Al Mav di Ercolano
Spettacolo Vesuvio
Una bella mostra curata da Rita Scartoni e Vittorio Ragone racconta "'a Muntagna" negli scatti dell'Archivio Alinari dalla metà dell'Ottocento all'utlima (speriamo) eruzione del 1944. Una rassegna di immagini che svelano come un lungo mitico sia diventato centro dell'identità napoletana
Al MAV.5 di Ercolano va in scena il Vesuvio, forse il vulcano più famoso di sempre. “Il formidabil monte”, descritto in letteratura e saggistica, cantato in poesie e canzoni, rappresentato in pittura e fotografia, ‘a muntagna, la montagna per antonomasia, è da secoli icona e simbolo di un intero territorio, flash visivo automatico quando si parla di Napoli, skyline inconfondibile esaltata anche sulle mattonelle per i turisti. Il Vesuvio, che per i napoletani è anche un imprescindibile punto di orientamento – guardandolo dalla città indica l’Est – è oggi in mostra al Museo Archeologico Virtuale di Ercolano grazie a una selezione di 60 scatti tratti dagli archivi della Fondazione Alinari.
L’esposizione, suddivisa in due sezioni, Il Vesuvio tra fotografia del Grand Tour e sperimentazione e Eruzioni. Il sonno e i risvegli, una terribile bellezza, presenta immagini che coprono l’arco di un secolo, da metà 800 al 1944, data dell’ultima eruzione, e racconta il Vesuvio e il territorio vesuviano e napoletano, documentando non solo l’evoluzione tecnica dell’arte fotografica ma anche le vicende umane, la mutazione del paesaggio, la storia di un’area che è sempre stata fortemente influenzata dalla presenza del vulcano.
Ci sono le foto delle eruzioni, ben quattro dal 1872, e della gente che attraversa le campagne per allontanarsi dal pericolo, ci sono le foto delle escursioni in portantina o in funicolare dei turisti, e poi tante immagini degli scavi archeologici, in cui il Vesuvio appare solo come uno sfondo quieto ma sempre col suo pennacchio di fumo. C’è la percezione di un territorio che a partire dall’eruzione del 79 d.C. raccontata da Plinio il Giovane, ha sempre dovuto fare i conti, anzi modellare comportamenti e aspettativa del futuro, con la presenza incombente del vulcano, un potenziale nemico da farsi amico, e da blandire con rispetto ma anche con ironia.
La sedimentazione di questo inevitabile rapporto col vulcano e lo stupore nelle descrizioni dei visitatori stranieri emergono dagli scatti selezionati per la mostra, dimostrando una volta di più che l’archivio Alinari è la memoria visiva del nostro paese, un giacimento di immagini nate come cartoline e souvenir per i viaggiatori del Grand Tour e poi diventate mezzo di diffusione all’estero del nostro patrimonio culturale, arrivando a rappresentare come nel caso del Vesuvio l’icona di un territorio.
«Non si tratta di un’operazione nostalgia – ribadisce Luigi Vicinanza, presidente della Fondazione C.I.V.E.S che gestisce il MAV – ma di un contributo alla conoscenza di un territorio straordinariamente ricco di storia, paesaggio e aree archeologiche, un’occasione per approfondire la conoscenza di questo territorio tra residenti e turisti, un altro tassello per la messa a sistema del patrimonio culturale della regione».
La ditta F.lli Alinari, nata a Firenze nel 1852, è oggi una Fondazione con la finalità principale di “promuovere una diffusa cultura della fotografia”, e il suo presidente Giorgio Van Straten, presente all’inaugurazione della mostra, ha sottolineato il carattere pubblico della Fondazione, recentemente acquisita dalla Regione Toscana: «Alinari è l’archivio fotografico più antico del mondo, al servizio della storia e della comunità, e per questo c’è un’intesa per esporre questa raccolta di scatti anche in altri siti».
A chiudere la mostra, curata da Rita Scartoni (Fondazione Alinari) e Vittorio Ragone (fondatore della web-rivista Foglieviaggi che è tra gli organizzatori della mostra), vi sono due scatti recenti, una foto Alinari del 1997 che riproduce il cratere del Vesuvio dall’alto e illuminato dal sole e una foto del 2016 di Massimo Sestini scattata dagli elicotteri della polizia di Stato, tutta blu e crepuscolare.
Il Vesuvio ha una identità che ciascun osservatore filtra attraverso la sua sensibilità e ci restituisce come in questa emozionante carrellata di foto. Ma il Vesuvio – non è retorica – è anche un fatto identitario, la condanna a uno status di precarietà perenne e pure di fertilità culturale. Lo ha spiegato bene Marcello Colasurdo, voce e tammorra dello storico Gruppo Operaio ‘E Zèzi di Pomigliano d’Arco, quando ha cantato Vesuvio con voce sanguigna al termine dell’inaugurazione: «Muntagna fatta ‘e lave ‘e ciente lengue / tu tiene mmano ‘a tte ‘sta vita meja» (Montagna fatta di lava di cento lingue/ tu hai nelle tue mani la mia vita). Tra preghiera, scongiuro e rispetto, l’accettazione della fatalità che regola la vita da queste parti si chiama Vesuvio.