Diario veneziano/2
L’Arte è donna
Cecilia Alemani, la curatrice della Biennale, ha puntato tutto sullo sguardo femminile. Dal mito alla maternità, il profilo dell'Esposizione ai Giardini e all'Arsenale recupera il passato (specie quello surrealista) dando qualche indicazione (imprecisa) sul futuro
Il latte dei sogni. Non perdetevi questo libretto, da poco ripubblicato da Adelphi, che dà il titolo alla cinquantanovesima edizione della Biennale di Venezia. Composto e illustrato da Leonora Carrington (1917-2011), nobildonna inglese che si è fatta largo come scrittrice e pittrice nelle file del movimento surrealista, è stata per tre anni la compagna di Max Ernst nella Parigi tra le due guerre, prima di emigrare e proseguire la sua carriera in Messico. Raccoglie una dozzina di storielle stravaganti che, risposata e divenuta mamma Oltreoceano, proponeva e disegnava ai suoi bambini nel metterli a letto. Convinta che quelle favolette crudeli, intrise di scarti di senso inattesi, mutazioni e trasmigrazioni dal mondo vegetale e animale, fossero uno specchio nel quale l’innocenza fantastica dell’infanzia potesse sposarsi con l’innocenza arcaica del Mondo e trovarvi vie e visioni di fuga e riparo da mali, degenerazioni e ingiustizie. Eccone una ad esempio.
Tre bambini attraversano un bosco, incontrano Lola, una strega che li chiude in gabbia e li decapita. Per fortuna arriva l’Indio verde, un contadino, a salvarli e a rincollargli addosso le teste. Ma è un po’ scemo e le rimonta dove capita. Su un braccio, tra i piedi, sul sedere. I piccoli tornano a casa soddisfatti e contenti.
L’effetto pedagogico di questi insegnamenti notturni da incubo solleva oggi – figurarsi allora – più di un dubbio. Ma lo stile letterario, così originale, conciso e volatile, è sicuramente fascinoso come l’universo visionario, una miscela intercambiabile di umano e mostruoso, snobismo da salotto buono e profumo popolaresco, dei disegni che accompagnano la narrazione. Ingredienti con cui la Carrington continuò ad assicurarsi anche a distanza la stima e la benedizione del padre fondatore del surrealismo, Andrè Breton, e degli altri principali seguaci. Per poi essere incoronata come madrina dal femminismo.
Ruolo che ora le restituisce Cecilia Alemani nel confezionare la Biennale numero 59, che le è stata affidata, a parole e misura di donna moderatamente schierata. Spargendo quel latte dei sogni e la presenza record delle artiste – l’ottanta percento del cast, cosa mai vista a Venezia – sull’intero percorso della manifestazione. Un tragitto a tesi che alterna i capitoli dedicati alle esperienze di varie generazioni ancora in attività a cinque siparietti allestiti in modo diverso e declinati al passato per rivisitare il contributo pilota di donne ormai uscite di scena su tutti i versanti delle pratiche creative.
Capsule del tempo, ribattezza la curatrice questi intervalli: un rimescolare le carte con un avvicendarsi di passi in avanti e all’indietro e mutamenti di punti di vista che è la novità in prospettiva più interessante dell’esperimento perché potrebbe in futuro convincere i critici e i curatori più in voga a smetterla di raccontarci la storia dell’arte moderna registrando solo i momenti di rottura e i mutamenti di tecniche e gusto imposti dalle avanguardie. E ignorando la trama più ricca di visioni, rapporti, scambi e sviluppi che alimentano la discontinuità, senza cambiar strada o precipitarvisi dentro.
Lo spettacolo si nutre, dunque di questo dialogo fitto di immagini e voci in massima parte femminili che ribalzano tra passato e presente, un unico ponte in comune da attraversare, quello dell’immaginazione e del desiderio di liberazione attivati dalla creatività lungo tutte le derive possibili.
Un copione complessivamente bene impaginato, cui anche io mi sono attenuto. E che ripropongo ad ampi salti, segnalando le cose che più mi hanno colpito.
Vistosa ma un po’ deludente la partenza all’Arsenale. La statua di un’elefantessa africana che troneggia nella rotonda d’ingresso. È il calco di un esemplare che per anni è stato l’attrazione di uno zoo per finire imbalsamato dopo la morte. Un’istallazione firmata da una scultrice iperrealista tedesca, Katharina Frisch, ultrasessantenne, più volte applaudita in Laguna per altre opere di maggiore impatto. Eppure è valsa all’autrice un Leone d’oro alla carriera. Un premio quasi certamente pilotato come indiretto riconoscimento a Cecilia Alemanni, che ha piazzato lì quel monumento come una sorta di biglietto di presentazione dei suoi leitmotiv multietnici preferiti: l’Africa nera con i suoi miti e le sue fantasie tribali saccheggiata dalla colonizzazione occidentale ma in cerca di riscatto, la rappresentante di una specie dove sono le femmine a guidare il branco, e nei lividi colori della tassidermia un messaggio di morte e di rinascita.
