Gabriella Palli Baroni
“La strada sognata” di Valeria Della Valle

Destini incompiuti a via Margutta

Dieci racconti collegati tra loro dalla strada romana e dal paesaggio di Villa Medici. Storie di donne e uomini, di aspirazioni e di vocazioni perdute. Vicende appassionanti e narrate con «elegante naturalezza stilistica», sono ambientate nel 1940, in pieno regime, alla vigilia della catastrofe

Un volto di giovane donna, intenso e bellissimo, ci invita dalla copertina a seguirla per raggiungere La strada sognata di Valeria Della Valle (Einaudi, 2022) ed incontrarla. È un particolare di un olio su tela Ritratto di Arletta di Maria Pia Zanetti, che avrà un significato importante nel primo racconto del libro, che, sotto il titolo assai invitante, presenta dieci racconti, che la strada e il paesaggio verde, all’ombra dei pini di Villa Medici, collegano. Protagoniste delle storie sono donne e uomini, i cui destini appaiono incompiuti di fronte alle loro aspirazioni e vocazioni. Sono racconti amari, se pensiamo a questi destini, anche se il punto di vista di uno dei personaggi, Adele detta Dede, presente in nove di essi, lascia intravedere lo slancio verso un futuro diverso, più moderno e realizzato rispetto ai tempi che l’opera racconta.

Ambienti chiusi e soffocanti, piccolo borghesi, segnano la vicenda di Livia, che, sottomessa a un padre generale e ad una madre anaffettiva, infelice e segretamente ribelle, cerca al di fuori una possibilità di vita più libera e serena. La trova accanto all’insegnante di disegno Fiore Agagian, nel cui appartamento («Era come arrivare in paradiso»), luminoso, dove tutto, – odore di colori a olio e di acqua ragia; quadri «un po’ dappertutto, appoggiati sui cavalletti, per terra, appoggiati alle pareti»; tappeti e libri – concorre alla sua educazione intellettuale e sentimentale, che si completa nello studio d’architettura dove apprende l’arte del mosaico. Anche questo ambiente è pieno di luce per le ampie vetrate dei lucernari, su cui si affacciano gli alberi del Pincio. Ed è qui che si svela la “strada sognata” dalla fanciulla, via Margutta, che diventa oggetto di quadri di grande bellezza e di vita attraverso lo sguardo retrospettivo e la penna pittorica di Della Valle: «Era stato allora, solo allora, che Livia l’aveva riconosciuta: era la strada sognata, la strada con la neve, con i cortili e le statue, e ora lei era proprio lì, anche se, al posto della neve, c’era il sole, e metà della strada era in ombra. Trovarsi in quella strada le aveva dato, all’improvviso, un senso di pace e di contentezza. Camminava come se ci fosse stata altre volte, in quella strada. Guardava i cortili, riconosceva gli alberi, le statue, e in alto, le terrazze, ascoltava i rumori e le voci che venivano dalle botteghe buie degli artigiani, un’orchestra mista di suoni e strumenti vari, martelli, seghe, carta vetrata, e odore di colla e vernici. Quei suoni e quegli odori, e la luce dorata che avvolgeva la strada le davano una strana euforia: le facevano sentire di essere finalmente a casa, e che quello, e solamente quello, era il posto in cui voleva vivere».

Il tempo della narrazione è quello del regime, il 1940, e l’inconsapevolezza di Livia si deve confrontare con il senso critico e l’ombra di Arletta Laszlo, la fanciulla ebrea con cui prepara l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti e che porta con sé, non solo il nome montaliano, ma la consapevolezza e la pena segreta della Micol del Giardino dei Finzi Contini, con la quale sembra condividere il fato di morte: «Stanno distruggendo tutto, le case, i quartieri, alla fine distruggeranno anche noi, vedrai». Ed ecco il Ritratto di Arletta entrare nella storia con il suo carico di affetto e di dolore dinanzi alla porta chiusa e alla casa vuota della famiglia dell’amica. Quello, che doveva essere un dono festoso, rimane simbolo della ferocia delle leggi razziali e del fascismo.

Destini incompiuti, vocazioni e vite incompiute («… le sembrava che proprio il cielo, lassù, in quello spazio vuoto, avesse il colore degli occhi di Giulio, e si consolava pensando che di compiuto aveva lasciato solo lei»), abbandoni e delusioni ci accompagnano lungo le storie, in cui si alternano, in pagine di elegante naturalezza stilistica, interni ed esterni di luce e di buio, giochi di bambine, opere di pittori, ritratti di persone e rapporti di vita quotidiana, di cortesia e d’amicizia. Avvertiamo tuttavia qualcosa di incerto e di misterioso nella verità umana dei personaggi, che acquistano il fascino dell’indefinito, che è proprio di ogni vita, della vita: Giulio «pallido e curvo» a stendere appunti per i suoi molti progetti; la pittrice Ditta, che muore suicida rivestita dello scialle a rose rosse regalatole dal suo amante pittore perduto; la bambina Utta, dai capelli bianchi, andata con la madre chissà dove; l’americana ingenua Carol Smith, venuta a Roma col sogno di un marito italiano; Almacantoni, che, mal ridotta, dipingeva fiori e «pentolini smaltati» in tele mai finite; la signora Cortese dalle «profonde occhiaie blu», sola per la fine di un amore; Diego e Derek della Casa di fronte, apparentemente uniti in una loro perfezione, ma separati dalla morte; il cane Tago, venduto all’allevatore americano, «fermo e muto», immagine di un ultimo addio; Guenda, l’amica d’infanzia che, salendo su una macchina vestita con l’abito bianco e lungo, spezzava quel tempo che si voleva “immobile” e perfetto; Gaia infine, che si era allontanata per sempre. Eppure qualcuno si salva, la Dede-Adele, che da bambina sapeva osservare e ascoltare, commuoversi e ammirare; che, da adulta, aveva classificato e ordinato parole e che ora, sul filo della memoria, può rivelare nell’Ultima passeggiata, la fine malinconica del suo mondo disperso e della sua strada, che non le parole, ma le immagini, «su qualche parete, in qualche museo o in qualche archivio – avrebbero continuato a far rivivere come era stata allora, per sempre». 

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