A proposito di “Trasalimenti e sogni”
Poesia e memoria
La nuova prova poetica di Fornaretto Vieri mette insieme una sorta di catalogo di ricordi di vita vissuta che trascolora e assume senso universale proprio attraverso le parole
Parlare di Trasalimenti e sogni, quarta prova poetica di Fornaretto Vieri (accolta nella preziosa collana «I Paralleli» di Betti, 144 pagine, 15 Euro), non è facile. Le sue nove “folte e men folte” sezioni investono via via i prodigi di un’infanzia incredibilmente felice, i difettivi miracoli della poesia, del miraggio amoroso, dell’arte, i sinistri baleni della Storia, gli enigmi della notte, le ambigue partite del destino, i misteri della fede, la dovizia che colma la nostra minuscola terra e l’immenso teatro del cosmo, i paradossi del máthema: una materia pressoché enciclopedica (sagacemente incorporata nel titolo dell’introduzione di Alessandro Fo: Tutto l’universo in nove mosse) che denuncia una sfida inconsueta, l’anacronismo di un Tesoretto.
La poesia può dire tutto, sembra dirci l’autore, che nella sua opera precedente (Teologia familiare e altre poesie, Latiano, Interno Poesia, 2019) aveva fornito una serie di «poesie filosofiche» in cui si discorre di Eraclito e Parmenide, Cartesio e Berkeley, Schopenhauer e Nietzsche, idealismo e scepsi, nichilismo e fede; e può farlo, giostrando sulle cadenze di un endecasillabo, il metro «sempre fluente e qua e là solenne» di cui scrive il nostro prefatore, che ne asseconda fedele ogni piega, ogni più ardita richiesta.
La scelta, coraggiosa e “inattuale”, di un dettato inclusivo generoso pieno, immune da impulsi ‘minimalisti’, sembra obliquamente rivendicata, a sigillo della sezione Versus, nell’omaggio Al poeta Agostino Vieri, mio padre (laddove se ne richiamano «il forte canto», «l’iperbato e l’immagine che tuona», il «coturnato verso», opposti all’«età di pipistrelli che volteggiano | e dicono in versicoli la prosa»), avendo le sue note più affabili nella sequenza inaugurale, Il più vero sé.
Il padre vate e pescatore, maestro di marionette e di ardimenti, la madre dall’ugola d’oro, la devota zia Pilla, la nonna Maria, «con la pezzola in testa e un dente solo», ne sono i numi tutelari, custodi di un mondo scomparso da cui affiorano di volta in volta i prati e gli oliveti di Sant’Andrea in Percussina, l’orso bianco «cifra di paura | e di bellezza», le immaginarie armi a difesa dal buio, i giocattoli di latta, le leggiadre fatine di Carnevale, l’albo col «razzo poderoso» della NASA, i profumi della «camera degli sposi»: le epifanie che già punteggiavano Teologia familiare e altre poesie sono di nuovo destinate a sancire l’autentico di un’esistenza e della poesia che ne è il frutto. È più vero del vero il malcerto Natale, con «il primo albero tutto risplendente | di candeline vere la mattina» e «col Pinocchio di vetro sottilissimo | che tutto luccicava in primo piano»; ed è imperituro l’alfabeto appreso dalla pronunzia materna, l’inobliata armonia di sillabe, dono del «tuo amore, | del primo Amore a me primo segnacolo», che è arra di ogni parola a venire: quella che ‘ritrova’, in attesa di ritrovarlo «fuori nel tempo nell’eterna gloria», il ‘tempo immobile’ che è il motore d’ogni cosa; e quella che dà nome al vario spettacolo del mondo.
L’imprinting del caldo nido e dei primordiali stupori è all’origine del cubitale sì alla vita, afflato francescano e agostiniana speranza del futuro, che bagna pressoché ogni linea di questo poeta e che si coglie per così dire in flagrante ascoltandone i testi (tratti da Tartaria, L’oltranza del vero, Teologia familiare e altre poesie) consegnati a YouTube. Qui la sua voce calda e roca, assertiva e insieme ansiosa, afferma a ogni verso, in schietti accenti toscani, che qualcosa c’è, deve esserci, che il nulla non sussiste; a ogni verso si protende all’oltre, all’«oltranza» che tutto giustifica (e muove).
