la mia famiglia.” ribadì Giancarlo mettendosi dritto davanti a lei. “E non torniamoci sopra”.
“Da stasera dormi in mansarda”.
Lo vide scendere qualche scalino per poi tornare indietro verso di lei. Non per chiederle scusa o perdono, no, ma solo per mormorare: “Tieni Claudia fuori da questa faccenda”.
Barbara augurò la buona notte a sua figlia, poi si sdraiò sul letto ad occhi chiusi, lasciando scorrere le lacrime. All’improvviso sentì una gran nausea, insieme ad un rigurgito acido in gola. Corse al bagno, si chinò sul water e buttò fuori la bistecca chianina con il resto della cena.
“Era dai tempi della gravidanza che non vomitavo. Deve essere stato quel vino tremendo. D’ora in poi sarà il caso di darsi una regolata”.
Tornò in camera che si sentiva uno straccio, ma ebbe la forza di chiudere a chiave la porta dietro di sé, perché il suo segnale fosse ancora più chiaro. Quando fu sotto le coperte, per un istante le passarono davanti i mille problemi legati ad una separazione.
“Ci penserò un poco per volta” si disse prima di avvertire una grande stanchezza e addormentarsi.
Accanto al titolo: Annibale Carracci, Piccola macelleria, 1582 ca. (particolare). Fort Worth, Texas, Kimbell Art Museum