Cronache dal Lido
La libertà è diversa
Due film sulla diversità come normalità di Georgia Oakley e di Florent Gouëlou aprono le sezioni laterali della Mostra del cinema: due opere non pienamente che non puntano su una sensualità esibita e, nel caso del primo, privilegiano il punto di vista femminile
La programmazione delle sezioni indipendenti di Venezia 79 procede all’insegna di film che celebrano la diversità e ne raccontano il disagio all’interno di una comunità ancora in parte impreparata e diffidente. Dopo l’evento di apertura con la proiezione del documentario di Cousins Marcia su Roma, la programmazione delle Giornate degli autori alla Mostra del Cinema di Venezia propone Blue Jean. La Settimana Internazionale della Critica, invece, celebra l’apertura ufficiale della propria trentasettesima edizione con il lungometraggio Trois Nuits par semaine.
Blue Jean è l’opera prima della regista Georgia Oakley. La pellicola, una produzione UK targata Kleio Films, BBC Films e Great Point Media, racconta il disagio di una donna, Jean, con la propria omosessualità. E fino a qui dà l’impressione di essere una storia qualunque di accettazione e lotta per la libera espressione della propria identità. L’elemento che la rende interessante, tuttavia, è l’ambientazione: Newcastle, 1988. Il Regno Unito di Margaret Thatcher. Per riportare alla memoria i fatti storici, il governo Thatcher in quell’anno, nel Local Government Act, introduce un emendamento che obbliga le autorità locali a “non promuovere intenzionalmente l’omosessualità o pubblicare materiale con l’intenzione di promuovere l’omosessualità” e “non promuovere l’insegnamento in qualsiasi scuola finanziata dallo stato dell’accettabilità dell’omosessualità come pretesa relazione familiare”. Questa clausola suona a tutti gli effetti come un modo indiretto per assimilare l’omosessualità a una devianza. Jean è un insegnante di educazione fisica e allena anche la squadra femminile della scuola: per mantenere il proprio lavoro, che ama, è costretta a vivere la propria omosessualità di nascosto. La situazione precipita quando una sera, in un locale lesbico, incontra una propria studentessa.
Il film non è un capolavoro che rimarrà nella storia del cinema, va detto. Tuttavia, presenta degli elementi di grande interesse, soprattutto in due direzioni. La prima è la presenza di un vero sguardo femminile. È un tema caldo questo, oggi, in ambito culturale e artistico. Sembra che per quanto le donne si sforzino di autorappresentarsi con un proprio sguardo (femminista e anti-patriarcale), la lunga tradizione di occhi e parole maschili prevalga inevitabilmente, anche quando le autrici o le artiste sono donne. Credo che questo film, invece, rappresenti un’alternativa vera. L’omosessualità femminile è mostrata sullo schermo senza pudore, ma al contempo senza ostentazione. Certamente contribuisce largamente allo scopo la recitazione piana, ma non piatta, di Rosy McEwen, ma anche la scrittura e soprattutto la regia giocano un ruolo fondamentale. Le scene più intime ed erotiche sono rappresentate senza sensualità, o meglio senza la sensualità cui l’immaginario “pornografico” lesbico ha abituato il pubblico: una sensualità costruita per essere guardata e non, come questa, per essere vissuta.
Il secondo elemento da tenere in considerazione è l’attenzione alla fisicità dei corpi. Questo aspetto caratterizza già di per sé il cinema inglese, che, rispetto al cinema e alla serialità televisiva italiana, ha una sana tendenza a rappresentare, soprattutto per le donne, fisicità varie, diverse dall’immaginario “Miss Italia”. Nel caso di Blue Jean, questa volontà è particolarmente evidente nella scelta dell’attrice che interpreta il ruolo di Viv, la compagna di Jean, Kerrie Hayes, ma emerge anche nella rappresentazione dei personaggi adolescenti. Non sono corpi né belli né brutti. Sono solamente corpi che possiedono una propria autentica sensualità.
