A proposito di "Baci a occhi aperti"
Enigma Sicilia
Il nuovo libro di Matteo Collura è una via di mezzo tra il racconto, il saggio e l'inchiesta giornalistica. Obiettivo (centrato): raccontare la Sicilia attraverso i suoi scrittori, le sue abitudini, i suoi segreti e le sue atmosfere
Cominciamo dall’ultimo capitolo che, pur avendo al suo centro la una sorpresa geologica, riassume fantasmagoricamente quello che è la Sicilia. Ossia un grande enigma. Altre parole non sarebbero più adatte. Il 12 luglio 1831 al largo di Sciacca emerse un’isoletta impeciata e fumigante. Dopo un gran ribollio di mare quel grumo roccioso parve assestarsi. Nella sua massima espansione raggiunse una circonferenza di 3600 metri e un’altezza di 70. La gente, dopo lo spavento, si fece ovviamente tante domande. Le si doveva oltretutto dare un nome. Re Ferdinando di Borbone non ebbe esitazioni: la battezzò Isola Fernandea. L’evento interessò molti studiosi europei. Arrivarono gli studiosi, come era naturale. Furono gli stessi a scambiarsi questa informazione: «L’isola non c’è più. Così com’è spuntata è ricaduta in mare. L’acqua è tornata fresca». Oggi, al posto di quel masso scuro, rimane un’insolita fantasia, ma di quelle visibili (e ben vedute).
La curiosità spinse nella zona di Sciacca, accademici inviati da re Borbone, dalla Francia e dall’Inghilterra. Oggi, al posto dell’atollo-vulcano vi è un bassifondo indicato come “Banco di Graham” (dal nome dello studioso che raggiunse la Sicilia nell’agosto 1831). I siciliani della zona lo chiamarono ‘u bummulo, che nella loro lingua significa brocca.
Tutto questo lo racconta Matteo Collura, raffinato giornalista e scrittore, senza dubbio il migliore biografo di Leonardo Sciascia (di cui fu amico e confidente). È appena uscito il suo Baci a occhi aperti (Salani, 462 pagine, 16 Euro). Il suo è un viaggio a tutto tondo, anzi in profondità, nella Trinacria, la regione che ha primati straordinari nell’arte, nell’archeologia, nei panorami mozzafiato, nei profumi, oltre che nel carattere della popolazione che l’autore, accantonati i facili e meno facili stereotipi, sonda e racconta. Nessun’altra regione dell’Italia è stata così generosa con la cultura.
Consideriamo attentamentele parole pronunciate ne Il Gattopardo. L’autore, Tomasi di Lampedusa, il cui capolavoro venne pubblicato un anno dopo la sua morte, affermò che «in attesa del riscatto, la Sicilia continua a generare semidei». Il principe di Salina, alla soglia di un cambiamento storico-sociale che forse non avvenne mai nella sua augurata (da alcuni) interezza, pronuncia parole forti, sincere e coraggiose: «Noi che fummo leoni, ora sciamo sciacalli». E ancora: «Eh, il riscatto… già… eppure non vorranno migliorare per la semplice ragione di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei (ndr: è garibaldino il fidanzato della figlia con cui il Principe aristocraticamente danza nel salone degli stucchi, degli affreschi e degli ori) per la semplice ragione che credono di essere estranei, per indipendenza dello spirito, che coinvolge sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza che rischia di turbare la loro compiutezza del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti… essi credono di avere un passato imperiale che dà loro il diritto a funerali sontuosi».
Così, secondo Matteo Collura, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, spiega il mito dell’isola impareggiabile: «…un mito che ancor oggi è alimentato dal frastornante imperversare di informazione drogata, che alla base di ogni rovina dei loro stessi ideali o fedeli servitori di essi».
L’autore scandaglia la sua terra d’origine, seguendo un itinerario inconsueto e mai banalmente didattico. Non solo tratteggia i tanti, tantissimi personaggi di gran vaglia, passando disinvoltamente dall’uno all’altro, senza dimenticare incontri, contiguità intellettuale, dispute. Ma analizza anche panorami, profumi aspri e dolci, sussurri, conversazioni private che spiegano molte cose. È inevitabile chiedersi se sia qualcosa che somiglia a un sogno o a un miracolo, l’abnorme l’apporto culturale che questa isoletta ha dato all’intera storia della Penisola. Grondante è l’archeologia, grondante il numero di scrittori eccelsi. Eccelsi e numerosi a tal punto da chiederci maliziosamente: quali sono gli altri scrittori italiani di gran forte baldanza, capaci di contendere, decennio dopo decennio, il primato di altri narratori, del Nord e del Centro Italia? Collura non azzarda sentenze. Per lui è più importante analizzare testi e trame cercando i punti in comune con I promessi sposi di Manzoni, «un fondamentale testo per le generazioni passate e future, ove c’è la la feroce e capricciosa aspirazione di chi comanda (Spagna imperat et docet), la codardia (poi riaggiustata dalle alte sfere) del clero di campagna(plasmato sul quieto e codardo vivere,) la fujtina, la travagliatissima aspirazione di Renzo e luci ad anelare a una terra libera, a oriente del dominio borbonico».
