Periscopio (globale)
Il caso Harpman
A dieci anni dalla morte, è arrivato il momento di rileggere (o per meglio dire "leggere", poiché da noi è colpevolmente ancora poco nota) la scrittrice belga Jacqueline Harpman. Una vita tra psicoanalisi e letteratura
Un tempo, se si diceva letteratura belga di espressione francese, si pensava subito, e direi esclusivamente, a Simenon. Poi è stato il momento, durato forse troppo poco, della meritata fama di Marguerite Yourcenar. Oggi, certo, continuiamo a pensare a Simenon, fenomeno mediatico e letterario di lunga durata anche per le dimensioni della produzione letteraria, e naturalmente anche alla Yourcenar. Ma al tempo stesso, se ci guardiamo intorno fra gli altri autori del Novecento e i contemporanei scopriamo che c’è anche dell’altro: da Henry Bauchau (di cui riparleremo presto) a François Weyergans, dalla potente vis satirica, da Jean-Philippe Toussaint, romanziere che è anche regista cinematografico all’ormai onnipresente Amélie Nothomb, con il suo manierismo virtuosistico (ma pur sempre manierismo).
Approfitto qui di una ricorrenza, il decennale della morte, avvenuta a Bruxelles in seguito a un tumore il 24 maggio 2012, per accendere i riflettori su un’altra scrittrice belga, Jacqueline Harpman, ancora troppo poco nota in Italia. Di lei mi risultano disponibili da noi solo due romanzi, l’essenziale Orlanda e Le bonheur dans le crime (Il piacere del crimine), pubblicati da Voland e Perrone rispettivamente nell’ormai lontano 2010 e nell’ancor più remoto 2007, mentre per tutti gli altri testi il lettore dovrà ricorrere all’originale francese o alla traduzione in altre lingue. Ed è, come spesso in questi casi, un vero peccato, perché, se è vero che in Italia si traduce tanto, è vero anche che si traduce a macchia di leopardo, secondo le mode del momento.
Nata il 5 luglio del 1929 da madre belga francofona e padre ebreo d’origine neerlandese, Jacqueline Harpman è stata non solo scrittrice, ma anche (come il più anziano Bauchau) psicanalista; nel suo caso della scuola, per essere precisi, di Melanie Klein. Ha esercitato entrambi i mestieri fino alla fine, e in alcuni dei suoi libri è davvero difficile scindere l’approccio letterario da quello psicanalitico, che anzi contribuiscono entrambi a un fruttuoso sdoppiamento, cui la Harpman si mantiene fedele nel corso dell’intera carriera letteraria. Certo, con l’andare del tempo, e soprattutto nella seconda fase produttiva – i primi quattro romanzi appaiono fra il 1958 e il 1966, poi la Harpman interrompe l’attività letteraria per vent’anni, tornando nelle librerie solo nel 1987 con La mémoire trouble –, gli intrighi narrativi si fanno sempre più ricchi e complessi, le allusioni alla terapia psicanalitica sempre più produttive. La dicotomia fra Eros e Thanatos, tanto per fare un solo esempio, è al centro de La Plage d’Ostende (1991). Nella stessa opera, come nella precedente La fille démantelée (1990), anche la relazione madre-figlia, sempre difficile e contrastata, svolge un ruolo di estrema importanza. Se è vero quindi che la Harpman non si è mai sottratta all’esigenza di presentare nei suoi libri, in modo nuovo e originale, delle riflessioni approfondite sull’amore, la morte, la famiglia e l’identità, non poteva certo sfuggirle quella che è una delle pietre d’inciampo costanti nella costruzione della personalità, il rapporto con i genitori, e in particolare, trattandosi quasi sempre di identità femminili, quello fra la figlia e la madre (spesso) castratrice.
Scritto sulla falsariga dell’Orlando di Virginia Woolf, a cui si richiama con tutta evidenza fin dal titolo ma con cui finisce per avere in comune meno di quanto si supporrebbe, Orlanda (1996), che otterrà il prestigioso premio Médicis, mette al centro il tema del Femminile e uno spazio espressivo, tutto da inventare, che trascenda la tradizionale divisione fra i sessi. In quest’attualizzazione del mito dell’androgino e naturalmente anche del Doppio –la ripresa in chiave moderna dei miti era stata già sperimentata in Moi qui n’ai pas connu les hommes (1995) e lo sarà in seguito ancora in Mes Œdipe (2006) – la Harpman ci presenta Aline Berger, una giovane insegnante di letteratura inglese che aspetta un treno alla birreria della Gare du Nord per tornarsene a Bruxelles. (Il tragitto Parigi-Bruxelles in treno ritornerà curiosamente e sarà anzi lo scenario anche del successivo L’Orage rompu, del 1998.) Aline è sola, con un libro in mano, e il libro è naturalmente Orlando. Mentre legge è però attratta da un ragazzo a un tavolo vicino, ed è nel momento in cui scocca una specie di equivoca scintilla che, senza preavviso, le due identità si mescolano, o meglio una parte della sua personalità invade il corpo dello sconosciuto, che scoprirà poi chiamarsi Lucien Lefrène ed essere un giornalista specializzato in musica leggera. Come rileva a un certo punto l’autrice, “l’aventure qui nous est arrivée est très étrange, toi ni moi n’en connaissons les lois: il faut les subir et, à la longue, peut-être les définirons nous.” [“L’avventura che ci è successa è molto strana, né tu né io ne conosciamo le leggi: occorre subirle e forse, alla lunga, riusciremo a definirle.”] A ben vedere, questo “peut-être” sembra davvero grande come una casa, e le probabilità di capire alcunché di quanto ci accade davvero nella vita sono minime, sempre più remote.
