A proposito di “Oratorio di Lame”
Poesia della ferita
La nuova raccolta poetica di Federico Edgar Pucci è abitata da molte figure umane che mostrano le loro ferite
Oratorio di Lame di Federico Edgar Pucci (Edizioni Helicon) è stato per un po’ sul comodino che funge anche da scala alla libreria. Avevo cominciato con la lettura dei primi versi e mi sono bloccata alla seconda poesia. Mi dico, questo è uno di quei libri che ti chiamano, di quelli che vanno letti più volte. Curiosando qua e là tra le ultime pagine, ho trovato nelle note un’informazione interessante: «meglio che Dio rimanga sconosciuto», una citazione tratta da una poesia di Amelia Rosselli, scoprendo così un saldo riferimento dell’autore; dalla quarta di copertina estrapolo invece dalla nota introduttiva una frase di Patrizio Ceccagnoli: […] «Un brusio d’alveare in cui si modula una mistica e anarchica bestemmia». Metto insieme la Rosselli, Dio e la bestemmia e già sono in associazione di idee e di stati d’animo.
Il caldo, il bisogno di lettura, la città di Firenze (da dove mi è giunto il libro) e l’ossimoro nel titolo: Oratorio di lame continuavano a parlarmi voracemente all’orecchio. In più, gli ultimi versi che avevo letto dicevano: «metti che siano le tre del mattino e cadi polverizzata giù dal letto…».
Questo stato d’animo che riconosco e la musicalità classica dei versi spesso mi trasferiscono dalle braccia malinconico/giocose del Cyrano de Bergerac a quelle di un Ariosto, che più che costruire abilmente sogni mi appare allucinato, strappandomi così, tra ironia e paradossi, amari sorrisi. Ma c’è un dolore sottocutaneo, una solitudine necessaria con cui l’io del poeta intesse un gioco simulatorio in cui deforma le parole e emergono gli utilizzi parodici dei registri linguistici, analogie, accumulazioni. Le figure umane vi abitano numerose e anonime, le percepisco ferite, a volte trattate con compassione, ma subito cado impietosamente nel pozzo illuminato dall’ironia di immagini spiazzanti: «[…] nel peggiore dei casi pensa che dentro il cavallo di Troia/non c’era il gabinetto […]».
Il poeta usa un non confidenziale “tu” che imprigiona il suo io inquieto, che stritola anche me in una libertaria incomprensione, graffiante come carta vetrata, sebbene (ed è inevitabile) che i versi travalichino la decisa intenzione di non consolare. Ma l’Amore trasuda come sangue denso o come lieve bolla di sapone, inevitabilmente nella treccia di mamma, nella remora prima di un bacio, nella giocosa nostalgia dell’infanzia… ed è un Amore a cui sembra manchi spesso la voce, una voce dal tono cieco.
Ho sentito appena il rumore della carta piegata a forma di vulva in modo da costruire una specie di dolcezza e, non ricordo se prima o se dopo, l’acqua non cade ma si maciulla nel pozzo. Tutto sembra un crollare o cadere come bomba: il sudore, la pioggia, la vasta fanfara di letame, le paure della gente, le radici atterrite da cui non si tira su niente… «E per prima cosa bisogna esser disposti a/ traballare/ sui trampoli sulla battima deserta (che poi è / l’unico modo di mettere in crisi un poeta)». Vedo il poeta in bilico sui sassi che spuntano da un fiume non navigabile, come le parole che si vorrebbero balbuzienti, «ma i balbuzienti (purtroppo) se ne sono andati via tutti».
È difficile raccontare la poesia perché le parole hanno a che fare con domande senza risposte, ed è proprio il poeta a sottolineare: non sono a caccia di risposte.
Federico Edgar Pucci sembra distillare versi, ricerca il suono al di là del senso, forse anche quello delle anime troppo impegnate nel consumo di tappi di terriccio contro il suono del terrore. E non cado insieme al poeta in forme di abbandono, piuttosto di parossismo, da cui si esce in un perfetto equilibrio tra il fango della terra e il cielo altissimo.
Questo mi riporta all’immagine di copertina di Andrea Oriani, in cui una figura umana s’innalza leggera, tirata su da un palloncino/utero gravido mentre un piede poggia ancora su forbici aperte, un’ombra pronta al taglio. Così come sono taglienti e giocosamente tragici i versi di Pucci, che s’impigliano in assonanze, in allitterazioni fenomeniche, a volte precipitati nella rima.
Concludo questi frammenti di pensiero, di promiscuità poetica, con un saltare di palo in frasca (piacere musicale del poeta) e con l’incomunicabilità dovuta al silenzio della parola, che se ne sta in fondo agli occhi in uno specchio dilapidato:
[…] alla fine era il verbo?
in fondo agli occhi uno specchio dilapidato.
chiudi il becco…
l’inferno è vuoto
ha ragione chi si scotta la lingua!
da scattivare un grammo d’anima.
lasciarla a secco in ammoniaca.
A questo mio cedere alla tentazione di un cut-up, forse il poeta mi potrebbe rispondere con un suo ingegnoso verso: è sottilmente perverso aggiungere un tuorlo all’/eguale.
È vero, l’ho proprio fatto.
Concluderei… Come vedete albergano nei versi solo lettere minuscole e punti senza una vera e propria fine. Perché il dolore del poeta è continuo e rimane frammentato in qualche riga bucata dello spazio bianco:
sacrificarsi a un attimo/amo il
dolore.
quel suo liberarsi dei problemi dell’intelligenza quel
suo fare le scale sempre
ridendo.
Termino con un passaggio di mani e di libro, con le parole di Patrizio Ceccagnoli prese in prestito da Kafka: un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.
E quel mare di ghiaccio si frantuma, ma mi ripescano i versi e quel filo di ragno ospedaliero.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini