A Palazzo Braschi di Roma
L’oro di Klimt
Torna in mostra Gustav Klimt ed è subito grande successo di pubblico. Perché la sua arte così datata suscita ancora passioni e attenzioni? Forse perché rappresenta un'icona assoluta di bellezza. Liberata di qualunque altro condizionamento
Esco da questa mostra romana su Klimt, in corso fino al 27 marzo a palazzo Braschi, trascinandomi appresso una doppia sensazione di piacere e disagio, che mi consente di svincolarmi nel racconto dalla neutralità della cronaca. Il disagio nasce dal distacco con cui mi scopro a guardare molte delle opere alle pareti. Un po’ come rincontrare una vecchia fiamma dei vent’anni e non capire più perché tanto fuoco si è acceso. E poi si è spento. Ho molto amato Klimt, e adesso? Il conforto, bilanciato da tempi di visita più lunghi e da qualche difficoltà di concentrazione, è di aver consumato questo spettacolo in un bagno di folla, come non mi accadeva da oltre due anni, per la cappa di distacco e rinunce delle misure anticovid. Le cifre degli organizzatori parlano di 37 mila visitatori nella prima settimana, quanto basta a incoronare l’esposizione tra gli eventi più gettonati di questa stagione di ripresa tutta da inventare. Ma che tipo di folla poi: mai visti tanti giovani, dai trenta in giù, da soli, in coppia o in bande di amici, per una volta non solo in comitive obbligate e distratte da gita scolastica. Incolonnati in attesa, e poi fermi a grappoli a guardare, leggere ogni tanto le didascalie e commentare.
Peccato non abbiano rilevato gli indici di gradimento opera per opera. Ma potrei scommettere che l’attenzione e i voti avrebbero premiato solo quelle più note, che avevano visto già riprodotte. Fenomeno che si ripete in ogni antologica di superstar. Ma dilatato dal fatto che Klimt, insieme a Van Gogh, è il maestro dell’arte moderna più riprodotto. Almeno una ventina di manifesti dei suoi capolavori sono in vendita non solo nei negozi specializzati e finiscono appesi a decorare le case e altri ambienti: nel bar gestito da due iraniani dove consumo ogni giorno il caffè, c’è di fronte un grande pannello con una panoramica fondo oro del fregio di casa Stoclet, davanti ai dettagli a grandezza naturale degli Amanti abbracciati e ai rami a ghirigori dell’Albero della vita; un centro estetico ambosessi due strade più in là esibisce in vetrina la maliarda sagoma seminuda della Giuditta. Nelle camere dei ragazzi ritrovi le stesse icone in affiche accanto ai poster dei divi del rock e del rap. Per non parlare delle immagini che circolano in Rete.
Klimt insomma ha qualcosa da raccontare a tutti. Ma soprattutto ai più giovani come succedeva oltre mezzo secolo fa quando avevo venti anni. Un’attrazione sempreverde anche oggi. Perché?
Credo di aver intuito una possibile spiegazione, fermandomi a lungo davanti alla popolarissima tela di Giuditta, immagine da copertina del catalogo e biglietto da visita di questa mostra. Ma trascinandomi appresso il groppo di dubbi e il sapore agrodolce delle sensazioni ricavate nelle sale precedenti.
È un quadro del 1901. Presentato in una della mostre della Secessione viennese, movimento fondato da Klimt e dilagato con diverse varianti in tutte le capitali d’Europa, motivo conduttore e filone d’indagine di questa rivisitazione che, come spiega il titolo, Klimt. La Secessione e l’Italia, si propone di documentare non solo la carriera dell’autore, ma gli artisti che gli si sono affiancati e i suoi rapporti con il nostro paese, meta di ripetuti viaggi. È un’opera fondamentale, perché segna come una pietra miliare l’inizio di un decennio di svolta anche tecnica della sua produzione matura, ribattezzata l’epoca dorata, per via di quelle foglie d’oro mescolate a interventi ad olio che impreziosiscono il mosaico di motivi floreali e decorativi, con cui Klimt comincia a incorniciare temi allegorici e figure femminili.
Un’aura d’astrazione e mistero che il pittore ha probabilmente rubato – spiegano i curatori in catalogo – a una folgorazione avvenuta nel corso delle tante discese nel nostro paese, che in genere nei suoi diari registra con una certa freddezza: l’incanto per le soluzioni formali dei mosaici bizantini che ammira a Ravenna e poi a Venezia. E soprattutto per gli sfondi dorati che incastonano Vergine e santi, dando evidenza metafisica alla sobrietà delle linee.
