A proposito di “Poco a me stesso”
Il Manzoni immaginario
Il nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri parte da uno strano pretesto: Manzoni nacque illegittimo e crebbe in quartieri malfamati tra bari e criminali. Ne viene fuori una "biografia fantastica" che ritrae una Milano avventurosa e inedita
E se Alessandro Manzoni fosse stato esposto alla sua nascita presso la ruota della chiesa di Santa Caterina? Se proprio lui, probabile figlio naturale dello spericolato Giovanni Verri (fondatore della rivista «Il Caffè», che ebbe una relazione clandestina con Giulia Beccaria), soltanto in un secondo momento fosse stato riscattato dalla madre, pentita, e assunto come contabile nel palazzo di via Brera? Be’, avrebbe avuto certamente un altro nome, Evaristo Tirinnanzi ad esempio, e la sua vita avrebbe compiuto una parabola del tutto diversa. Come giocatore d’azzardo e frequentatore di quartieri malfamati (tipo il mefistofelico Bottonuto). Assediato da violente visioni, nebbie cognitive. Il romanzo di Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso (Marsilio, pp. 240, euro 16,00), parte da questa trama controfattuale per scrivere, non senza rispettosi ossequi, un «componimento d’invenzione più che di storia», un’ucronia, cioè una vicenda alternativa (sul modello Sliding Doors, per intenderci), ricca di colpi di scena – come un roman d’aventure – e giocata su un registro ironico che strizza continuamente l’occhio al lettore.
Il titolo si rifà alla terzina finale del Ritratto di se stesso, sonetto scritto da Manzoni nel 1881: «All’ira presto, e più presto al perdono, / Poco noto ad altrui, poco a me stesso, / Gli uomini e gli anni mi diran chi sono». Insomma, don Lisander non è più lui – complice il supposto mancato matrimonio tra Giulia e Pietro –, ma è appunto Evaristo, cresciuto dalla pubblica carità, che sente risuonare misteriosamente l’eco delle opere manzoniane da un universo parallelo; mentre la madre pseudobenefattrice, per riparare al danno, lo accoglie in una casa abbastanza tranquilla; finché nell’estate del 1841 non arriva a sconvolgere gli animi il barone di Cerclefleury, fine conoscitore del mesmerismo e delle teorie sull’elisir dell’eterna giovinezza. La marchesa, figlia dell’autore del rivoluzionario Dei delitti e delle pene, crede nel «magnetismo animale» di Mesmer e vede in Cerclefleury, settantenne con l’aspetto di un ragazzino, un rampante aiuto alla causa, poiché egli sarebbe in possesso del fluido giovatore. Il prosieguo del racconto è uno gnommero pynchoniano (o meglio: dickensiano) di bricconi e scommettitori, beoni e furbi matricolati, donnine e cicisbei cenciosi. Emerge così una Milano di sentimenti esagitati e improvvisi cambi di rotta, nelle cui girandole emotive il Tirinnanzi, un po’ inzuccato, si ritrova a sorbire apologhi e truffe. Ciò che importa qui sono la voglia di raccontare, il gioco stesso della narrazione nell’inseguimento del sensazionale, le potenzialità e gli ingranaggi della roulette («ruletta») combinatoria di traiettorie esistenziali che sfiorano la pura evenienza per entrare nel gorgo di ciò che non è stato, ma che poteva essere.
Zaccuri, già ideatore di una biografia leopardiana fantastica (Il signor figlio, Mondadori 2007; di prossima ristampa per Marsilio), guarda di sghimbescio a notevoli precedenti – Natale del 1883 di Mario Pomilio e La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg –, e utilizza un linguaggio in mimesi sette-ottocentesca di grande suggestione (ovviamente riannodato secondo il gusto moderno). Ecco un fulgido esempio: «Se solo Madre Natura avesse apparecchiato uno sportellino per ispezionare i cuori, e se mai lo si fosse aperto in quel momento, si sarebbe piombati nel mezzo di una giostra di risentimenti e di ripicche, al di sopra della quale aleggiavano parole niente affatto cortesi quali potrebbero essere “smorfiosa” o “maliarda” o altre ancora che il tacere è bello». Operazione d’antan? Tutto il contrario. In un tempo in cui la letteratura, per svecchiarsi, insegue i dolci velenosi del falso sé e dell’autofiction (le «micronarrazioni personali e soggettive», tipiche dei social-network, denunciate da Jonathan Franzen), una sana doccia di strutture diegetiche, di cangiante alterità e di intrecci da feuilleton non guasta, anzi ci restituisce il gusto di ascoltare una storia. Benché incastrata nel dedalo della sola possibilità.