Danilo Maestosi
Un nuovo restauro

Torlonia kitsch

La riapertura della Serra Moresca di villa Torlonia, a Roma, è una buona occasione per ripercorrere la storia di questo monumento alla grandiosità di una delle più furbe famiglie romane, giunta al vertice della ricchezza grazie alla sua spregiudicatezza e al suo cattivo gusto

Riapre dopo un lungo restauro la Serra Moresca di villa Torlonia. Una delle tante bizzarrie di questo parco romano lungo la via Nomentana costellato di edifici, ruderi in facsimile, monumenti e simulazioni architettoniche che hanno accompagnato e celebrato l’inarrestabile ascesa della famiglia di commercianti emigrata a Roma dalla Francia alla metà del Settecento, arrivata al successo e al sigillo di un ricca corona di titoli nobiliari nell’Ottocento grazie a matrimoni di sangue blu ben combinati, a una spregiudicata attività di banchieri e alla capacità di destreggiarsi a stringere alleanze con tutti i regimi che si alternano al governo della capitale, dall’occupazione napoleonica al crollo del potere pontificio e all’avvento del regno Sabaudo.

Una parabola di nuovi ricchi, molto attenti a conquistarsi l’aura di mecenati, che raggiunge il suo culmine nel ventennio fascista, quando la dimora principale e l’uso della villa fu regalata al Duce e il capostipite del tempo, Giovanni Torlonia si ritirò in una residenza più defilata che si era fatta rimodellare e aveva arredato sui suoi capricci esoterici di dandy da belle Epoque. La Casina delle Civette. Riservandosi l’uso del complesso monumentale della Serra Moresca, costruito quasi un secolo prima da Giueppe Jappelli, un architetto paesaggista ingaggiato dal nonno Alessandro, che inglobava oltre a una Grotta imbottita di finte stalattiti, e allora già praticamente in disarmo, anche una Torre circolare, attrezzata con una piccola mensa panoramica collegata alla cucina giù in basso da un montacarichi che trasportava oltre ai cibi anche una poltrona a baldacchino con cui il padrone di casa raggiungeva i suoi commensali.

Giovanni fu probabilmente l’ultimo del casato a usufruire di questo strambo congegno. Morì senza figli nel 1938. E la morte gli risparmiò di continuare a far da spettatore alle esibizioni a cavallo nel parco di quell’inquilino travestito da generale, che tanto lo innervosivano e alle apparizioni di quella sua moglie Rachele, scialba e incolta, cui non perdonava da snob di poca fede, l’aria da contadina che si trascinava appresso. Di precipitare nel vortice della guerra. E di assistere allo smantellamento delle due altre strambe perle sotterranee d’imitazione di cui aveva arricchito la villa, per far posto ad un rifugio antiaereo, che oggi si può visitare.

La prima è una finta tomba etrusca, affrescata da un pittore di buonamano, di cui era stato ostruito l’ingresso. Ritrovata una ventina di anni fa, durante alcuni lavori di sterro, è stata restaurata e restituita alla vista. La seconda è invece scomparsa, quasi certamente distrutta. Ne registra l’esistenza solo la testimonianza di una figlia della governante di Giovanni, che viveva nell’ala domestici della Casina delle Civette. E che io ho avuto la fortuna di intervistare una ventina di anni fa, con l’aiuto di Alberta Campitelli, che allora dirigeva l’ufficio ville storiche del Comune ed è stata l’artefice principale della rinascita di villa Torlonia.

Una donna anziana che resuscitava con distaccata lucidità i suoi ricordi di bambina. Raccontava di essersi intrufolata in quel sepolcro insieme al suo padrone, il principe Giovanni, che guidava una comitiva di amici. Al centro c’era un sarcofago aperto nel quale era depositata una mummia bendata. In basso, nascosto alla vista, c’era un pulsante. All’anfitrione bastava toccarlo perché da quel sudario si alzasse alli’improvviso, tra gridolini di stupore e battutacce, l’escrescenza di un’erezione.

Come non dar credito alla confessione di una bimba, che ammette di aver confessato la vergogna di quella scoperta e di aver chiesto spiegazioni alla madre, ricevendo in cambio una severa sgridata e l’ordine di tener quel segreto per sé, come deve fare ogni servitore fedele? Bocca cucita su tutto per non passar guai anche sui commenti avventati e rischiosi sui comportamenti dei Mussolini.

Vero? Falso? Dall’archivio Tolonia, tutt’altro che completo, non sono uscite prove documentali a riguardo. Ma verosimile. In linea col carattere del personaggio: educazione raffinata e gusti sofisticati ma un piacere per la beffa, testimoniato da altre fonti, che poteva agevolare cadute di stile. In linea con quel bisogno inarrestabile e arrogante dell’apparire senza timore del kitsch che guida i comportamenti di tutti i capofamiglia Torlonia che mettono mano all’arredo e alle trasformazioni di questa loro villa di meraviglie e stranezze posticce da ostentare con orgoglio, la tenacia e il disprezzo degli ultimi arrivati.