Affinità che stuzzicano la sua sensibilità di decoratore: il padre era un abile incisore e il suo inizio carriera è costellato di progettazioni d’arredo e d’abbellimento di teatri e luoghi di ritrovo pubblici e privati della Vienna del bel mondo di allora. Prove d’esordio di abile mano ma evidente maniera, di cui la mostra di palazzo Braschi registra un ricco materiale di documentazione visiva. Quanto basta per spalancargli le porte delle famiglie e dei salotti che contano. E garantirgli una pioggia di commesse di importanti e ricchi collezionisti. Una gara a farsi immortalare da quel pittore così dotato, che poco a poco Klimt riesce a indirizzare verso una sua vocazione speciale che e asseconda il suo istinto rapace di seduttore: il ritratto femminile. Le donne diventeranno il leit motiv esclusivo della sua produzione.
Una sfida pittorica che tenta varie soluzioni lontane dalla tradizione accademica, come sta avvenendo in tutta Europa sulla scia di una rivoluzione che, partita dalla Parigi impressionista e postimpressionista, innesca il fenomeno di rivolta delle Secessioni. Pennellate veloci, contrasti cromatici, ombreggiature che sfumano i contorni dei volti. Trucchi di sceneggiatura e di dettaglio che una dosata scelta di tele esemplari evidenzia con efficacia qui in mostra: può essere la nuvola di bianco della camicia della Ragazza nel verde (1898), l’alternarsi di rosso e bianco da cui emergono un paio d’occhi sognanti e il sorriso enigmatico della Signora con mantello e cappello (1897), la macchia scura attraversata da radi bagliori di luce che avvolge e allontana la Signora davanti al camino (1897).
Poi esplode la “febbre dell’oro” e la voglia di sperimentazione di Klimt trova la sua strada maestra. Suggellata dallo scandalo e dal successo, lontana dal perbenismo della morale corrente, ma in sintonia con le oscillazioni e le voglie di trasgressione di quella alta borghesia della Vienna fine impero che è l’incubatrice delle teorie dell’Inconscio di Freud.
Darà scandalo anche la sua Gertrude che perde il suo mitico alone d’eroina e sembra ridestarsi come una mantide da un incubo di perversione, in mano la testa tagliata di Oloferne relegata ai margini della tela, le guance arrossate dal trucco, le palpebre e le labbra socchiuse come fosse ancora sospesa sulla voragine di un esperienza di piacere e d’orrore, il corpo nudo e l’areola del seno dipinti come un lenzuolo stropicciato dove si è consumato in dissolvenza un rito d’amore carnale e di morte. Dietro, un drappo di ornamenti dorati, un intreccio di rami d’albero e scaglie da serpente, prolungato in un collare che abbellisce e le imprigiona il collo. Delirio di segni e scintille di luce che moltiplica come un controcanto straniante l’effetto.
A quell’icona, che diventerà un saccheggiato prototipo di donna fatale, Klimt consegna anche una sua maliziosa rivendicazione da maschio alfa, perché la modella che mette in posa e ritrae come moglie di Gustav Mahler, il più grande compositore dell’epoca, è una sua vecchia conquista: Alma Schindler, ( 1879-1964) figlia di un ‘amico pittore che incontrò e sedusse ancora minorenne. Mediocre musicista, Alma si trasformerà in in una mitica figura di musa ombra capricciosa e vorace che attraverserà quel tragico scorcio di primo Novecento facendo strage di cuori, e collezione di rapporti tumultuosi nella mitteleuropa, mariti e amanti famosi, quanto e più di lui: l’architetto e fondatore del Bahaus Martin Gropius, lo scrittore praghese ed ebreo Franz Werfel, il pittore espressionista Oskar Kokoshka.
Per un decennio Klimt continuerà a intingere nell’oro le sue opere. Incurante di provocare la censura dei perbenisti che per l’esuberanza dei corpi senza veli bocceranno e condanneranno alla clandestinità le sue smaglianti allegorie per tre discipline universitarie di Vienna, distrutte ma recuperate con una ricerca di tecnologia virtuale, esibita in un siparietto di palazzo Braschi.
