Cronache infedeli
Geologia dell’impero
Da Stalin a Putin, dalla Georgia alla Cecenia, dalla Inguscezia all'Ucraina: scavi dentro la terra e porti alla luce successive stratificazioni che parlano di guerre dimenticate, fughe, occupazioni, pogrom e torti mai perdonati incisi nella memoria
I profughi ceceni stanno in un vecchio scalo ferroviario ai bordi della città. Ruggine e vento, in questa fredda mattina primaverile del ’94: Nazram, Inguscezia, periferia della guerra. L’uomo che ci accompagna nasconde – esibisce – una rivoltella sotto il pesante giaccone di pelle nera. Conosce tutti, saluta i vecchi seduti davanti ai vagoni affondati in una giungla di erbacce, entra negli scompartimenti e parla con le donne affaccendate a cuocere il pasto quotidiano, l’eterno odore di cavolo bollito. Fuori, di nuovo: bambini come folate di vento tra i binari, ragazze che trascinano coperte e secchi riempiti alla fontana. I racconti dei profughi sono sempre gli stessi: le donne risentite e lamentose, le ragazze scontrose, gli anziani rassegnati.
Sullo spiazzo degli scambi e dei binari incombono palazzoni macchiati dal tempo, cemento fradicio e panni stesi ad asciugare su vecchi terrazzi. “Lì, in quelle case – spiega la nostra guida – stanno quelli del ’92.” E quelli del ’92 sono altri profughi, vomitati da un’altra guerra: un’altra storia che non vale la pena di conoscere, e che pure ha i suoi morti, i suoi cimiteri, i suoi reduci, le sue croci.
Questa storia è insieme remota e attuale. Al termine della “grande guerra patriottica”, Stalin decise di punire l’intera popolazione del Nord del Caucaso, colpevole di aver subito l’occupazione nazista durante la fase finale del conflitto. Così il Piccolo Padre lancia su ingusci e ceceni un’accusa infamante: “tradimento della patria e collaborazionismo con il nemico.” In un giorno, la Repubblica autonoma ceceno-inguscia è cancellata dalle carte geografiche sovietiche e in un solo giorno – il 23 febbraio del 1944 – mezzo milione di persone sono caricate a forza sui carri bestiame e deportate verso le steppe dell’Asia centrale. Nelle prime settimane dell’esodo le vittime furono oltre centomila, per gli altri iniziò un lungo esilio che ebbe fine solo nel 1957, quando ceceni e ingusci si trovarono riabilitati con un benevolo decreto del nuovo zar sovietico, Nikita Kruscev.
Ma la storia – come la natura – non tollera il vuoto. Nel tempo dell’assenza, le terre lasciate libere da ceceni e ingusci – le case, i campi, le stalle – erano state occupate da nuove popolazioni: i russi si sistemarono a Grozny, gli Osseti traboccarono nel Prigorodnij Rajon, la regione dell’Inguscezia che si stende lungo il corso del fiume Terek. Così, dagli anni Cinquanta, la guerra a bassa intensità ingaggiata tra occupanti e antichi proprietari ritornati bruciò sotto la cenere per tutta la residua esistenza dell’Unione Sovietica, per esplodere nell’inverno del 1992, quando Osseti e Ingusci si trovarono liberi dall’Impero e pronti a massacrarsi per la terra contesa.
In pochi giorni – dal 3 ottobre al 5 novembre – furono uccise quasi seicento persone, e migliaia di Ingusci – appunto quelli del ’92 – costretti a un esilio senza fine nei campi profughi e nelle periferie delle città.
L’impero ha una sua geologia. Scavi dentro la terra e porti alla luce successive stratificazioni che parlano di guerre dimenticate, fughe, occupazioni, pogrom e torti mai perdonati incisi nella memoria. Scavi nella storia minima degli uomini e delle famiglie e scopri antiche sedimentazioni: chi fu cacciato e chi prese il suo posto, chi ritornò e reclamò la sua vecchia terra con le armi in pugno. Scavi nelle pagine dei libri di storia e ti accorgi che la matassa dei torti e delle ragioni è così intricata che non sopporta una geometria pura di assoluzioni e condanne.
