Al Teatro dell'Opera di Roma
Video Turandot
Finalmente va in scena l'attesa “Turandot” di Puccini nella versione dell'artista cinese Ai Weiwei che ne ha curato regia, scene e costumi. Uno spettacolo dai risultati contraddittori: tutta la vicenda è annegata in un tappeto costante di immagini di vita contemporanea
È finita senza grande entusiasmo la prima della attesa e spettacolare Turandot all’Opera di Roma con scene, costumi e regia dell’acclamato artista cinese Ai Weiwei che ha costruito uno spettacolo sconcertante. Sconcertare è quasi insito nella natura di un vero artista, ma bisogna poi andare a vedere la sostanza e le ragioni di questo esito, che prescinde dalla qualità musicale, alta e apprezzata, con gli applausi che si sono riscaldati principalmente per Francesca Dotto, tenera e delicata, intensa Liù; per Michael Fabiano, robusto Calaf di bel piglio e sentimento e, anche se non è piaciuta a tutti, per Oksana Dyka, una principessa Turandot invece tagliente, dalla potente voce acida aderente al personaggio e con umane venature, cui si sono aggiunti quelli calorosissimi per la bella e incisiva direzione musicale dell’ucraina Oksama Lyniv.
Lo sconcerto è venuto dalla parte teatrale che Weiwei, per il quale «quest’opera racconta catastrofi che risuonano nel nostro presente», ha fatto vivere per tutto il tempo su due piani: un discorso contemporaneo con le invadenti, ininterrotte proiezioni documentarie sullo sfondo e i grandi pilastri spezzati che erano gli unici elementi della scena assieme a una scalinata aperta da alcuni squarci, e uno fiabesco e fuori dal tempo, con elementi tratti dal costume e la cultura cinese, per la storia della crudele Turandot, dell’orgoglioso Calaf e del sublime amore della piccola Liù. Certo, mostrando spezzoni cinematografici di grandi città contemporanee poi sconvolte dal Covid, con medici in bianche tute integrali alle prese col virus, scontri violenti tra polizia e dimostranti a Hong Kong, infine la guerra con le sue distruzioni e piogge di bombe e poi i profughi che premono ai confini, Weiwei probabilmente segue un percorso nel segno di un crudeltà e della morte e in nome della libertà e dell’amore che possiamo volendo vedere al fondo della vicenda narrata in Turandot da Giuseppe Adami e Renato Simoni, che adattarono l’omonima favola drammatica di Gozzi per Puccini e la sua musica, che ebbe il suo debutto nel 1926 alla Scala con Toscanini sul podio. L’opera, il maestro, che l’aveva messa punto e finemente orchestrata sino al sacrificio per amore di Liù, non riuscì a finirla, ma anche così, modernamente aperta sulla conclusione oramai prevedibile del sentimento di Calaf che redime la principessa, è piena, risolta e compiuta (meglio che col finale postumo, fatto scrivere poi ad Alfano).
Aldilà delle intenzioni proclamate, e già oramai vecchie, abusate e superate, di Weiwei di volere, con l’aggiunta di video, «coniugare una visione estetica più tradizionale a un linguaggio nuovo, per dare linfa all’opera… minacciata dalla nascita del cinema e della tv», il problema è che le immagini documentarie, a prescindere dai possibili e non scontati sensi metaforici, sono invadenti, forti in gran movimento e, a meno di estraniarsi totalmente da esse, più che disturbare, distraggono e finiscono per rompere continuamente l’emozione del canto e della musica. Tra l’altro, già quello che si vede in scena, spettacolare certo ma in fondo abbastanza statico, è particolare e richiama l’attenzione per il mistero dell’ interpretazione, andando, solo per fare degli esempi, da un grande rospo che Calaf porta come uno zaino sulla schiena tutto il primo atto (simbolo – secondo uno spettatore cinese, ché nel programma di sala non se ne fa cenno – nella tradizione del suo paese della purezza e dell’ambizione dell’uomo che mira in alto, alla mano della principessa) sino al mosaico del Museo delle Terme con lo scheletro e la scritta in greco ‘’Conosci te stesso’’, ma proposto invertito, al contrario, sul retro della scalinata, visibile quando ruota all’inizio dell’ultima parte.
Per capire forse bisogna conoscere quanto dichiarato dalla direttrice Lyniv, che in Turandot vede la trasformazione e liberazione spirituale attraverso l’azione, che coinvolge anche il coro, il popolo sino allora costretto a plaudire alle decisioni terribili della principessa, che come si sa propone tre difficili quesiti a chi chiede la sua mano, tagliando la testa a chi non sa rispondere a tutti quanti ( e c’è numero e elenco dei decapitati, quasi come quello delle amanti in Don Giovanni). Riuscirà invece a trovare la soluzione un pretendente misterioso (Calaf), che a sua volta dichiara di amarla ma di essere disposto a lasciarla libera se entro l’alba scoprirà quale sia il suo nome. Così la celebre invocazione per lavorare a scoprirlo è «nessun dorma» e la povera Liù, torturata perché lo conosce e parli, preferirà morire che tradire chi segretamente ama e per questo desidera, sino al sacrificio, che possa realizzare il suo, di amore.
La verità è che questa nuova produzione dell’Opera di Roma era nata prima della pandemia, per cui è stata rimandata, e ora è stata realizzata dopo due anni di morte e lotta con la malattia e, infine, a quasi un mese dalla violenta guerra russa e l’invasione dell’Ucraina, con in più sul podio e tra i cantanti cittadini ucraini. Così per Weiwei «stabilire delle analogie tra un capolavoro della tradizione lirica e la nostra realtà è più importante di qualsiasi elaborazione scenica». Per fortuna la qualità musicale è stata, come si è detto, apprezzata e alta sin dalle prime battute con quelle note apocalittiche potenti, drammatiche e moderne, e fino al quella chiusura con la nota alta e insinuante e raggelante dell’ottavino a rendere il dolore di Liù e la profondità dei suoi sentimenti. Una prova, per la brava Lyniv, che sembrava nascere nel paragone con la recentissima Turandot proposta da Santa Cecilia con la direzione di Pappano, paragone ingiusto visto che questa è stata tutta lavorata su potenza e attenzione alle sfumature grazie all’esecuzione in forma di concerto, libera dai vincoli e la concretezza dell’esecuzione in forma scenica che ha altra forza, espressività e tempi, coniugando l’emozione della note con la vitalità dei corpi e dell’azione dei ben selezionati cantanti interpreti.
Post scriptum: Ai Weiwei, sino al 3 aprile al Museo delle Terme di Diocleziano (dove evidentemente ha scoperto il mosaico funebre “Conosci te stesso”) espone la sua Commedia umana, un’opera concettuale che «tenta di parlare della morte per celebrare la vita» (che è poi se si vuole è in fondo il tema della Turandot), monumentale scultura (alta sei metri, larga nove e del peso di quattro tonnellate), enorme lampadario costituito da oltre duemila pezzi scultorei di vetro nero, soffiato e fuso da maestri vetrai con tecniche tradizionali e d’avanguardia nell’arco di tre anni.