Rifiutando compromessi come quello che aveva subito con il manifesto della prima mostra della Secessione: un supplizio di Sisifo qui in bacheca in due versioni, la prima coi genitali al vento, la seconda con l’aggiunta di un ramo che li nasconde. Ma scivolando in un brand, una griffe di maniera. A tutte le donne dei suoi ritratti ormai impone lo stesso schema iconografico: il volto e il busto che sbucano da una sorta di cappotto dissonante di decori e aurei bagliori, a volte dissolti nello sfondo, altri cuciti qui e là a tassello.
Ne dà esempio un quadro avviato nel 1906 e rimasto incompiuto nel suo studio, il viso già dipinto, le appliques delle decorazioni abbozzate in attesa di essere aggiunte al vestito. Un vezzo pittorico che suscita oltre all’orgoglio delle sue altolocate committenti ammirazione e stupore. Le stesse emozioni che dilata ad ampia scala nei suoi cicli d’affreschi più riprodotti. Come nel gigantesco fregio dedicato a Beethoven del 1902, riproposto qui in una copia ricalcata dall’originale distaccato dai muri e custodito a Vienna. Un gran colpo di teatro per i visitatori romani, che ammalia e intimidisce come un reperto archeologico quasi indecifrabile, per via di quella rivisitazione della Nona Sinfonia modellata sulla scia delle teorie di Wagner, e impregnata di esoterismo, paradisi e inferni da Superuomo, rarefatta ed estenuata eleganza di linee e concitati assemblaggi di sublime e di oscuro. Un capolavoro che oggi mi appare datato, testimonianza di un epoca e di una visione aristocratica al tramonto che il crollo dell’impero asburgico e i massacri di due guerre mondiali hanno spazzato via.
Ma la cultura di massa ha sottratto al declino, isolando e moltiplicando in migliaia di immagini quelle icone da cimelio per adattarle al consumo della società delle merci in cui viviamo. Il talento e il genio di Klimt sottratti all’oblio e consegnati come idoli contemporanei, graditi al palato dei più giovani, proprio facendo leva sulla loro inattualità. Impadronendosene come schegge di un sogno, di un amore impossibile in cui trovare rifugio anche a frustrazioni e insoddisfazioni.
Ecco, mi sembra questa la chiave più adatta a rileggere questa mostra che incorona Klimt come uno degli ultimi maestri del Novecento, in grado di interpretare un’idea dell’arte come tempio di una bellezza assoluta che nelle nostre fantasie adolescenti scardina i muri del tempo. In tutte le accezioni in cui Klimt le ha rese visibili.
La grazia pervasiva delle forme e delle decorazioni, l’irrompere perturbante del piacere dei corpi, la voglia di perdersi e ritrovarsi nel qui e ora, persino nello spossessamento dei giochi più crudeli, l’irrilevanza delle linee di confine tra i sessi, il bisogno di mascherarsi, l’idea della morte sempre lì in agguato. Sapere che sono miraggi non serve. Non serve rendersi conto che l’arte ha abbattuto da tempo i confini tra brutto e bello. Edificato altre libertà e altre prigioni. La grande bellezza è una fede. E Klimt ne resta un profeta impareggiabile. Sfuggente come tutti i profeti.
Attenti dunque a non cercarlo solo dove già lo conosciamo. Sarebbe un’eresia venerarlo solo come una statua dorata. La mostra di Palazzo Braschi ci offre, sia pure in modo imperfetto, altre angolazioni per avvicinarlo. Ecco Il coro degli autori che in patria lo hanno affiancato. Da non perdere la sala riservata ai designer e ai ceramisti della Secessione viennese: una strabiliante passerella di vasi e gioielli, intarsi di linee e iridescenze abbaglianti che sicuramente hanno ispirato la sua pittura.
Più debole al contrario il capitolo che documenta la sua influenza sui colleghi della Secessione italiana. Come è povero il sipario riservato ai paesaggi, che pure segnano un’altra svolta, l’ultima della sua produzione, un suo modo di interrogarsi sul mistero della natura cancellando la presenza della figura umana.
E infine il campionario dei suoi studi e disegni. Molti mai visti. Sono l’attestato più autentico della bellezza che Klimt inseguiva, senza vincoli di censura o di gradimento. In mostra appaiono in varie bacheche, fragili e sbiaditi come fantasmi.