Gli intrecci tra vita e arte
Le ragioni di Godard
Il senso della vita e quello della morte: lo spirito di Godard era già tutto nel suo film "Fino all'ultimo respiro". L'analisi della storica del cinema Ivelise Perniola, autrice di un saggio appena uscito in libreria
Il titolo del primo lungometraggio di Jean-Luc Godard risulta quantomai profetico: Fino all’ultimo respiro, quello che il regista ha esalato in un fresco giorno di settembre, finalmente liberato dal peso di una vita che non sopportava e che forse non aveva mai sopportato. Nel film Le petit soldat (1960) il protagonista a un certo momento sostiene che i morti sono fortunati dal momento che sono già morti e non hanno più la paura di morire, quindi si liberano dalla grande ossessione dell’essere umano.
Fino all’ultimo respiro è un film impregnato di questa paura; Godard lo realizza in un periodo tormentato della sua vita (anche se viene spontaneo domandarsi se vi siano stati momenti in cui il tormento lo abbia sollevato dalla sua muta e costante presenza), pressato dall’ambizione e dal successo dei suoi sodali compagni dei “Cahiers du Cinéma”, ansioso di dimostrare la propria capacità di realizzare un film e attanagliato da un senso di morte costante che si legge all’interno dell’opera dalla prima all’ultima immagine, quando Michel muore platealmente in Rue Campagne-Prémiere colpito dagli spari della polizia. L’ultima inquadratura vede Michel guardare Patricia, nel frattempo arrivata davanti a lui, e dirle una frase che è passata alla storia del cinema: “Tu es dégoulasse”. “Sei una schifosa”, ma in realtà, il pronome si perde nel biascichio della morte imminente e forse a essere schifosa è la vita, di cui Patricia è la più luminosa incarnazione.
Nella camera d’albergo dell’Hotel de Suède, in cui i due innamorati si rifugiano con edonistico disimpegno, mentre per le strade sfila il corteo della visita di Eisenhower, ha luogo un lungo scambio di battute centrate sui tempi morti (ancora la morte) dell’amore. Patricia, citando una famosa frase di Faulkner, chiede a Michel cosa sceglierebbe tra il dolore e il nulla; lui sceglie il nulla, perché il dolore è da stupidi (non si può non ricordare il titolo del manifesto filosofico di Sartre, L’essere e il nulla, pubblicato nel 1943). Michel alla fine si potrebbe salvare, come Godard in questa estate di probabili dubbi e ripensamenti, ma non lo fa, va incontro alla fine con la chiara consapevolezza che tra il dolore e il nulla è sempre meglio il secondo.
La scelta finale ratifica le parole precedentemente pronunciate, Michel sceglie liberamente la morte, quindi il nulla, per non dover soffrire il dolore dell’abbandono. La scelta della morte è una scelta libera. Essere umani significa essere liberi di scegliere e, in questo snodo centrale della filosofia sartriana, si ravvisa il legame più forte di Godard con i personaggi di Fino all’ultimo respiro.
Il cupio dissolvi attanaglia la vita di Michel Poiccard, figlio minore e ingenuo dello Straniero di Camus, pronto a vivere velocemente e pericolosamente senza nessuna percezione del domani e di un futuro da cui si tira volontariamente e felicemente fuori. All’indomani della morte di Godard è comparsa su alcuni quotidiani italiani una disarmante intervista a Gérard Depardieu, nella quale l’attore francese utilizza una pregnante metafora per ricordare il regista franco-svizzero: ovvero Godard era un autobus passato sul suo corpo, un corpo quindi oppresso da una pesantezza esistenziale insostenibile che trova solo nel cinema la possibilità di una leggerezza che la realtà nega costantemente. Godard amava ripetere che il cinema è, in un certo senso, la resurrezione del reale; per questa ragione Fino all’ultimo respiro non è un film come tutti gli altri ma un documento filmato sulla gioventù e su di una certa Parigi di fine anni ’50 che solo Godard è riuscito a filmare con un’intensità e una verità senza pari.
Fino all’ultimo respiro è una contemplazione sulla bellezza dei corpi, quello di Jean-Paul Belmondo e quello di Jean Seberg, un’altra donna-autobus, riprendendo la metafora di Depardieu. La bellezza, dunque, scaturisce dalla realtà, quella che Rohmer definisce lo splendore del vero. Il cinema non fa altro se non presentificare attraverso un’immutabile ripetizione quello che di fronte alla macchina è stato immortalato, in tutta la sua disarmante semplicità, oltre la morte, fino all’ultimo respiro.
Ivelise Perniola è autrice di Godard: Fino all’ultimo respiro (Carocci, 120 pagine, 13 Euro).