Questa fervida fiducia, che si irradia in tutto il libro, trovando il suo spazio propriamente religioso nella sezione Per la poca fede, culmina nelle composizioni-catalogo a presidio della conclusiva La cifra; performances che, insieme ai paralleli assaggi di Versus (Trobar, I poeti, La lepisma), ne danno l’aspetto forse più originale.
Mentre in Versus la propensione alla lista privilegiava motivi letterari (le forme della poesia provenzale, i poeti diletti, i libri della biblioteca paterna esplorati con la guida di un segnacolo di seta, la «timida lepisma»), qui – dopo i pellerossa di Mahpíya Luta – si porta ad abbracciare, col gesto di chi compulsa, suggerisce l’arguto Fo, «figurine di un album», le specie in estinzione (Orinoco), le molteplici forme della vita animale (Fanerologia), le innumeri faville del firmamento (Oltre il segno del Sole), la proliferazione di enti matematici (La memoria dei numeri), producendo rêveries che oscillano tra le febbrili fantasticherie del bambino e le ponderate cogitazioni dell’uomo fatto e finito, secondo i modi adibiti in Spaesamenti e altre fantasie geografiche (Teologia familiare e altre poesie), Luoghi e sogni (L’oltranza del vero), o in escursioni come Coulommes e Outremer (Tartaria): una sindrome che chiama irresistibilmente in causa il Pascoli evocato in I poeti («l’alto nitrito della storna alfana | e nella notte il grido dell’assiolo») e La lepisma («il grande simbolista di Romagna, | profondo come piccole le cose | e immenso come immense son le stelle»), il ‘fanciullino’ che preserva la magia del creato. I suoi elenchi hanno, direbbe Ripellino, virtù d’incantesimo: cerimoniali come grani di un rosario, semi di una litania infinita, sono spie del sacro che pullula in ogni direzione e che, sfuggendoci, invita alla preghiera, induce al ringraziamento.
Mi sembra questo il ‘proprio’ di Vieri, il suo segno distintivo. Il suo canto sorge dalla riscoperta dell’«infantile chiaroveggenza» di Teologia familiare e altre poesie, s’insedia nel «segreto giardino mio profondo, | il perduto giardino dell’infanzia | che è parte di me più che altro luogo» (Il giardino chiuso), è «lingua dell’esilio, inaccessibile | canzone del perduto e del lontano» (Destierro), suono della smarrita sapienza, mongolfiera del ritorno, «anelito nòstimo» (Aquitania).
Un anelito, si badi bene, tutt’altro che ingenuo, tutt’altro che naïve. Alessandro Fo ha già dato una probante valutazione del «profilo tecnico» dei testi, a partire dall’insolita ampiezza del lessico – i battesimi di «animali e piante, di oggetti d’uso, o di principi e cardini delle speculazioni teologiche e scientifiche», l’adozione di termini rari (piace trascegliervi, a riprova della complessa attrezzatura e dell’alto mestiere che presuppongono, il molto pascoliano «accestire» e quell’«agghiada» in rima distante con «spada» di El buscador de oro II, che rimanda al sonetto «Tutto ciò ch’altrui piace, a me disgrada» del conterraneo Cino da Pistoia) – e proseguendo con i «non troppo frequenti, ma icastici, giochi fonici», le «lussureggianti, prodigiose metafore»; repertorio cui aggiungerei il gusto spiccato per le inversioni: oro antico, squillo che tradisce il diniego del monocorde e funereo presente. All’oggi – di cui la sezione Le pieghe della notte fulmina lo squallore di «tundra», i «giorni di polveri e veleni», la mortifera assemblea di «Spettri, fantasmi, corpi virtuali, | ectoplasmi, diafani lenzuoli | filati dentro il canto delle parche» – Vieri contrappone, con scandalosa profluvie di riferimenti, profonda dottrina e consumata perizia, il suo nóstos: sogno di un remoto passato che resta il suo solo domani.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini