PPP in tre parole: Roberto Carnero al Ceppo
Sottoproletariato Impegno Passato
L’originalità di Pasolini consiste nell’aver tentato «una sintesi tra partecipazione politica e lirismo. Infatti non rinuncia ad affrontare le grandi questioni che riguardano la collettività, ma insieme pone sé stesso e il proprio io poetico in costante, dialettico rapporto con la realtà che rappresenta»
Il 4 marzo dalle 10 alle 12 verrà presentato, presso l’Istituto Professionale Luigi Einaudi di Pistoia, il “Premio Ceppo Pasolini e i Giovani”, uno dei progetti educativi che intendono omaggiare la figura di Pier Paolo Pasolini in occasione del centenario della sua nascita. Vi partecipano Massimo Lugli, autore di Il giallo Pasolini. Romanzo di un delitto italiano (Newton Compton Editori) e Roberto Carnero, saggista, docente all’Università di Bologna che ha appena pubblicato per Bompiani il libro Pasolini. Morire per le idee. Il Premio Internazionale Ceppo, diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, che organizza l’evento, ha chiesto allo studioso di indicare in un testo le tre parole chiave che identificano l’attualità di uno dei maggiori intellettuali del Novecento, di cui il 5 marzo ricorre il centenario della nascita. Lo anticipiamo per i nostri lettori
***
Sottoproletariato
Fin dal suo arrivo a Roma, nel 1950, Pasolini è attratto da un universo per lui nuovo, quello delle borgate della capitale abitate dal sottoproletariato, la cui vita lo affascina e lo emoziona e che frequenta assiduamente e osserva con sguardo al contempo sensuale e antropologico. Nei “ragazzi di vita” egli vede l’autenticità, la genialità, la spontaneità, il candore, la libertà che non trova più nella società massificata del boom economico. Questo popolo primitivo e inconsapevole, un «caos non ancora proletario», è ai suoi occhi portatore di una «pura» e «assoluta» energia vitale.
Non è semplice spiegare che cos’erano le borgate romane all’inizio degli anni Cinquanta, quando Pasolini giunse a Roma in fuga dal suo Friuli. Non certo le periferie urbanizzate dall’edilizia popolare (che si sarebbero viste qualche anno più tardi), bensì una zona sospesa tra città e campagna. La borgata non era più città, ma non era ancora campagna: costruzioni molto povere (a volte in muratura, ma spesso in legno e lamiera), vie non asfaltate (polverose d’estate e pronte a trasformarsi in rivoli fangosi alle prime piogge), assenza di adeguate strutture (fognature, acqua corrente, luce elettrica ecc.).
Di quell’ambiente offrono testimonianza le immagini dei film romani dello stesso Pasolini: Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). Ma sullo sfondo si intravedono i cantieri edili che di lì a pochi anni avrebbero radicalmente trasformato il volto della periferia romana in qualcosa di molto simile a quello che conosciamo oggi. In quell’ambiente così povero Pasolini trova però un’umanità popolare dalla quale si sente irrimediabilmente attratto, al punto da metterla al centro dei suoi romanzi e dei suoi film. Da quell’esperienza personale, diretta, scaturisce l’elaborazione del primo romanzo pasoliniano a essere pubblicato, Ragazzi di vita (1955): un’opera che risentono del clima neorealista, ma che per molti versi va oltre i modelli di quella corrente letteraria.
Ma chi sono i «ragazzi di vita»? Giovani nati e vissuti in un ambiente sociale privo di certezze, non hanno la sicurezza del lavoro, ma neanche quella della casa e della famiglia. In assenza del cerchio protettivo degli affetti, sono costretti a crescere in fretta, a imparare presto ad arrangiarsi, a vivere di espedienti. Se sotto un profilo oggettivo le azioni che essi compiono sono immorali (rubano, truffano, aggrediscono, si prostituiscono, si rifiutano di lavorare…), lo scrittore li rappresenta tuttavia in una luce di purezza, senza condanna, ma con un sentimento di pietà, in quanto vittime inconsapevoli di processi storici che li trascendono e li travolgono, essendo esclusi dal benessere che la civiltà porta con sé.
Impegno
Nel 1947 Pasolini si iscrive al Partito comunista italiano. Ma sarà sempre un comunista eterodosso. La sua sofferta posizione politica nasce dalla contraddizione fra la razionale adesione al programma del Pci e l’intimo timore che proprio l’acquisizione della coscienza di classe da parte del proletariato possa determinare la corruzione, in senso borghese, della più candida essenza popolare.
Pasolini è un autore profondamente “politico”. Nelle sue opere ha saputo di volta in volta confrontarsi con i grandi temi sociali e civili dell’Italia del secolo scorso: il fascismo e la Resistenza, l’impegno “a sinistra”, l’avvento del neocapitalismo nella fase del boom economico, la trasformazione sociale della borghesia e del proletariato, il Sessantotto e il dramma della “strategia della tensione”.
La sua originalità consiste nel fatto che egli ha tentato una sintesi tra partecipazione politica e lirismo. Infatti non rinuncia ad affrontare le grandi questioni che riguardano la collettività, ma insieme pone sé stesso e il proprio io poetico – con tutte le sue tensioni, angosce, slanci, entusiasmi, sentimenti – in costante, dialettico rapporto con la realtà che rappresenta. Non senza un margine di ambiguità e irresolutezza. Come confessa, in alcuni celebri versi, a colloquio con l’ombra di Antonio Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere; // […] attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per mia religione // la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza […]» (Le ceneri di Gramsci, ne Le ceneri di Gramsci, 1957).
Passato
Scrive Pasolini: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore» (Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, 1964). Quando Pasolini afferma: «Io sono una forza del Passato», esprime il suo disprezzo per il presente, per le trasformazioni profonde del tessuto economico e sociale del Paese indotte dal boom economico, che hanno generato falsità e grettezza. L’esaltazione del passato diventa per lui l’estrema contestazione contro l’anonimia di un presente che rimuove le tradizioni e le usanze più antiche e vere.Sono concetti sui quali Pasolini insiste molto, per esempio, negli Scritti corsari(1975). Da qui l’accusa di passatismo, cioè di rimpiangere una mitica età dell’oro, secondo il vieto luogo comune del “si stava meglio quando si stava peggio”. Ma questo significa semplificare all’eccesso la posizione pasoliniana. Cosa che però fa anche un interlocutore del calibro di Italo Calvino.Pasolini, tuttavia, si ribella a una riduzione un po’ macchiettistica del suo pensiero. Su questo punto, nel capitolo 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino degli Scritti corsari, risponde piccato a Calvino, che lo aveva accusato di “rimpiangere l’Italietta” del ventennio fascista, un’Italia quanto mai piccolo-borghese, provinciale e repressiva, soprattutto nei confronti di chi era diverso, non conformista: «L’‘Italietta’ è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni».Ciò che Pasolini dice di rimpiangere è invece un’altra cosa, vale a dire il mondo contadino: «È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo)». E subito dopo spiega in che cosa consiste, a suo avviso, la peculiarità di questa civiltà contadina: «Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano […] l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita».