Giuliano Capecelatro
“Quando abbiamo smesso di capire il mondo”

Il gatto e i Quanti

Il bel libro di Benjamìn Labatut analizza, come fosse un romanzo, lo sviluppo novecentesco delle teorie dell'indeterminatezza: la radice della Realtà non esiste? Forse il problema è non smettere di farsi delle domande

C’è questo gatto. Dispettoso, molesto. Pieno di sé. Asserisce, e non teme smentite, di essere vivo – e fin qui tutto ok – e al tempo stesso di essere morto.  Una zampata (il)logica che di colpo sfilaccia la bella tela compatta, nitida e dai colori vividi, che siamo abituati a chiamare Realtà. E sfodera, malignazzo, lo stesso sorriso sornione del suo glorioso antenato, il gatto del Cheshire celebrato da Lewis Carrol, di fronte ad un homo sapiens attonito e smarrito, che balbetta: ma allora la Realtà?

La sfrontata affermazione, a rigor di termini, è farina del proprietario dell’animale, Erwin Schrödinger (nella foto accanto), fisico austriaco con tanto di Nobel (proprio per merito del gatto), studioso tenace, matematico fantasioso e avventuroso rubacuori. E rappresenta, quell’immagine contraddittoria, il mistero centrale dell’indecifrabile mondo dei quanti, l’universo dell’infinitamente piccolo.

Mistero che in gergo tecnico viene denominato sovrapposizione quantistica; dove, appunto, vengono a sovrapporsi due stati ai nostri occhi di scimmie evolute inconciliabili, riassunti in una lettera dell’alfabeto greco, la ψ, che sta a designare un comportamento per lo meno bizzarro, imprevedibile.

Non del gatto, s’intende, che bizzarro lo è di suo, ma delle onde degli elettroni, che scivolano verso mete indeterminabili. E che, al cospetto di un gatto accovacciato in uno scatolone che contenga anche un accrocco potenzialmente venefico, possono determinare la sorte dell’animale.

Schrödinger e il suo gatto beffardo appartengono a una folla di personaggi che popolano l’affascinante libro di Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, pagg. 180, 18 euro), scrittore cileno nato a Rotterdam. Una lettura godibilissima, stimolante, grazie all’indiscussa capacità narrativa dell’autore, che trasforma un’incessante, impervia ricerca scientifica in una palpitante avventura umana nel reame della Conoscenza.

Un viaggio alla ricerca del Cuore del cuore, l’approdo ultimo, conclusivo della navigazione nel maremagno delle matematiche. La luce che tutto dovrebbe illuminare. Così nelle parole di Alexander Grothendiek, matematico straordinario, che considerava l’esercizio della sua disciplina piacevole come l’amore, e “la cui pulsione erotica – scrive Labatut – non era inferiore ai suoi interessi spirituali”, tanto da sedurre uomini, donne e spargere figli nel mondo.

Un florilegio di aneddoti, in cui i protagonisti, celebri, noti e meno noti, si stagliano con immediatezza, si muovono come tra le pagine di un avvincente romanzo. Giganti della matematica, della chimica, della fisica. Còlti nelle loro peculiarità individuali, nei loro timori e tremori, nello sforzo di un’indagine inesausta, in un’appassionata, non di rado drammatica, tensione conoscitiva.

Compare, e non può non comparire, ma in una particina secondaria, Albert Einstein, oggi ridotto dalla pubblicistica e dalla pubblicità a logo universale di un’intelligenza extralarge. In uno col suo collega, amico e contraddittore Werner Heisenberg – cui spetta, invece, il ruolo principale –, che gli sbatte in faccia il suo principio di indeterminazione. E all’incallito determinista Einstein, che continua a obiettare: “Dio non gioca a dadi” (dove dio, va da sé, è una figura retorica), ribatte: “La smetti di dire a dio quello che deve fare?”.

