Giuliano Compagno
A proposito del successo di “Ennio”

Ennio ad honorem

L'encomio tranquillo di un artista della tenacia e della genialità: questo è il (bellissimo) documentario di Giuseppe Tornatore su Ennio Morricone. La descrizione di una parabola umana e artistica unica, ma che segna il conflitto tra arte e passioni nel Novecento

I piccoli pregiudizi che “tieni” e che non ritrovi dopo aver visto Ennio di Giuseppe Tornatore. Il primo atteneva alla regia e al rischio di un film autocelebrativo e agiografico; il secondo, ancor più venefico, riguardava la figura artistica di Ennio Morricone, al quale è spettato un ruolo ingrato, almeno in Italia: di ottenere un riconoscimento artistico ancor prima che critico, così da entrare, postumo, in quella storia implicita dell’Estetica magistralmente esposta in tre volumi da Wladislaw Tatarkiewicz tra il 1962 e il 1967.

E tali furono la buona sorte e l’acume di Morricone da non entrare mai in diretta polemica né con i suoi denigratori né con i suoi minimizzatori. Aveva compreso che il dialogo avrebbe avuto luogo da piani sfalsati al solo scopo di emarginare il suo caso. Di renderlo, per bene che andasse, compatibile, nella lista di quei compositori non più all’altezza degli studi fatti e, di conseguenza, un creativo di seconda fascia che stava giocando le carte dei sentimenti facili attraverso una musica di semplice fattura e di confessione popolare.

Gli argomenti di cui sopra sono, in Ennio, intuibili ma non dichiarati, il che attesta l’alto stile della regia. Del resto, Tornatore aveva incominciato a pensare a Ennio prima ancora che il suo caro amico venisse a mancare. Di per sé, questa sarebbe già una considerazione importante: una cosa è scrivere, riprendere scene e immagini nel nome di un defunto; un’altra, e ben diversa, è dedicare il proprio lavoro a una personalità ancora in vita.

Penso che consapevolmente Tornatore avesse intrapreso una terza strada, più tortuosa: quella di montare un film che nel frattempo aveva cambiato titolo per via dell’inevitabile mischiamento di giudizi artistici, riflessioni critiche e aneddoti autobiografici di un artista che allo stesso tempo sarebbe apparso, a montaggio avvenuto, vivo e morto, presente e assente, dialogante e silente. La ricchezza inestimabile di Ennio comincia da qui. Essere e non essere.

Di conseguenza le prime scene del film non potevano che mostrare, senza datazioni rintracciabili, dei lampi di valutazione da parte di grandi nomi dello spettacolo e dell’arte mondiali: Eastwood («Era estremamente innovativo e lo è ancor oggi»), Tarantino («Ennio ha ampliato la mia visione»), Baez («Non è semplicemente popolare; è un inno»), Springsteen («Cominciavamo tutte le sere con quel brano: sempre lo stesso»), Bertolucci («La musica che abbiamo continuato a sentire per tutta la vita»)…

Mario Perniola portava in aula i Nirvana per evocare agli studenti l’esperienza estetica di una collisione, sublime, tra tempesta e quiete. Sono cresciuto su questi criteri di formulazione del pensiero. E già al secondo minuto di visione ho sentito che Ennio era vero e che, al momento opportuno, si sarebbe presentato Morricone nelle vesti di un bambino che segue faticosamente le orme del padre musicista. Mario Morricone esorta con una certa severità suo figlio a studiare musica con grande applicazione. I suoi primi ascolti di musica antica: Pierluigi da Palestrina e Claudio Monteverdi, poi qualcuno di più contemporaneo come Stravinskij e infine l’accesso al conservatorio di Santa Cecilia dove il ragazzo consegue tre diplomi: nel 1946 in Tromba (omaggio al padre); sei anni dopo in Strumentazione per banda e nel 1954 in Composizione con il professor Goffredo Petrassi. Il ragazzo aveva dedicato oltre un decennio della sua gioventù allo studio. Si era persuaso che probabilmente la sua strada poteva essere quella della composizione.

Petrassi non lo snobba ma certamente crede poco in questo suo allievo di “semplici” passioni, la cui strada gli pare segnata, magari in un’orchestra minore, o in qualche esperienza musicale e popolare. D’altronde Morricone non proveniva da una famiglia colta o incisivamente sensibile alle arti. Vero che suo padre fosse un musicista ma a un certo punto della sua crescente carriera il figlio si renderà conto che l’impostazione e le esecuzioni del caro genitore sono troppo retrò rispetto al suo modo di pensare e di immaginare la musica. A malincuore e con qualche scusa lo esclude da ogni collaborazione artistica. Non è persona che usi i sotterfugi, non è capace di fingere e non sa dissimulare un dispiacere. L’handicap di non vantare una famiglia privilegiata ha il suo peso negli ambienti del conservatorio, sicché il destino dell’origine gli alienerà in una certa misura l’attenzione del Maestro, contribuendo probabilmente a negargli una valutazione egualitaria in ambito accademico.

Eppure di un magistero a distanza Morricone in qualche modo godette, e questa piccola deroga socio-culturale ha una sua spiegazione. Neanche Goffredo Petrassi proveniva da ambienti alto-borghesi e metropolitani. La sua famiglia era di Zagarolo e ciò in qualche modo lo indusse a comprendere e a proteggere quel giovane ragazzo di Arpino, pur se nato a Roma. Lo stesso percorso giovanile del Maestro aveva segnato l’ispirazione dell’allievo: in principio Petrassi tradisce una vocazione neo-classicista ma dopo la guerra segue una linea che lo condurrà a una sorta di astrattismo e alla considerazione della dodecafonia quale prevalente mezzo espressivo. I tempi sono molto cambiati, sicché negli anni Cinquanta si assiste al germogliare di un intellettualismo accademico che privilegia giovani di formazione ideologicamente certificata ed elementi della borghesia colta.

