Danilo Maestosi
Su “Arte e identità della specie umana”

Ritorno all’arte

Il critico Gabriele Simongini riflette sulla specificità dell'arte e sulla sua "natura" sempre più spesso aggredita «della moda, del design, dei social network, della speculazione finanziaria e del marketing». Ne è nato un pamphlet che ci impone di fare i conti con la memoria condivisa (e negata)

Arte e identità della specie umana. È il titolo con cui Gabriele Simongini, storico d’arte di lunga data e solida carriera, insegnante d’accademia, saggista e curatore di mostre, ha voluto battezzare il suo breve pamphlet (edizioni Manfredi, 56 pagine, 12 euro). Mettendo in fila tre concetti in crisi, arte, identità, specie umana, di cui il mondo di oggi sembra aver smarrito e forse intenzionato a cancellare il senso. Un grido d’allarme che l’autore rende esplicito e ci rilancia addosso nel prologo stampato in copertina: «L’arte è oggetto di una aggressione parassitaria da parte della moda, del design, dei social network, della speculazione finanziaria e del marketing che è parallela alla progressiva cancellazione della memoria e della natura alla quale stiamo assistendo passivamente. Eppure l’arte può salvaguardare la nostra sensibilità assalita dalla retorica tecnologica e dall’ossessione del profitto». Che sia chiaro subito quali sono le insidie che dovremo sventare.

A sfogliare la lista ho la sensazione che l’elenco dei nemici con cui fare i conti andrebbe invertito, mettendo al primo posto il dominio ormai pervasivo della finanza, che ha strappato anche alla politica il controllo dell’universo, intaccando la visione dei diritti umani e il patto sociale su cui si sostenevano i nostri orizzonti di democrazia. Alimentando guerre e minacciando la sopravvivenza stessa del pianeta. Ma credo che affiancare campi d’azione e d’influenza e di peso così diversi sia frutto di una intenzione condivisibile di adeguare questo messaggio al modo in cui le nuove generazioni immagazzinano e metabolizzano le proprie esperienze. Funzionale ad un discorso che si concentra sul ruolo salvifico dell’arte. E cerca proprio lì, tra gli appassionati, gli studenti, i divulgatori d’arte, il proprio pubblico.

Non a caso la prima presentazione di questo volumetto è avvenuta nella sede della Fondazione Toti Scialoja: una casa-museo, la sua ultima residenza al rione Regola che custodisce le opere del maestro, una delle figure più multiformi della cultura italiana del secondo Novecento e quelle di altri pittori e scultori che sono stati suoi compagni di formazione e di avventura. Perché la difesa del museo, come luogo di conservazione e trasmissione di conoscenza ed emozioni, di ricerca e divulgazione, in cui si riallacciano i fili della memoria e del passato, è una delle parole d’ordine più ricorrenti di questo libello. Degli esempi e dei modelli sbagliati su cui ci invita a riflettere e a fare barriera: i musei come lunapark d’intrattenimento, attrazioni da grandi incassi, imposti come unica forma d’innovazione dalla politica culturale dominante che insegue solo l’immediato consenso di profitti e spettacolo.

Uno sfogo d’amarezza in cui ce n’è per tutti: i critici e i curatori modaioli che si adeguano alle regole di mercato e della convenienza, pontificano senza competenza, i collezionisti che lo cavalcano come fosse una Borsa, sconfessando l’idea che l’arte è soprattutto bene d’uso, gli artisti che ci si adattano per mascherare la loro mediocrità, sfornare opere che hanno bisogno della parola per essere legittimate ad esistere, la rassegnazione di noi spettatori che ci adattiamo senza ribellarci al ruolo di consumatori senza aspettative e senza domande. Il rischio nell’esplorare così in fretta le strade dell’artificio e dell’inganno, è di precipitare nel ruolo di predicatrice di sventure incompresa ed emarginata di Cassandra.

