Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Elena e Penelope”

Elena e la morte

Lo storico Giorgio Ieranò dedica un ampio saggio alle due donne da cui discende tutta la mitologia femminile: da Omero in poi, il conflitto costante tra adulterio e fedeltà ha segnato la storia dell'umanità

Il fondale è tra i più noti al mondo: la piana di Troia, città conquistata e poi distrutta dagli invasori achei. È qui che Elena di Sparta arriva, innamorata del troiano Paride, bello e vanesio, non certo classificabile come eroe guerriero. Arriva perché fattasi rapire. Affascinante, ammaliante, contradditoria, che Omero descrive come la femmina più bella del mondo discendente da Zeus (anche se non carnalmente; la madre era Leda, il padre naturale era il mortale Tindaro) dalle troiane è vista con diffidenza. Attorno alla sua figura si moltiplicano pettegolezzi, critiche e parole acide. Solo il re Priamo la fa sedere al suo fianco mostrandole simpatia, se non addirittura affetto paterno.

Elena è il prototipo dell’adultera. Il suo contrario è la fedele Penelope, chiusa in casa, nell’isola di Itaca, impegnata a scostare le avances dei Proci, che si sono insediati da padroni nella sua dimora dell’isola di Itaca. Penelope è astuta. Ciascuno degli usurpatori cerca di sedurla e averla tutta per sé. Penelope di giorno tesse una tela, per poi disfarla di notte. E così, con questo stratagemma, prende tempo in attesa che il marito Ulisse la raggiunga. Sì, proprio quell’Ulisse che ha inventato il proverbiale cavallo di legno il quale, pieno di guerrieri Achei, riesce a oltrepassare le mura di Troia. Quell’Ulisse che con il pretesto di esplorare il mondo («Virtute e canoscenza», scriverà Dante Alighieri, descrivendo il suo «folle volo», forse diretto alle colonne d’Ercole) sostanzialmente fa gli affari suoi, incurante del figlio Telemaco, il giovane ingenuo, forzatamente orfano, che guarda il mare in attesa del rientro del leggendario genitore. Pur vero che Ulisse viene trattenuto da donne magiche, ammaliatrici e predatrici, offre al mondo intero un gigantesco esempio di egoismo.

Elena e Penelope, due donne agli antipodi. Non si sono mai incontrate, malgrado fossero cugine. Donne-archetipi? Così si potrebbe dire, anche se Giorgio Ieranò, docente universitario e abilissimo divulgatore storico, nel dipanare le vicende dell’una e dell’altra scova verità scomode, curiose e imbarazzanti, e le inquadra come proverbiali esempi: adulterio e fedeltà. Ieranò scava nelle personalità delle due senza tralasciare l’affresco del mondo femminile greco (ma non solo). L’assoluzione e la condanna non sono così nette, e questo fa parte delle caratteristiche del mito, dal percorso mai lineare, nemmeno nei testi post-omerici. Il suo libro s’intitola Elena e Penelope, edito da Einaudi, 132 pagine, 15 Euro. Il testo contiene il fascino della mitologia, ma anche il realistico panorama che certo non illumina – per usare un eufemismo – il ruolo e il potere del maschio di quei tempi e del vicino Oriente.

Nel proemio dell’Iliade, Omero lega entrambe le donne al concetto di morte. Per citare il grande poeta cieco, «molte valorose anime di guerrieri sono state gettate nell’Ade», il regno dei morti. Nel mondo greco verso la donna si coltivava un misto di passione e di diffidenza, sentimenti talvolta espressi in modo forte. Prevalevano i riferimenti al mondo naturale. Il poeta Semonide (nato a Samo nel VII secolo a.C.), per esempio, ci offre una sorta di bestiario femminile. C’è la donna-volpe, furba e malvagia; c’è la donna-cagna, curiosissima, che s’intrufola dappertutto e vuole «tutto sentire e tutto sapere»; c’è la donna simile a una «scrofa setolosa» che vive nella sporcizia. Un altro genere di femmina, aggiunge il poeta di Samo, «è stato plasmato dagli déi con la terra: ci troviamo dinanzi a una donna pigra, senza arte né parte, che pensa solo a mangiare e a starsene al caldo accanto al fuoco. Quella che somiglia alla cavalla si tiene lontana dai doveri casalinghi, è vanitosa e «passa gran tempo a truccarsi, ungersi di creme e a pettinarsi». Indubbiamente attraente se la si accosta alla donna-scimmia: «bruttissima nel grugno, corta di collo e rincagnata, senza chiappe, tutta braccia e gambe». Non manca la donna-asina, lasciva, «che accoglie come amante chiunque le venga vicino».