Nei cimiteri di campagna che incontro al confine tra Inguscezia e Cecenia – cimiteri musulmani su cui sventolano lacere bandiere verdi – scopro che la data graffiata sulle tombe dei morti è sempre quella: un giorno qualunque dell’inverno del ’92. Da quelle fosse si può partire per intendere la vicenda di oggi, trenta anni dopo, ma si può anche rivolgersi al passato, per uno scavo senza fine che trapassa secoli e dominazioni e tragedie.
Lungo le rive del fiume Terek galoppavano i cosacchi dell’impero zarista e i personaggi di Tolstoj, Puskin e Lermontov: i Peciorin, gli Onegin, gli “eroi del nostro tempo”, giovani cadetti nostalgici della corte e degli amori di San Pietroburgo, esiliati in queste selvagge terre di frontiera tra popolazioni feroci e ragazze indomite e sensuali. Un topos della letteratura russa che arriva fino a Dostoevskij: “quindi andò a finire nel Caucaso, dove prestò servizio, si batté in duello, fu degradato, fece di gran baldorie, scialacquò parecchio denaro…”
In Georgia, nell’estate del 2008, i profughi si radunano alla periferia di Tblisi, nel polverone estivo dello svincolo autostradale che porta fuori dalla capitale. Sono famiglie contadine sloggiate da casa a furor di cannonate, sono manovali, muratori, pensionati, pochi bambini e molti vecchi. Vengono dal confine con l’Ossezia del sud, dove l’orso russo ha dato un nuovo scossone, con la Campagna d’agosto o guerra dei cinque giorni: una fulminea operazione militare che ha spostato il confine di questa repubblica separatista ancora più all’interno in territorio georgiano. La maggior parte dei profughi per ora dorme all’addiaccio, in accampamenti di tende, fortunato chi ha un tetto sulla testa. Tania, per esempio, si è ricavata un buco nel vecchio palazzaccio dove sono rifugiate decine di famiglie in fuga. Un cucinino minuscolo, una cameretta piena di vestiti, sul comodino la foto incorniciata di un bel ragazzo moro in divisa. Dice: “è mio fratello Amiran, quello morto nella guerra di prima.”
È vero, scavi dentro la terra dell’Impero e trovi una più antica stratificazione: morti, profughi, armi, cimiteri, dolore, disprezzo. Quella che Tania chiama la “guerra di prima” è la fulminea secessione dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia, che nel 1992 strappò alla Georgia quasi il 20 per cento del territorio nazionale, quando la nuova Repubblica post-sovietica ebbe l’ardire di insorgere contro i satrapi controllati da Mosca. Chi si accorse allora di questa scaramuccia alla periferia dell’Impero? L’Occidente era ancora impegnato a festeggiare la fine della guerra fredda, a Mosca il nuovo Zar Eltsin si preparava a consegnare il potere a un pugno di oligarchi fedeli e a precipitare l’immenso Paese nel pozzo senza fondo del fallimento economico. Che saranno mai qualche centinaio di morti ammazzati e qualche migliaio di profughi interni di fronte alla grande storia in cammino?
Sei anni dopo, mentre a Mosca Putin sta costruendo con metodo la sua personale “verticale del potere”, e mentre dalla nuova amministrazione americana arrivano segnali di pace e anche di restart, “ripartenza” nei rapporti tra le due potenze, i sopravvissuti della “guerra di prima” sono alloggiati da anni in uno spoglio villaggio di casette prefabbricate – roventi d’estate, gelate d’inverno – attrezzato in una arida campagna georgiana. Anche qui, solo donne e vecchi sulle porte di casa, bambini che giocano nel fango o nella polvere, mute di cani vagabondi. La Georgia è povera: qui si vive o si sopravvive solo grazie all’elemosina delle organizzazioni umanitarie.