Quel teatro della vanità che trova il suo esempio più vistoso nella vicenda dei due obelischi piantati sul davanti e sul retro della dimora principale, disegnata con rigore neoclassico dal Valadier e poi più volte goffamente rimaneggiata. Un modo per rivaleggiare con gli altri obelischi che segnano le svolte urbanistiche dei papa-re. A metà Ottocento Alessandro Torlonia cerca di procurarseli in versione autentica in Egitto. Fallita la trattativa se li fa costruire in Italia e decorare con geroglifici che esaltino le imprese familiari. Poi per garantire loro aura e prestigio trasforma il loro viaggio fino a via Nomentana in una cerimonia a tappe, facendoli sfilare per i propri feudi come fossero davvero prede di guerra di un condottiero immortale.

Un teatrino delle vanità e delle apparenze del resto era anche la Roma del tempo, genuflessa al potere della ricchezza e pettegola. Se ne lamenta in una sua lettera proprio il costruttore della Serra Moresca, l’architetto Giuseppe Jappelli, chiamato a costruire non solo questa ibrido assemblagggio ma a rimodellare l’intera ala sul fondo della villa sull’esempio dei parchi romatici all’inglese che allora andava tanto di moda. E’ uno sfogo ad un amico in cui si lamenta, lui uno specialista collaudato dai nobili inglesi, confrontando l’uso rumoroso da svago di massa che ne fanno i committenti e i frequentatori romani rispetto a quello rispettoso e appartato delle nobildonne e dei nobiluomini inglesi che in quegli interventi sul paesaggio cercano solo pace, oasi di letture e meditazione.

Peccato che nel riaprire la Serra Moresca non si sia pensato di esporre in bacheca questa testimonianza. Arricchire l’occasione e l’evento col sapore di questa e altre storie. Un’assenza di ombreggiature, patine del tempo, che trasforma questo rudere risorto in un cimelio alieno. E il suo recupero così a lungo atteso in un’operazione imperfetta.

E’ vero. Ora si può rileggere con più esattezza l’architettura del padiglione centrale, che i Torlonia usavano come ricovero per le piante e come palcoscenico per concerti e ricevimenti. Ma la visione del fuori è disturbata dal tono squillante delle vetrate e dei motivi decorativi che avviliscono le strutture e i ricami in ghisa che strizzano l’occhio alle decorazioni moresche dell’Alhambra spagnola. Tutto appare così nuovo, senza velature d’opacità, da rendere improbabile anche la simulazione datata che l’ha generata. E lo spettacolo dell’interno rimanda un senso di vuoto e di estranietà per via delle piante ancora in boccio, palme, aloe, altre essenze esotiche che sbucano da qualche cassone e per via di quelle poche poltroncine di design, sagomate a trifoglio, piazzate per riempire lo spazio.

Un po’ meglio la cinta di rovine sbrecciate da fortezza in disarmo che ritroviamo all’esterno, scendendo in una piazzetta che ospita un catena di fontane e ruscelletti bordati di rocce, altra citazione in miniatura del fascinoso sistema d’acque scorrenti del prototipo iberico. Un difetto del restauro, sicuramente difficile come l’impresa di ricostruire un falso da un falso, di cui restavano poche tracce d’epoca, e magari era bruttino anche allora ?

Eppure alla Casina delle Civette, anch’essa devastata da un incendio, da spogli e atti vandalici, è riuscita meglio la ricostruzione delle vetrate e dei tetti smaltati, agevolata da una documentazione più ricca, dalla sopravvivenza delle stesse ditte artigiane utilizzate per gli originali mancanti.

Forse la colpa maggiore sta nel non aver offerto ai visitatori una vera pietra di paragone. Nell’aver trascurato o evitato – una censura per non rovinare la festa – di mostrarci il prima e dopo la cura, cancellando non solo la patina del tempo passato dall’impianto di questo monumento in copia ma anche il percorso dell’attesa, una quarantina di anni, che si è scolpito nella memoria di chi ha cominciato a frequentare questa villa nel 1978.Quando dopo l’esproprio fu aperta al pubblico dalla Giunta Argan, il giardino sistemato alla meglio, i monumenti tutti o quasi recintati, le cicatrici e i vuoti lasciati dalle vicende del dopoguerra: prima sede del comando alleato, che andandosene si portò via cimeli ed arredi, poi terra di nessuno, visitata da incursioni di ladri e vandali.

Ma tra i ricordi per fortuna anche la registrazione dei tanti passi avanti compiuti: la palazzina Valadier, il casino dei Principi, la Casina delle Civette, che ora sono musei accoglienti e funzionanti; il teatro riaperto che oggi ospita un cartellone di grande interesse, le Scuderie dove si può far sosta e mangiare, il giardino sempre più frequentato e sottoposto a vigilanza più accurata. E ora questa Serra Moresca che torna a misurarsi con lo sguardo, come avvenne quarant’anni fa quando era un groviglio di rovi inestricabile e potevi immaginarti di dargli la forma dei tuoi sogni. Una conquista e un rimpianto. Un romanzo mai scritto che riavvolge il suo nastro.

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