Un solo tipo di donna si salva da questo feroce elenco, ed è la donna-ape: si prende cura della casa e dei figli, invecchia accanto al marito che non smette di amare e da cui è riamata, è saggia e casta e si tiene alla larga dalle amiche pettegole. Tuttavia l’offesa più grande che il poeta fa al genere femminile è contenuta nelle considerazioni finali: «tutte le donne, alla fine, sono un grandissimo male (mégiston kakòn): proprio quella che sembra più casta e pura, proprio quella, si scopre, è la più corrotta». Nessuna eccezione. «La razza delle donne, il gymaikéion genos, è la sventura mandata dagli déi? No, sarebbe troppo comodo pensarlo, è solo un luogo comune. E allora? Tutte le colpe elencate appartengono alle donne e basta. Non a caso, come narra Esiodo, «la sciagurata Pandora» fu creata dal padrone del creato, Zeus, per punire l’umanità.

Il mito non è astrazione. Piuttosto la fotografia del mondo della polis greca, dove il maschio guarda le donne senza mai sbarazzarsi dell’ombra del sospetto. Tornando all’Iliade, Elena somiglia alla donna-asina, diventando causa della rovina di Troia, una delle più grandi e potenti città dell’Asia minore. Penelope invece sarebbe la donna-ape. Giorgio Ieranò insiste però su una narrazione piena zeppa di chiaroscuri: né nel poema omerico né nella letteratura successiva, egli scrive, «Elena e Penelope possono essere ridotte a marionette di un teatro morale, a semplici simboli di infedeltà e castità». Questo è spiegabile per il fatto che «le narrazioni mitologiche vivono di varianti, i racconti spesso si contraddicono e si smentiscono a vicenda. Valeva per i greci come valeva per i romani. Lo stesso Shakespeare bollava Elena come una prostituta (a strumpe, a whore). Fin dai tempi di Omero, nota Ieranò, «noi possiamo ascoltare la voce di Elena e di Penelope, sentire la loro visione della storia. Entrambe ci appaiono riluttanti a irrigidirsi in semplici modelli di vizio o di virtù. Entrambe lottano contro quegli stessi stereotipi in cui le si vorrebbe ingabbiare».

Dicevamo che Elena non è l’allegra o spudorata fidanzatina che qualcuno pensa. Queste le sue parole: «Sono una cagna spaventosa, capace di tramare ogni malvagità. Come vorrei che il giorno in cui mia madre mi diede alla luce una tempesta di vento mi avesse portato lontano, sulla cima di una montagna o tra le onde del mare sonoro». Non è uno sfogo o un ripensamento del momento… Si accusa in maniera spietata e in alcuni casi usa per sé l’insulto kynòpis, «faccia di cane». Parola che per i greci antichi è lo stesso prototipo dell’animale infido. Insomma, l’astuzia viene posta al servizio del male. All’inizio del grande poema, l’autore cita «un misterioso piano di Zeus», origine della sanguinosa tragedia. Ma lo scopo quale era? Alcuni testi ci confidano che Zeus voleva alleggerire la Terra dal peso degli uomini, così molesti e fastidiosi. La guerra, dunque, sarebbe stata un eccellente rimedio.