C’è un capitolo intitolatoUomo disperato, scrittore felice. Qui si parla di Gesualdo Bufalino, autore dello splendido Diceria dell’untore, (Sellerio), elegantissimo per il suo lessico. Collura ha avuto l’occasione e la fortuna di conoscerlo, definendolo come nel titolo. L’autore, riferendosi a lui, fa riferimento a Jorge Luis Borges. Il quale un giorno disse: «Mi sentivo invisibile, lì dov’ero. In qualche modo è stata la notorietà a trovarmi. Che ci posso fare? Io non l’ho cercata, è giunta da sola». Argutamente Collura scrive che queste sono parole di verità, ma anche di menzogna «per quell’abitudine che il grande argentino aveva di sorprendere l’interlocutore di turno con il paradosso, di spiazzarlo». Ci sono affinità «evidentissime» tra i due scrittori – aggiunge – «a partire da quella, determinante, del non credere in niente (dalla politica alla religione) e di coltivare la passione per la letteratura (ma sarebbe meglio dire vizio) per rendere sopportabile l’insondabile mistero di stare al mondo». Bufalino era disperato e consapevole di esserlo a tal punto da considerare quel modo di essere e di vivere del tutto lontano dalle “magnifiche sorti e progressive”.
Questo aspetto cupo poteva diventare «una sorta di compagno di viaggio, a volte addirittura piacevole». Verità e menzogna anche in questo caso? Forse è meglio soffermarci, a partire da «quel senso di morte», su quel prendersi gioco di tutto, con scettico distacco. Critici, giornalisti, colleghi narratori erano spesso bersaglio della sua voglia di burla. Un giorno disse a Leonardo Sciascia: «Cosa volete che m’importi del successo?». Per Collura è un ricordo vivido: «Eravamo in un ristorante di Agrigento dove eravamo finiti più che altro per ripararci dal caldo dopo una scarpinata tra i ruderi lasciati dagli antichi Greci. E spiegò con tono confidenziale ma risentito: “Mangio soltanto riso in bianco, non bevo, non…”. Era stato crudele, per lui, essere riconosciuto scrittore di successo a sessant’anni…del successo ci si giova se si hanno gli anni della gioventù, se si ha la voglia e la forza per approfittarne».
Altro episodio significativo: «Dopo pranzo, nella casa che era a due passi dalla residenza estiva di Sciascia, un tale, fuori dal cancello, venne a chiedere del “professore”. Lui andò, scambiò qualche parola con l’inaspettato interlocutore, e tornò da noi con un’espressione che non so se definire imbarazzata o avvilita. E disse: “È mia madre. Mi reclama. Devo andare. Lui, un uomo quasi settantenne, sposato, scrittore celebre, andò dalla madre lasciando trapelare, ricordo, un senso di perfetta infelicità. Nel suo Argo il cieco si legge: “Perduta per timidezza l’occasione di morire, uno scrittore infelice decide di curarsi scrivendo un libro felice”. Il riferimento era a se stesso».
Collura ricorda che gli spunti di conversazione con lui erano spesso Borges e Cioran (lo scrittore nichilista di origine rumena: «Provate a leggere le loro interviste, per fortuna in gran parte pubblicate»). Era un gioco raffinato. Bufalino aveva un conversare colto, con un’impressionante esattezza linguistica. Le sue frasi si disponevano a formare un testo mai banale, mai sciatto. «Parlava come si dovrebbe scrivere: chiaro e piacevole, mai fuori misura». Diverso da Sciascia: «Consumati tutti i rituali per scoraggiare i giornalisti che gli chiedevano di intervistarlo – negli ultimi tempi rispondeva con una voce così stanca, così manifestamente sofferente, da costringere l’interlocutore, anche il più risoluto, a scusarsi – deponeva la cornetta del telefono e diventava un soggetto ideale. Domanda e risposta. Mai che si preparasse prima; mai che sbirciasse tra gli appunti dell’intervistatore, come invece faceva Bufalino, con quel suo occhio sbilenco, che sembrava fatto apposta per questo».