Da qui, in un percorso di pochi chilometri, si può raggiungere Gori, una cittadina dove lo scavo nelle profondità della storia ci porta al cuore della stratificazione sovietica: il moderno inizio di questa dissipazione di popoli e di terre.
A Gori, appunto, dove la casa natale di Josif Vissarionovic Dzugasvili – una modesta baracca di legno e mattoni – è stata inglobata nel piccolo museo che celebra la vita e le opere di Stalin: il piccolo padre, Koba il terribile, la “nostra guida, sole riflesso da milioni di cuori.” Una bella ragazza vestita di miliziana – stivali di cuoio lucido e pistola nella fondina – ci guida attraverso stanze deserte e silenziose e poi nel giardino, dove su un tronco di binario sta piantato il vagone corazzato a bordo del quale “l’uomo di acciaio” percorreva le strade dei paesi fratelli. Da questo vagone dobbiamo partire per intendere la politica di conquista e annessione dell’Impero e le sue parole d’ordine – di volta in volta zariste, sovietiche, putiniane – che restano identiche attraverso i secoli.
In epoca contemporanea, vicende come la distruzione sistematica della Cecenia e la spartizione armata della Georgia, appartengono a malapena alla periferia della grande storia. Oggi – con la guerra scatenata contro l’Ucraina – è all’ordine del giorno una ben più angosciosa tragedia. Come scrive Yaryna Grusha Possamai, “non esiste una generazione di ucraini che non sia stata sfregiata dalla politica coloniale russa e dalle sue scelte rovinose.”
Tra Kiev e Kharkiv, tra Mariupol e Dnipro, nelle vaste campagne di questo vasto paese, scavi nella terra e raccogli le ossa rosicchiate e gli stracci immondi dello sterminio per fame che tra il 1932 e il 1933 impose il supplizio a un intero popolo e condannò a morte quattro milioni di contadini. Allora, in quelle stesse campagne e nei villaggi che oggi vengono investiti dalla potenza di fuoco dell’armata russa, chi fosse stato sorpreso a nascondere anche solo qualche spiga di grano veniva condannato a pene di dieci anni di lavori forzati o alla più sbrigativa fucilazione sul posto.
E ancora, più vicino alla superficie, ecco la stratificazione di Babij Jar, il crepaccio alla periferia di Kiev dove i nazisti in pochi giorni spacciarono 34mila ebrei ucraini: donne, vecchi e bambini, cadaveri nudi, accatastati e gettati nel fondo, ricoperti di calce, spianati infine dalle benne delle escavatrici. Insieme agli ebrei furono massacrati e sepolti migliaia di rom, comunisti e prigionieri di guerra russi. Su questo giacimento i soldati sovietici – quando due anni dopo riconquistarono la città – accatastarono i cadaveri degli abitanti accusati di collaborazionismo con i tedeschi. Alla fine, centomila cadaveri straziati, una gigantesca fossa comune e una immonda tragedia la cui esistenza fu occultata, minimizzata, espulsa dai libri di storia dell’Unione Sovietica. “Non c’è monumento a Babij Jar, il burrone ripido è come una lapide”, scrisse Evgenij Evtusenko.
Oggi tocca alle città e ai villaggi dell’Ucraina. L’impero muove le sue armate, fa terra bruciata di un grande Paese e insieme della verità storica. La russificazione del nemico si compie ogni giorno lungo corridoi umanitari che portano solo in Russia e che non sono altro che deportazioni forzate sotto le bombe. A guerra finita – perché ogni guerra finisce – dove vivranno gli sfollati, chi abiterà nelle loro case ricostruite? Avranno il diritto di tornare nelle loro terre, e le loro terre si chiameranno Russia o Ucraina? In questo conflitto modernissimo per potenza distruttiva, troviamo l’impronta delle antiche invasioni dell’Impero: la tratta degli uomini, la cancellazione della storia, la sostituzione etnica. Non basterà un nuovo Evtusenko per risarcire questa colpa: “O mio popolo russo/so che in fondo al cuore/tu sei internazionalista/ ma ci sono uomini che/ con le loro mani sporche/ hanno abusato del tuo nome.”