Lo stesso Simongini se ne accorge e prova a riderci su, parafrasando l’ironia di Brecht che spiega di essersi seduto dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati. Bella questa citazione, calzanti tutte le altre di cui Simongini fa largo uso. È il modo stimolante con cui l’autore cerca di esorcizzare la sua e la nostra solitudine di Cassandre: mettendo in campo altre voci , altre schegge di profezie di intellettuali, filosofi e artisti di primo piano, a contrastare il coro di visioni del mondo e ancoraggi razionali con cui i conformisti del contemporaneo invitano ad arrendersi alla retorica della tecnologia , alla velocità degli scambi, alla necessità di essere sempre connessi in un eterno presente illusorio , ignorando i legami tra passato e futuro e la ricerca di profondità.

Un bagaglio d’armi dialettiche da cui pescare strumenti di difesa e di resistenza per contrastare le argomentazioni degli sponsor di cattiva coscienza. Ne ho scelte alcune, seguendo l’ordine dei capitoli, come copione privilegiato e bussola di autorevolezza e conforto del mio pessimismo di lettore che da anni naviga in varie vesti, di cronista e di attore, il mare periglioso delle arti visive e delle strutture che ne organizzano la messinscena.

Ecco Umberto Eco schierarsi contro il virus e i rischi dell’amnesia: «Nessuna civiltà, intesa come sistema di idee scientifiche e artistiche, miti, religioni, valori e abitudini quotidiane può sussistere e sopravvivere senza una memoria collettiva. Schiacciati tra una memoria debole e il suo massimo eccesso, cosa potremmo suggerire ai nostri figli, che non sanno neanche cosa accadde solo pochi decenni fa? In un mondo in cui si è tentati di dimenticare o ignorare troppo, la riconquista del nostro passato collettivo dovrebbe essere tra iprimi progetti per il nostro futuro».

Ecco la voce di Hannah Arendt: «Per gli esseri umani pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, acquisire stabilità, mettere radici in modo tale da non essere travolti da quanto accade».

Ecco Gabriel Garcia Marquez descrivere che cosa genera l’inseguire un presente che ci sfugge: «Cominciano a cancellarsi i ricordi dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato»

Ecco un altro premio Nobel, José Saramago: «Non capiamo che dimenticando per rinuncia e pigrizia quello che eravamo, il vuoto così creato sarà ( o lo è già) irrimediabilmente occupato da memorie altrui che inizieremo a considerare nostre, tramutandoci così in complici e insieme vittime d una colonizzazione storica e culturale senza ritorno».

E che gusto sentir bacchettare artisti che pensano che arte è solo ciò che si vende da un collega idolatrato come Marcel Duchamp, dietro cui nascondono la loro resa: «Il Grande artista di domani dovrà entrare in clandestinità… Non essere tenuto a interagire in termini monetari con la società… Se si lascia contaminare dal fiume di denaro che gli gira attorno il suo genio si scioglierà fino a scomparire».

Su questi pilastri Gabriele Simongini fonda la catena di pensieri con cui difende a spada tratta il valore della tradizione come una ciambella di salvataggio per l’umanità, ed esalta il potere sempre più ignorato delle discipline, come pittura e scultura che spingendosi oltre la soglia del visibile interrogano con più intensità il mistero della vita, con più intensità si sforzano di dargli forma.

Resta un po’ appeso il problema, quasi insolubile, di una definizione dell’arte, campo d’indagine che anche la filosofia ha abbandonato, lasciando strada libera ai cultori del pensiero debole e al dominio della convenienza. Creando una confusione tra etica ed estetica che prima o poi bisognerà cercare di sciogliere. Moltiplicando nelle arti visive uno sconfinamento e una contaminazione di linguaggi che sfiora il suicidio. Tentazione che altri settori artistici, teatro, cinema, musica hanno saputo arginare anche in tempi di crisi, opponendosi dunque con maggiore efficacia alla demolizione della propria tradizione e dei propri miti fondanti. Limiti che sarebbe ingiusto rimproverare a questo libello così breve, conciso. Rischioso: pubblicarlo è una sfida aperta al sistema dell’arte, che a Simongini sta già presentando il conto. E addossa a noi che l’abbiano letto e condiviso nella sua sostanza, la responsabilità di continuare.


Accanto al titolo, Piero della Francesca, «Ritratto di Sigismondo Malatesta», Parigi, Louvre

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