A proposito di "Marcel!"
L’amore e il cane
Esce nelle sale l'esordio nella regia dell'attrice Jasmine Trinca. Una storia di amori primordiali e traditi, un triangolo di passioni e incomprensioni tra una madre, una figlia e un cane. Un film riuscito, anche grazie a un cast eccezionale. A cominciare da Alba Rohrwacher, Giovanna Ralli e Umberto Orsini
Arriva nelle sale Marcel!, l’esordio nella regia dell’attrice Jasmine Trinca, tornata a Cannes come giurato nella 75esima edizione appena conclusa. Due esordi celebrati a Cannes per lei: il primo come attrice esordiente nel 2001 ne La stanza del figlio di Nanni Moretti, vincitore della Palma d’oro; il secondo quest’anno come regista. Il film fa parte della selezione ufficiale nella sezione Séances spéciales.
La storia si può così riassumere: una bambina ama sua madre, ma sua madre ama solo Marcel, il suo cane. Questo semplice intreccio è incredibilmente potente, schietto, crudele. La madre è un’artista di strada che fa un numero con il cane, addestrato appositamente. Sua figlia, trascurata da lei, vive principalmente con i nonni, i genitori del padre, morto giovanissimo. Un giorno, dopo l’ennesima esibizione in piazza, Marcel scappa. La madre ne è profondamente ferita. La figlia, qualche sera più tardi, lo ritrova, Ma non lo riporta a casa: lo lancia da un parapetto, uccidendolo. Il ritrovamento del corpicino fa piombare la madre in una disperazione assoluta: decide di intraprendere un viaggio con la figlia, nella speranza che lei possa sostituire l’amato cagnolino. Nella performance e nella vita.
Marcel! è un film che parla d’amore ad ogni inquadratura. Lo fa in modo assoluto, quasi come in una tragedia greca. I personaggi, infatti, sono tutti dei simboli, dei ruoli, tanto che nessuno, tranne il cane, possiede un nome proprio. Anche il tempo e il luogo non sono definiti con precisione. La vicenda sembra ambientata in una Roma popolare, di borgata, che però non esiste più. I personaggi vivono in un tempo che a volte sembra quello di oggi, altre volte sembra gli anni Ottanta. Questa confusione è volutamente creata dalla regista e dalla cosceneggiatrice, Francesca Manieri, per ottenere un’atmosfera sospesa, surreale, assoluta.
La composizione di un non-luogo e un non-tempo avviene sapientemente con l’uso di costumi poco connotati, che potrebbero spaziare dagli anni Settanta ad oggi; con accurate scelte scenografiche che definiscono gli ambienti tramite l’atmosfera più che gli elementi strutturali; con la fotografia sospesa e ariosa di Daria D’Antonio e un suo particolare lavoro di stile visivo e, soprattutto, di color grading. Se da un lato questo gusto retrò che la pellicola trasuda (sottolineato anche dalla scelta di girare con un aspect ratio in 4:3, come nei film classici, invece degli ormai canonici 16:9) aiuta a immergersi in un mondo altro, sospeso spazio-temporalmente, rendendo le immagini quasi un ricordo personale dello spettatore, dall’altro lato stringe l’occhio a un’estetica “instagrammabile”, come se venisse applicato un filtro che rende le immagini più appetibili per i social media. Si potrebbe quasi dire che, pur essendo chiara la finalità artistica e narrativa di questa scelta, l’estetica del film risulti un tantino “radical chic”.
Alla fine del film appare una dedica: “Ai miei genitori, con amore”. C’è molto della storia personale della Trinca, trasfigurata ed elevata a vicenda universale. Sentimenti assoluti come l’amore, la rabbia, l’ossessione dominano lo schermo dal primo minuto. Tuttavia è un film che a tratti rimane freddo. La divisione in dieci capitoli, annunciati da altrettanti cartelli, svolge certamente la funzione di mediare il racconto, per dargli una forma di fiaba e attivare la magia del “c’era una volta…”. Tuttavia, contribuisce anche a staccare emotivamente lo spettatore, un po’ come accade nei film di Wes Anderson, dove il sentimento risulta sempre filtrato intellettualmente dalla mano del regista e dello sceneggiatore. L’effetto in questo film è simile. Si esce dalla sala con il cuore tiepido, non caldo.
Il film proviene da un cortometraggio: Being my mom, dodici minuti presentati a Venezia 2020 nella sezione Orizzonti. Non è difficile intuirlo sia perché l’idea che regge l’intero film è estremamente semplice ed efficace, sia perché nella seconda parte il film tende ad annacquarsi lievemente, creando delle piccole pance di attenzione, pur nell’evidente volontà di complicare e arricchire la trama.
Come stringe l’occhio al contemporaneo gusto retrò, così questo film è anche capace, però, di assumere in sé molta storia del cinema. Spesso, nei suoi 90 minuti, arrivano suggestioni che riportano a stili, autori, epoche diverse. Sicuramente si riconosce un omaggio appassionato al cinema muto, come la regista stessa racconta, soprattutto nella costruzione del personaggio della madre e nelle inquadrature che la vedono protagonista. C’è una surrealtà leggera e dolce, quasi alla Lanthimos; un’estetica che sembra prendere spunto, pur rielaborandola fortemente, da quella di Wes Anderson; un sorvolare placido ma puntuale sulla realtà di certa Nouvelle Vague; una divisione in capitoli che ricorda Lars von Trier. Solo per citare alcune delle suggestioni che arrivano durante la visione, che risultano, però, mescolate, fino a rendere l’impasto un’espressione originale, cui difficilmente si potrebbe attribuire una fonte di ispirazione primaria.
Il cast è uno degli elementi di maggior pregio del film. Un’Alba Rohrwacher che si trasfigura nel personaggio, fino a rendersi quasi irriconoscibile, come lei stessa ha dichiarato; una bravissima e promettente Maayane Conti; dei commoventi Giovanna Ralli e Umberto Orsini. Ci sono poi anche i contributi preziosi di Dario Cantarelli, Valentina Cervi, Valeria Golino e Giuseppe Cederna. Un cast scelto e diretto da una regista che è principalmente un’attrice, che per questo, come racconta la Rohrwacher, sa ottenere il massimo della resa dai propri attori, mettendoli a loro agio e fornendo loro i giusti strumenti per lasciarsi attraversare dal personaggio e dalla storia. A Jasmine Trinca, quindi, un grande plauso per la precisione nella costruzione interpretativa di tutti i personaggi, dai principali ai camei.