Goffredo Petrassi

In Ennio questa fatica del compositore senza padri sperimentali affiora dal minimo tremolìo dei suoi occhi vivissimi, come se quella lotta impari, da un lato fosse stata subita al pari di un ingiusto esonero, dall’altro sia risuonata dentro di lui nella forma di una chiamata al riscatto. Che fosse una lotta sociale e artistica insieme, Morricone lo coglie sin da subito. Diventa pugnace, garbato ma risoluto, una sorta di combattente che né cerca nemici né si getta contro chicchessia. C’è un mondo che ha preso a sottovalutarlo, a trascurarlo. Un mondo che lo sta allontanando. Eppure quel ragazzo è intelligentissimo e sa cosa fare. Andrà a prendersi il mondo suo, quello che vivrà e morirà dentro la sua musica. Andrà a stravincere nel mondo del suo presente. E diventa un perpetuo Artista ad Honorem, senza bisogno di commissioni severe. Il più severo sarà lui.

Da questa sua fermissima consapevolezza di ciociaro onorario muove il primo passo della sua marcia trionfale. Morricone si trova a comporre e ad arrangiare canzoni che rappresenteranno successive sommità creative della produzione musicale popolare italiana. Bastino le formazioni a chiarire: Quello che conta (Tenco, Salce), Se telefonando (Mina, Costanzo) Uccellacci e Uccellini (Modugno, Pasolini) Here’s to you (Baez), Di più (Tosca, Dalla), e poi Sapore di Sale, Il mondo, In ginocchio da te, C’era un ragazzo che come me, Questo piccolo grande amore, La solitudine… Piccole fatiche che procedono di slancio, seppure alla musica leggera egli si adatti fino a un certo punto. Nulla a che vedere con uno snobismo di cui è privato dalla nascita, bensì per la sua primaria attesa di godere di una piena autonomia creativa. Egli preferisce scrivere sulla base di un progetto compiuto e non già modificare in corso d’opera il proprio lavoro. Morricone non è un compositore che si arrangi. Vuole piena libertà. Accetta i no ma pretende i sì.

Ed ecco il cinema. Ed ecco l’occasione di collaborare con grandissimi registi nel vicendevole rispetto delle individualità artistiche. Farlo per progetti di lunga traiettoria. Da Luciano Salce, il primo a intuire, a Lina Wertmuller, Bernardo Bertolucci, Sergio Leone, Marco Bellocchio, Pierpaolo Pasolini, Gillo Pontecorvo, Liliana Cavani, Luigi Comencini, i fratelli Taviani, Luis Bunuel, John Carpenter, Jacques Deray, William Friedkin, Roman Polanski, Pedro Almodovar, Barry Levinson, Margareth Von Trotta, Ermanno Olmi, Brian De Palma, Dario Argento, Oliver Stone, Lajos Voltai, Quentin Tarantino e… Giuseppe Tornatore (che a sé e ai loro lavori dedicherà, con classe, meno di due minuti). Una rubrica di nomi pazzesca. Nemmeno a unirli per gioco si riuscirebbe a elencarli tutti.

Il cinema… Se è vero, come ricorda il compositore Vittorio Montalti, che Berio bene aveva fatto nel sottolineare che la parola Opera è plurale di Opus, quindi sussumendo un’impresa formata, nel caso della lirica, da composizione, direzione d’orchestra, regia e libretto, così direi, senza esagerazione alcuna, che, grazie al genio di Ennio Morricone, centinaia di film sono mutate in opere cinematografiche a cui il regista, lo sceneggiatore, il direttore della fotografia, gli attori e l’autore della colonna sonora, tutti costoro hanno contribuito alla realizzazione di un’impresa di incredibile fattura.

“Per un pugno di dollari”

Ennio è un film di eccellenza. Era difficile raccontare una vita, degli affetti sinceri, un successo planetario, due premi Oscar e molte nomination, la considerazione e la stima unanime di sommi talenti dello spettacolo, delle arti e della musica internazionali, infine la grande umanità di Ennio il suo essere fragile che si rispetti… Ebbene tutto questo Giuseppe Tornatore ha saputo raccoglierlo e ordinarlo nella cornice di un quadro vivo da cui lo spettatore avrebbe colto il sapere formale, il pensiero estetico, la capacità di individuare e di utilizzare rumori quotidiani e inapparenti trasformandoli in suoni decisivi. Una poetica in grado di coniugare elementi distanti e di restituirli in una musica così potente da raccontarsi da sola, persino al di là della parola e dell’immagine. Tutto ciò è risultato commovente. Molti spettatori piangevano dinanzi all’espressione dell’arte e dinanzi al volto di Ennio; si commuovevano per la mancanza dell’artista, per un passato di eccellenza e di memoria. Anche io ho pianto per tutti questi motivi. Mi sono sentito solo e ho scritto, oggi, quel che ho provato e che forse ho compreso. E mi piace ricordare, verso il terminare di quella sua esistenza segnata da una colpa di non riusciva bene a percepire il senso, quando Goffredo Petrassi lo va a trovare e gli dice che ha sbagliato lui, rendendo onore e bellezza a quel suo piccolo immenso studente di un tempo finito.  

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