Con Trois Nuits par semaine ci spostiamo nel mondo drag queen parigino. La particolare adesione alla realtà che permea la pellicola è aiutata dall’esperienza personale nel mondo drag del regista, che è anche autore del film, Florent Gouëlou, che si era già espresso sull’argomento nel corto del 2017 Un homme mon fils. Il protagonista della storia è Baptiste, ventottenne che sogna di sfondare come fotografo ed è fidanzato con Samia, laureanda in medicina. A sconvolgere la sua vita è l’incontro inaspettato con Cookie Kunty, drag queen che frequenta i locali notturni parigini. Dopo un primo incontro con la drag, Baptiste, letteralmente folgorato, decide di realizzare un progetto fotografico sul suo mondo. Come racconta il regista, presente in sala, con Baptiste, interpretato potentemente da Pablo Pauly, vuole raccontare la propria fascinazione per il mondo drag. E ci riesce. Ci riesce senza dubbio. Il personaggio che ci troviamo davanti è spaesato, ma non spaventato, per l’attrazione che prova nei confronti di Cookie Kunty (Romain Eck). Con lui troviamo sullo schermo un modello di mascolinità alternativo (bestia rara nell’audiovisivo forse tanto quanto il suo corrispettivo femminile). Il suo personaggio, infatti, non è un etero che si scopre gay. In fondo, la sua esperienza, anche sessuale, con Cookie Kunty e il suo gruppo di amiche drag è solo la facciata esterna di una necessità interiore, che viene incisivamente espressa da una battuta che la drag gli rivolge: “Smetti di chiedere scusa di vivere”. Questa è l’irrinunciabile necessità del protagonista. Questo è il richiamo che lo fa scendere la notte nei locali drag di Parigi, con la tentazione di non tornare più in superficie. Per questo il film riesce a colpire così nel vivo lo spettatore. Impossibile rimanere indifferenti.
Non è un film tecnicamente perfetto. Tutt’altro. Di imprecisioni tecniche e ingenuità narrative se ne potrebbero trovare abbastanza da far saltare sulla poltrona della sala un critico qualunque. Tuttavia, è un film che tocca dei tasti profondi. Attraverso gli occhi di Baptiste entriamo anche noi nel mondo delle drag queen, ma non perché lui ci faccia da “guida etero” attraverso le stranezze del mondo queer, quasi gli ispettori fossero un gruppo di turisti in visita. No, ci entriamo attraverso quello stesso stupore, quasi infantile, che l’attore riesce così bene a ricreare di fronte alla camera. Sembra una sorta di magia, un sortilegio. Ci ritroviamo, senza capire bene come e perché, a bocca aperta di fronte alla potenza e alla bellezza di quel mondo. Ancora una volta ci viene in aiuto una battuta tanto ironica quanto lapidaria che Cookie rivolge al suo nuovo amico: “Attento, chi dorme con una drag si riempie di paiettes”. E a noi spettatori, succede esattamente questo: ci riempiamo di paiettes, di vita, di colore. Pur essendo ambientato nella Parigi di oggi, sembra di essere catapultati costantemente nei favolosi anni Ottanta. E anche questo è un aspetto di originalità notevole: il film racconta anche un disagio, ma rimane una commedia leggera e vitale. L’intento di Baptiste, documentare con delicatezza e con il sorriso il “dietro le quinte” della vita drag, sembra lo stesso dell’autore del film.
Oltre alla già citata necessità di Baptiste di smettere di chiedere scusa, c’è un altro elemento che trasporta lo spettatore fuori dalla specificità del mondo drag, rendendo la storia universale e per questo così felicemente fruibile: i problemi relazionali di Baptiste e Cookie. Cookie ha due parti in sé. La drag e il ragazzo che “sta sotto” il trucco e i vestiti scintillanti. Qual è quella vera? A questa domanda chiaramente non c’è risposta. La drag è parte di lui. La drag è lui. Il personaggio che crea fa inevitabilmente parte di sé, è qualcosa di più di una parrucca e un trucco pesante, ma non è nemmeno la sua totale identità. Quando Cookie si spoglia la prima volta e si toglie le paiettes, la pancera, le calze, le ciglia finte, l’imbottitura del seno, rimane un ragazzo come tanti altri. Baptiste lo guarda e deve quasi fare uno sforzo di volontà per riconoscerlo. Gli stringe il seno e lui gli ricorda scherzosamente che non ce l’ha. Questa scena è così vera e potente da arrivare dritta al cuore. Perché? Perché diventa un simbolo di quello che chiunque prova in una relazione con un partner: la necessità di accettare che ognuno ha parti diverse in sé che convivono, talvolta pacificamente, più spesso ingaggiando una lotta spietata.
Queste “identità alternative” difficilmente corrispondono sempre alle proiezioni che facciamo sull’altro, rischiando di lasciarci sbalorditi e inebetiti, perché non le riconosciamo. Non ci capacitiamo di come possa trattarsi sempre della medesima persona. La sfida, sembra suggerirci il film attraverso l’arco del protagonista, è quella di accettare che l’altro sia questo ma anche quello e magari anche quest’altro ancora. Il film ci chiede di sforzarci di mettere da parte, per una volta, la necessità costante di etichettare, dettata da una condivisibile paura che la realtà fugga dalle nostre categorie per non tornarci mai più e lasciarci in una desolata landa di caotica libertà.