Marco Vitale
“Chiari d’aria” di Daniele Benvenuto

L’orizzonte del cuore

Torna a farsi sentire la voce del poeta toscano con una raccolta che si articola e si struttura nella poetica del frammento. Un percorso poetico scandito in 35 “fogli” dove, in modo esperto e con un lessico ricercato, la «brevità fronteggia il bianco della pagina»

Tra la parola e il vuoto si gioca la sorpresa, e certo la trasparenza di questi Chiari d’aria, libro che segna il ritorno alla poesia, dopo un silenzio durato quarant’anni, di Daniele Benvenuto (Book Editore, Riva del Po 2021, 68 pagine, 15 euro). L’esordio, e fino a oggi unica stazione del poeta, risale infatti al 1980 con una raccolta favorevolmente segnalata da Roberto Sanesi e intitolata I fragili equilibri. Cosa sia maturato nella scrittura di Benvenuto in questo cospicuo lasso temporale è quanto si chiede Vincenzo Guarracino in prefazione ai nuovi testi, suggestivamente evocando un’immersione della parola in un tempo di fitta operosità: Benvenuto è architetto e insieme pittore, scultore, designer. Dunque, una parola celata, ma solo apparentemente in sonno e in grado semmai di assorbire e fondere in un laborioso metabolismo, e nel suo spazio segreto, un numero incalcolabile di rifrazioni da restituire in una chiarità elusiva, che ci interroga.

La forma breve si dà come la più adatta a umilmente disporsi in ascolto di quanto ci trascende e non potremo raggiungere; l’esergo eracliteo, sull’impossibilità di cogliere i “confini dell’anima” nello spazio di una vita è più che mai eloquente a questo proposito. Così la brevità, nel suo continuo fronteggiare il bianco della pagina, come a dire un silenzio che si può inquisire, si materia in strumento di navigazione, con i suoi margini di errore certo, ma con la felicità delle sue intuizioni. E agnizioni, aporie, lacerti epifanici che feriscono per l’oltranza della luce e sembrano poi perdersi perché, pare dirci Benvenuto, la complessità – ed è sempre Eraclito a soccorrerci – è come il fuoco che di continuo divampa e si estingue.

Tali le coordinate di pensiero che presiedono a questo itinerario di poesia, a questo transito di parole che si offrono come un’ossimorica «rocca d’ètere»: «Lascia che l’idea si eclissi, che sia la corrente continua / della luce a trafugare la presenza dell’ombra, / inabissandosi calcolerà nell’apnea la flèbile / voce dell’abisso, lasciando che dia corpo agli / improvvisi scoppi, sia chiave di sole, orbita, ellisse». E forse merita aggiungere come un calviniano convergere di vaghezza ed esattezza si possa qui dare quale ulteriore chiave d’accesso. E ne è conferma l’accendersi di una ricerca lessicale di notevole qualità e invenzione, tra i pregi sicuri del libro: «Questo glabro quietòre resta ospite, epilettico di gas / in una Cappadocia arsa dei suoi stessi eritemi, / un perimetro senza spazî, l’arsura, i canti… / poi nell’accovacciarsi vivido, soriano, / la vasta azzurra meraviglia, / il corpo flessibile un guizzo negli incendi». Ugualmente sarà opportuno parlare di un’invenzione capace talora di addensarsi e rastremare fino a temperatura di saturazione, quanto può ricordare la tessitura minerale, elaboratissima di un Sandro Sinigaglia: «Colpì il cabrare improvviso del clamore, quasi / albore catapultò / in occàso, in nascondiglio».

Tuttavia, la poetica del frammento non deve trarre in inganno; questi Chiari d’aria si segnalano come un libro accortamente strutturato e articolato; il bianco ne è componente essenziale e l’ordo chartarum, numericamente individuato, stabilisce un percorso che si fa resoconto e trova ragione, come pure notava Guarracino, in un esperito “orizzonte del cuore”. 

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