Prepotente si erge Schrödinger, tra formulazioni perentorie e dubbi atroci che lo porteranno all’apostasia di quell’equazione elegante e sconvolgente, col suo demoniaco felino che, al contrario, continua a non palesare ripensamenti.  Quindi una teoria di scienziati che sono illustri sconosciuti anche per lettori di buona cultura. Tutti impegnati con pervicacia, come tanti Pollicino, a mettere uno dietro l’altro quei sassolini che dovrebbero condurre all’albero della Conoscenza.

Quel gattaccio ha la pretesa assurda di aver mandato al tappeto Aristotele, il pomposo stagirita… ipse dixit, e la sua logica, col caposaldo del principio di identità (A è A), ricodificato dalla scolastica con il corollario del principio di non contraddizione (non è non-A), architrave della nostra razionalità; per cui un cavallo è un cavallo, e non può essere anche una libellula o un apparecchio radio, “per la contradizion che nol consente”, chioserebbe Dante, abbeveratosi a larghe sorsate alla fonte di san Tommaso.

Per fortuna, c’è da dire, la doppiezza di cui mena vanto la bestia non riguarda direttamente i nostri sensi grossolani e limitati, di creature immerse in una dimensione che definiscono macroscopica e considerano la sfera del microscopico come una mitica Atlantide. Per noi il gatto, la smetta di sfruculiarci, sarà sempre o vivo o morto; tertium non datur.

Ma il gatto da qualcuno è stato preso in parola e ha fatto proseliti. Nel senso che non manca, e si tratta di gente seria, scienziati, filosofi, chi ritiene che la ψ di Schrödinger non sia un mero indicatore di probabilità, ma fornisca un’effettiva descrizione del mondo. Che a questo punto, per effetto del moto ondoso degli elettroni, non sarebbe univoco ma plurimo.

Ogni soggetto, ogni persona, avrebbe (e a sua volta sarebbe) una replica che agisce in un contesto parallelo e autonomo. Come dire che l’io (entità che sappiamo quanto sia fallace) che sta scrivendo queste righe ha un sosia che, impercepibile ma poco più in là, se ne sta in panciolle in riva al mare, e ancora un altro che progetta un colpo di stato nello Zerostan, e così via in una catena infinita di mondi dove le giravolte dell’onda disegnano situazioni diversissime.

C’è dell’altro. Quasi un sottotesto, nella descrizione delle sofferte esperienze, dell’ardore, delle speranze, angosce e terrori patiti dai protagonisti. Che raggiungono l’acme quando entra in scena Werner Heisenberg, il pensatore che porrà le fondamenta della meccanica quantistica. La sua ricerca ha i tratti classici dell’ascesi.

Costretto da una allergia a rifugiarsi su un’isola desolata, Helgoland, Heisenberg continua a studiare, a scervellarsi. Invano. Fin quando, sempre più malconcio, in uno scenario da tregenda ha una visione, l’illuminazione che lo porterà a concludere la sua travagliata ricerca. Partendo da un dato elementare, l’osservabilità, che sfocia in un’equazione “compatta, semplicissima. Incomprensibile”, commenta il fisico italiano Carlo Rovelli nel suo splendido Helgoland.

Forse non a caso. I percorsi del pensiero umano, dopo la trionfale stagione positivista, appaiono sempre più proiettati verso un traguardo tanto agognato quanto imperscrutabile, la ricerca di un Sacro Graal del Sapere, senza ombre, esaustivo, definitivo. Un elemento mistico sembra innervare fisica, matematica, filosofia: le pagine di Essere e tempo di Martin Heidegger, per dirne uno, forse il pensatore più rappresentativo, sono impregnate di misticismo, sia pure avvolto in un rigoroso linguaggio specialistico.

L’uomo continua a sognare di cogliere la Realtà nella sua radice ultima, da cui tutto promana; ma ad ogni passo questa si fa più sfuggente, fantasma che illude e delude; naufrago in uno spazio in cui non è che pulviscolo, quanto più vede prossima la riva, la terra promessa del sapere assoluto, tanto più essa si allontana. Ma vuoi vedere che, alla fine, quel dannato gatto aveva capito tutto?

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