Erano in molti a non conoscere affatto Bufalino. Un giorno «si rivelò all’istante un vulcano di parole: colte, per antica e sperimentata abitudine scelte una per una. Lo studio solitario – era evidente – gli aveva trasmesso non soltanto il vizio dello scrivere, ma l’abitudine di parlare come se si trovasse sempre di fronte a un pubblico ideale, colto almeno quanto lui. E così parlava come se scrivesse». I due grandi siciliani presero l’abitudine di incontrarsi e di parlarsi al telefono. Comune era l’ammirazione per Voltaire. Un giorno Gesualdo gli disse: «Voglio dirti una cosa, Leonardo. Io invidio la tua forza civile, il tuo impegno sociale, la tua capacità di servirti della parola scritta per persuadere o dissuadere. Io invece non so fare scrittura morale». Immediata risposta di Sciascia: «L’importante è di non farne di immorale».
Sulla mafia, Collura sceglie figure meschine, ridicole. Come Genco Russo, definito “la Lollobrigida”. Prima di descrivere queste caricature con la pistola a portata di mano, scrive che molti piccoli e medi boss, poco più che analfabeti, «sbucati dalla parte di chi poteva soltanto andare al Jolly Hotel», non riuscivano a essere paurosi e potenti. Al contrario di questi, «anziché tentare di forzare il destino sequestrando i baroni, se ne facevano protettori, sfruttandone le inesistenti capacità imprenditoriali, o sceglievano la via della politica, divenendo potenti manovratori di clientele e intoccabili procacciatori di voti. Prendeva allora corpo il disegno di uno Stato criminale in opposizione allo Stato legittimo, anzi come vero e proprio anti-Stato. Da ampi settori politici fatto passare, quel disegno, come giusta reazione allo strapotere dello Stato nazionale, strangolatore di diritti di una regione storicamente e culturalmente autonoma, e predatore delle sue risorse senza fornire in cambio alcun aiuto per migliorarne le condizioni economiche e sociali. Di qui il perdurare della leggenda che vuole la mafia, nelle sue origini, braccio armato di una sacrosanta ribellione sociale». Parole affilatissime, storicamente impeccabili.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale c’erano tanti che non avevano né arte né parte, pronti, «allora come oggi a entrare in politica. Giuseppe Genco Russo, considerato uno dei più influenti capi di mafia siciliana, era uno di questi». Era un sognatore in formato ridotto. Genco Russo era chiamato “zi’ Peppi Jencu”. Se non fosse nato a Mussomeli, piccolo paese della provincia di Caltanissetta (dove c’è un bellissimo castello, da visitare senza dubbio), «al massimo avrebbe trovato di che vivere, fosse nato in una comunità appena più evoluta, in un mercato ortofrutticolo o facendo da guardiano destinato ai turni di notte». Osservato da vicino chiunque si domanderebbe come avesse potuto essere considerato un padrino da temere. Il mafioso ama passeggiare nel suo territorio per ostentare e ravvivare la sua brutta fama. Ecco, «Russo sembrava la caricatura di un mafioso, così come oggi qualche comico la interpreterebbe in uno spettacolo di cabaret». (osservazione di chi scrive su queste colonne: è stata trascurata, o fatta trascurare, la più potente arma in mano all’opinione pubblica: l’ironia, o meglio una squassante risata che avrebbe potuto, forse, azzoppare tanti falsi miti).
Collura scrive di aver sottomano un’immagine che ritrae Genco Russo durante la processione in onore della Madonna dei Miracoli, protettrice di Mussomeli: «Un informe abito a righe vistose che s’indovina di pessima stoffa, la cravatta che sembra uno sgraziato pendaglio, il cappello di feltro con la tesa abbassata sugli occhi, a imitazione, si direbbe, di un improbabile Humphrey Bogart, un paio di bottoni bene in vista nella patta dei calzoni, uno spagnolesco sigaro in mano, il padrino avanza (pesantemente e autorevolmente) scortato si presume da due “eminenti“ compaesani, uno recante un cero acceso, un altro una lattina per la raccolta dell’obolo… l’autorevole terzetto è al centro di una processione composta da donne, alcune delle quali, per qualche voto offerto alla Vergine Santa, a piedi scalzi. Per la maggioranza dei pezzenti la vera, se non l’unica, speranza è il credere alla generosità dei santi». Uno come Genco Russo si poneva come garanzia vivente.
Terminata la commovente sfilata pseudoreligiosa, il nostro Genco (nome anche da fumetto) tornava al suo “lavoro”: procacciare voti ai politici corrotti e disonesti. Se questo fosse l’unico spezzone di un film mediocre e risibile, uno ci passerebbe sopra (fino a un certo punto). Ma è impossibile cancellare altre scene di stragi, di attentati, di sangue sulle strade, dentro o ai bordi delle auto: i tanti vulcani dai quali esce violentemente la lava della tragedia. Che imbratta, detto metaforicamente, il più bel quadro del Rinascimento italiano: la Sicilia.