È una chiave multiuso di collegamento e d’accesso alle opere delle sale successive; il rigore razionale dei monocromi in filatura di un’altra artista tedesca, Rosemarie Trockel; i diafani corpi di vetro di figure mutanti modellati e dipinti dalla rumena Andrea Ursuta; le avvolgenti decorazioni variopinte di Merikoke Berhanu, una giovane etiope che sta facendo fortuna in America; le divinità di canapa intrecciata a mano da Marinalini Mukhere, indiana di Bombay, che arrivano in prestito da musei di Oxford e New York; i continui rimandi alla semplificazione di forme e ai ricordi dell’immaginario indigeno, che la cilena Cecilia Vicuna (nella foto accanto al titolo) si è lasciata alle spalle fuggendo dal Cile di Pinochet per riparare a Manhattan. Suoi quegli occhi che sbucano ovunque a ricordarti le tue responsabilità di spettatore in transito, scelti come manifesto e logo della mostra: la ricompensa, un Leone d’oro, meritato, e un’intera stanza a una sua istallazione di cimeli ritrovati a Venezia. Elegante ma scialba.
L’arte e le rivendicazioni delle donne che cercano spinta nelle fantasie e nostalgie popolari del Terzo Mondo. Peccato si tratti di un esotismo certificato dal timbro di garanzia delle capitali dell’arte d’Occidente che governano il mercato, mai una vocazione scoperta in diretta sul posto e non ancora addomesticata dai guardiani del circuito internazionale. Una sensazione di controllo stereotipato e di appropriazione indebita che ti viene riproposta ad ogni passo, magari camuffata da altre analogie, altri rimandi. Sia qui che nell’altra sede della rassegna, all’Arsenale. E che alla lunga genera una sazietà da abbuffata che ottunde e omologa i sapori. Il desiderio frustrato che al torpore del latte dei sogni si ponga rimedio con un po’ di caffè.
Ed eccoci al primo siparietto storico, probabilmente il più intrigante. Incorniciato da un titolo rivelatore da manifesto programmatico del femminismo: La culla della strega. Streghe sono Leonora Carrington e le altre artiste, da Leonor Fini a Dorothea Tanning a Remedios Varo, che Breton, il padre fondatore del surrealismo, arruola tra le sue truppe. Fattucchiere del pennello che gestiscono e mettono in posa come regine il mistero della sensualità e del loro corpo sconfinando nella liberazione dell’istinto e del mondo animale, aggiungendo altri mostri a quelli che le due guerre mondiali hanno messo in circolo.
La capsula di questa rivisitazione, purtroppo, ne chiude l’apparizione in palcoscenico nei confini di una sfilata sommaria e faziosa. Per capire davvero le radici del surrealismo e il ruolo che le donne vi hanno recitato bisogna spostarsi al museo Guggheneim, che in concorrenza aperta con la Biennale, ha allestito una mostra molto più ricca e sfaccettata sullo stesso leit motiv. Spazio più ampio alla fantasia della Carrington e di altre rinomate seguaci, ma anche un più approfondito studio delle radici esoteriche d’epoca dal quale spunta e nel quale finirà per annegare la fuga verso l’incanto oltre ragione del movimento. E soprattutto un confronto più stimolante tra i linguaggi dell’immaginario maschile e femminile, che chiama in scena, a fianco alla schiera delle sue prime eroine, Max Ernst e De Chirico, Dominguez e Seligman, Tanguy, Brauner, Matta, e poi si sofferma su altri rinomati e popolari maestri come Delvaux, Magritte, Dalì che tornano a ricacciare le donne e le ambizioni dei loro corpi in un ruolo di subordinata sacralità.
Uno smacco questa rivisitazione a tutto tondo che la Alemani compensa con la splendida sala dedicata ad una rappresentante d’ultima generazione ancora in vita del femminismo surrealista, la ultra ottantenne portoghese Paula Rego, emigrata a Londra: quadri e sculture di forte impatto figurativo che sprigionano l’umore cupo e caustico della sottomissione e della sconfitta. Ma soprattutto accendendo i riflettori su una galleria fotografica di altre fattucchiere d’incantesimi meno ortodossi. Dove trovano posto anche la malizia senza veli, il sorriso e l’ironia Belle Époque di Josephine Baker; il video di un’altra ballerina tedesca che nei teatri non ancora messi al bando dal nazismo, con gesti da sollevatrice di pesi, rivoluzionò la coreografia aggraziata delle performance di danza; le foto sbiadite di due medium primo Novecento, osannate nei salotti bene ma quasi certamente imbroglione, per i risultati spettacolari delle loro sedute spiritiche.
Spigolature che spianano il terreno ad altre spigolature nei territori dell’arte di oggi o d’un ieri meno remoto, più attenzione all’abbondanza che alla qualità, secondo un copione di andirivieni che si ripete identico anche nella seconda sezione della mostra, nel labirinto di officine dismesse dell’Arsenale. Anche qui nell’atrio un monumento marca tema. Una testona di donna afroamericana, zigomi sporgenti, labbra carnose ma un viso senza occhi da schiava-regina di colore, firmata da Simone Leigh, famiglia caraibica trapiantata a New York, che Cecilia Alemani aveva già messo in mostra a Manhattan nel museo all’aperto dell’High Line di cui è curatrice. Un premio di incoraggiamento a se stessa, bissato come ai Giardini da un Leone d’oro più che prevedibile attribuito all’autrice, al colore della sua pelle e al paese, gli Stati Uniti, di cui incarna la posizione di primazia sul mercato. Paese che le aveva concesso in esclusiva per questa edizione la passerella del proprio padiglione nazionale. Onore che lei ha ripagato con un vistoso allestimento: il tetto dell’edificio coperto di paglia ad evocare le capanne degli schiavi neri rastrellati a forza dai villaggi d’origine e trapiantati nelle piantagioni del nuovo continente. Ma soprattutto con una parata di imponenti e ibridate sculture che trasudano orgoglio d’appartenenza e impongono allo sguardo ammirazione e rispetto.
Il viaggio della mostra prosegue lento tra alti e bassi, capitoli d’attualità e capsule del tempo, guidato da titoli, domande che cambiano solo in apparenza bersaglio, campi di riflessione o generano, specchiandosi nelle opere, tante, troppe, in esposizione, risposte molto simili a quelle di partenza. Suggestioni insomma che si ripetono. Non tutte da buttar via, ci mancherebbe, ma in complesso monotone e povere di guizzi inattesi, come succede alle storie di famiglie diverse dalla tua, intriganti e ben scritte, ma troppe volte sentite per spiazzarti con la loro diversità.
E così di sala in sala verso i due capitoli finali, quelli nei quali si addensano gli interrogativi e le paure più inquietanti sul nostro futuro. E ovviamente le attese della platea in transito. Ma qui la forza iniziale della mostra precipita in un balbettio di finte rassicurazioni.
La minaccia della tecnologia che insidia e toglie il bastone di comando all’umano, dei robot che prendono il nostro posto? Una sfilza di dubbi risolti e dissipati da un bancone dove un artista coreano si cimenta nella costruzione di un improbabile cyborg fai da te. E una tempesta di timori sulla nostra sopravvivenza, condensati malamente da una struttura a impasto, modellata dalla coreana Mire Lee. Una scheletrica quinta dalla quale penzolano rimasugli di silicone fuso a simulare organi di corpi sfilacciati, presi in prestito dal repertorio dei peggiori film splatter.
Non va meglio neppure nel capitolo conclusivo. Quello che dovrebbe parlare dello sperpero di risorse nel nome e nella presunta superiorità dell’homo sapiens, dei rischi di estinzione del nostro pianeta, degli stravolgimenti climatici con cui grida il rischio della sua e nostra fine.
Le due vie d’uscita che questa mostra propone sono condensate in due istallazioni. La prima è un grande recinto di blocchi di terra compressa che la pianta interna di questo specchio d’arsenale ci costringe ad attraversare. E annusare. Sì, perché da quei cumuli, su cui l’autore, un coreano sui quarant’anni, Geumhyung Jeong, ci invita a posare lo sguardo ed il naso vien su un vago ma pervasivo profumo di cannella e altre spezie dolcificanti. D’accordo buttarla sull’ottimismo ma come convincere, anche chi è in cerca di consolazione, con questo artificio visto e rivisto, che la salvezza, il patto di tregua e alleanza con la Natura in crisi di rigetto, può arrivare proprio da lì? Sarebbe meglio farci uno shampo, come cantava Giorgio Gaber.
La seconda opera è un giardino costruito da Precious Okomoyon, giovane londinese traslocato a New York, ad occupare con le sue aiuole l’intero spazio in penombra della galleria d’uscita. Tra le piante, canne da zucchero ed erbe selvatiche infestanti, sbucano le sagome di piume e vegetali intrecciati di quattro statue accovacciate nella posa di Budda. Un Eden posticcio in bilico tra Occidente ed Oriente che impone come una parabola zen la pace e la rassegnazione dell’immobilità e della meditazione.
Come può spaventarci la Natura se ci abbraccia così, con la pacatezza di questi guru benigni? Andiamo in pace. E smettiamo di accanirci ad immaginare altri rimedi, altri capovolgimenti dell’ordine e del disordine costituito. Rabbia e lacrime non debbono rovinare la festa. È la parola d’ordine di questa Biennale, che anche il contropotere delle donne sembra aver accettato. La capsula del tempo che da spettatori qualunque, maschi per di più, ci arroghiamo la licenza di aggiungere come chiosa di congedo, riporta in memoria una canzonetta di Enzo Jannacci: «E sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam…».
2. continua. (Clicca qui per leggere la prima parte)