Questo concetto appartiene già ai Canti Ciprii, testo che, a parte alcuni frammenti, è andato perduto. Perché si chiamano Ciprii? Per capirlo si deve ricordare Afrodite che, essendo emersa prodigiosamente dalle onde del mare davanti all’isola di Cipro, era chiamata Cipride. Ci sarebbe stata una contesa tra Afrodite, Atena ed Era per stabilire chi delle tre divinità fosse la più bella. E qui la grande sorpresa: fu Paride a decidere, scegliendo Cipride. Come premio Cipride concesse la mano di Elena al principe troiano, il quale, senza pensarci due volte, salpa alla volta di Sparta e si porta via la donna bella per eccellenza, dopo aver fatto l’amore con lei. In quel momento il marito di Elena, Menelao, era assente. Altro particolare, che potremmo far rientrare negli ambigui recinti della psicoanalisi: Teseo, re di Atene, avrebbe stuprato Elena quando era bambina. Si chiede Ieranò: «La questione cruciale resta dunque aperta: Elena era solo lo strumento di un progetto divino, la vittima innocente di un rapimento, l’oggetto inerte del desiderio maschile?».  La faccenda è, a dir poco, contorta. Occorre riandare alla concezione greca del femminile: negli amori mitologici non è chiaro – appunta l’autore – dove finisca la seduzione e inizi lo stupro.

Mai dimenticare il fatto che Elena era figura multiforme. A Sparta era venerata come una dea. A lei, e ai suoi fratelli Castore e Polluce, si raccomandavano i marinai quando erano in mezzo a onde insidiose. Secondo un altro testo, Elena la bellissima non era la figlia di Leda, ma di Nemesi, oscura divinità della vendetta, generata dalla notte. Eschilo dice di lei che era una delle Erinni «che provoca pianto alle spose». Tesi incontrovertibile: Elena è portatrice di morte. Altre fonti riportano che Elena, una volta sbarcata a Rodi, fu impiccata da schiave mascherate da Erinni. Divenne così, nella tradizione, che Elena venne ricordata da allora in poi come una dea dentritis, una divinità dell’albero. Ieranò precisa che la morte per impiccagione è tipicamente femminile, mentre il maschio è destinato a perdere la vita attraverso la spada.

Nell’Iliade, narra Omero, tutti gli eroi sono consapevoli d’essere parte di una leggenda. Tutti, nel bene e nel male, si conquistano una fama immortale, quel kleos che spetta ai grandi. A suffragare questo concetto occorre ricordare la parte finale dell’Odissea, «dove si dice che anche la fama (kleos) della virtù (areté) di Penelope non morirà mai e sarà sempre ispirazione di un canto. Ma quella della consorte di Ulisse è fama diversa. Ulisse, di dice, chiese a Tindaro di aiutarlo a ottenere i favori di Penelope, figlia di suo fratello Icario. Il re di Itaca, che avrebbe potuto sposare Elena, ma alla fine preferisce Penelope. Plutarco ci dice: «Elena amava la ricchezza, Paride il piacere; Odisseo era accorto, Penelope onesta: ecco perché il matrimonio di questi ultimi fu invidiabile e felice, mentre il primo procurò ai greci e ai barbari un’Iliade di mali». Penelope è bellissima. Lo stesso Ulisse ammette che la ninfa Calipso era più alta e bella di sua moglie. Nacquero leggende attorno alla donna-regina di Itaca. A sentire Omero, fu Atena a spingere Penelope a farsi bella e scendere in mezzo ai Proci «per ammaliare ancor più il loro cuore e davanti al marito e al figlio apparire, prima di quanto non lo fosse, degna d’onore». Lo fece per favorire la vendetta del marito oppure per quale altro motivo? Eccoci dinanzi a un’altra donna ambigua, la stessa che accetta i doni dei Proci. La donna si presenta ai loro occhi accompagnata da due ancelle: «Non scendo sola tra gli uomini, provo vergogna. Questo il suo pudore. La furbizia di lei somiglia molto a quella del marito. Antinoo, uno dei pretendenti, ammette che la regina «conosce ogni sorta di inganni». Scriverà molto dopo Pallada, poeta di Alessandria: «Tutte le donne di Omero le mostra perfide e subdole: che siano caste o puttane, sono sempre una sciagura. Dall’adulterio di Elena derivò una strage di uomini, ma anche la castità di Penelope fece molti morti». Forse una sentenza esagerata, ma coerente con la tradizionale idea greca che la donna sia sempre e comunque una creatura pericolosa.


Accanto al titolo: Elena e Paride di Jacques-Louis David, 1788, Louvre, Parigi

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