Trasformatosi ora appunto in una nuova entità che si chiamerà Orlanda, Lucien si scopre improvvisamente attratto dagli uomini più che dalle donne, e misteriosamente molto più sensibile di prima all’estetica, alla moda, all’accostamento dei colori, ai prodotti di bellezza, e così via, tutti i consueti stereotipi, insomma, che vengono qui elencati dalla Harpman con ironia e quasi en passant. Con l’espediente narrativo dello sdoppiamento l’autrice non solo ristabilirà senz’ombra di dubbio la compresenza di maschile e femminile in ciascun individuo, ma partirà lancia in resta (senza fare la morale, semmai divertendosi e divertendo il lettore) contro le limitazioni legate al fatto di dover essere definiti, in campo sociale, solo come l’uno o l’altro, senza che si possa tener conto delle sfumature e delle sovrapposizioni che l’elemento maschile e quello femminile provocano e creano costantemente in ciascuno di noi. L’amore non è forse fusione, si chiede la Harpman, e il desiderio e la ricerca dell’altro sesso non servono forse ad arricchirci e a farci riscoprire quanto di noi è stato messo in ombra? Ancora una volta, l’elemento maschile in Aline è stato represso dalla società, simboleggiata e impersonata in primo luogo da una madre che fa di tutto per avere una figlia pienamente ed esclusivamente femminile, a propria immagine e somiglianza. Già nel citato La Plage d’Ostende un personaggio dichiarava: “On ne guérit pas de sa mère” (“Dalla propria madre non si guarisce”). E il rapporto doloroso fra la narratrice e la madre borghese, autoritaria e conservatrice, defunta ma non per questo meno accaparratrice, è al centro anche, come accennavamo, dell’autobiografico La fille démantelée, una serrata requisitoria costruita come un vero e proprio esercizio di “matrifobia” letteraria. In Orlanda tutto ciò prende ora le forme di un’aperta ribellione. Più avanti nel testo, con lucidità Harpman aggiunge: “On détruit sa vie sans le savoir, pour complaire à des gens qui nous ennuient mais auxquels on n’arrive pas à résister…” [“Uno distrugge la propria vita senza saperlo, per compiacere gente che ci annoia ma a cui non sappiamo resistere…”]. L’ordinaria amministrazione, insomma, di chi non sa opporsi, e di mancata scelta in mancata scelta si ritrova prigioniero di un’esistenza che non ha mai chiesto, di cui di propria mano non avrebbe mai disegnato così i contorni. In generale, e ciò vale per tutti i suoi circa trenta libri, i personaggi della Harpman cercano disperatamente di sancire una differenza, un’alterità, di liberarsi dalle regole e dalle pastoie della vita sociale.
Con accenti leggermente diversi, e sotto forma di amore tra gemelli (ma anche il personaggio di Aline era nato non a caso proprio sotto il segno dei gemelli), il tema dello sdoppiamento ritornerà anche in libri successivi, come ad esempio La dormition des amants (2002), dove i poli opposti si attraggono senza poter però mai perfezionare un’unione che resta a un livello fantasmatico e subliminale. Romanzo epistolare moderno, in cui è notevole l’eco delle Liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos, Le Passage des éphémères (2004) amplia ancora lo spettro delle tematiche trattate, fino a includervi, oltre al matrimonio e al suo corollario, l’infedeltà, anche la vecchiaia, il tempo, la paura di vivere, tutti temi psicanalitici per eccellenza. Curiosamente, o forse no, sembra che la Harpman avesse due studi, uno in basso dove riceveva i pazienti e uno in alto dove si ritirava a scrivere. Passare da un paziente all’altro, diceva, era come passare da un personaggio all’altro; l’unico luogo di cui non si dispone davvero è quello dove si dovrebbe poter ascoltare, in pace e serenità, il proprio io.
Per i precedenti da cui la scrittura della Harpman deriverebbe si sono fatti vari nomi: Madame de la Fayette – uno dei primi romanzi, Brève Arcadie, fu definito una nuova Principessa di Clèves –, ma anche Maupassant – in particolare per l’insistenza sul tema del Doppio che richiama irresistibilmente alla mente il racconto Le Horla – nonché Radiguet e il suo Ballo del Conte d’Orgel. Ma se c’è un nome che svetta su tutti, è indubbiamente quello di Stendhal, soprattutto per la capacità d’illuminare le relazioni sociali dei personaggi e la loro interazione con l’ambiente esterno. Tutta stendhaliana è anche l’eleganza del dettato, il rigore grammaticale e il nitore espressivo, per non parlare della volontà seduttiva nei confronti del lettore, che caratterizzano ogni pagina della scrittrice. Ma, tornando alla “belgitudine” a cui accennavamo all’inizio, e al fatto che in fondo la letteratura belga, soprattutto quella di espressione francese, nasce da una strenua ricerca identitaria e dalla necessità di distinguersi, potremmo dire che nella Harpman, come in Bauchau, è la componente psicanalitica, umoristica e talora crudele ma sempre resa con colori brillanti, a fare davvero la differenza.