Valentina Fortichiari
“Tu credi che io dorma” di Luca Doninelli

L’infinito in una mano

«Vede ciò che altri non vedono… descrive il cammino dei desideri e di tutto ciò che ci tocca il cuore». Così nel suo nuovo romanzo in cinque movimenti, c’è l’autore «in stato di grazia» e c’è il lettore che si immerge non potendo più staccarsi dalle storie narrate

Non vorrei raccontare il libro, ma dire che cosa c’è dentro e perché mi sono emozionata pagina dopo pagina. Tu credi che io dorma (La nave di Teseo, 142 pagine, 17 euro) ha una copertina bellissima in bianco e nero: un bambino sul treno, lo sguardo sulle rotaie ovvero sul flusso del tempo, forse il flusso della sua stessa vita. I bambini popolano queste storie, bambini che hanno organi misteriosi di presagio e di corrispondenze. E insieme ai bambini e a un’umanità singolare, ci sono vecchi che camminano camminano camminano, e che furono bambini, o bambini che erano vecchi ancora prima di saperlo.

«È un romanzo», mi ha detto subito Luca Doninelli quando io, letto il primo capitolo, l’ho chiamato racconto. Le cinque parti di questo romanzo sono propriamente racconti fortemente interconnessi, quadri in movimento, pièce teatrali o sceneggiature cinematografiche. Meglio ancora sono cinque movimenti di una sinfonia che racchiude esistenze significative con un senso dinamico del narrare: flash back nel passato, nei ricordi, presagi del futuro e la capacità di bloccare l’acme, la suspence, il racconto di un fatto importante, con una digressione che crea aspettativa nel lettore.

In questo romanzo c’è tutto, tutto quello che Doninelli ha guardato, pensato, scritto, c’è l’intera complessa gamma dei suoi stili, generi, vocaboli. È un romanzo che attraversa le epoche: le epoche del mondo e le sue stesse epoche.

Mi sono venute in mente due citazioni a proposito del rapporto che lega un autore al lettore. La prima è di Somerset Maughan, il quale scrisse di Cechov: «Tu non leggi un racconto, sei dentro quello che accade, hai l’impressione di essere un suo collaboratore». La seconda è di Lawrence Sterne: «Il più sincero omaggio che possiate rendere all’intelligenza del lettore è di spartire il lavoro in due amichevolmente, e lasciare ch’egli inventi la sua parte come voi la vostra. Io mi adopero come posso per tenere la loro fantasia tanto occupata quanto la mia». Succede questo con il libro di Doninelli (nella foto): il lettore è chiamato in causa a partecipare, a lavorare. L’Autore lo sa “tenere”: persino se fosse seduto davanti a un paesaggio irresistibile (e Doninelli sa descrivere i paesaggi in modo eccellente) non distoglierebbe mai l’attenzione dalla pagina. Il lettore progressivamente comprende i legami, i richiami, i nessi, le coincidenze mano a mano che procede nella lettura dove immagini personaggi tempi narrativi dialoghi hanno la massima densità di contenuti e di concentrazione visiva.

Questa storia, queste storie parlano della vita. Già, troppo facile si potrebbe dire. Tutto è vita, cos’è mai vivere? si chiede Doninelli. «Tutto ha un senso, un significato, uno scopo» scrisse Padre Afanasij, citato in exergo. Tutto parla di tutto, niente è banale in sé, non esiste il banale. Come bene ha detto Cesare Zavattini a proposito dei suoi film neorealisti: «Il banale non esiste. Prendete un fatto, uno qualsiasi nella vita di un uomo, e assegnate a esso, minuto per minuto, importanza storica». È questo che succede qui.

In realtà la letteratura spesso si permette il lusso di giocare. Gioca con la verità o con il mistero per donare al mondo ciò che al mondo manca quasi del tutto: un senso. Luca Doninelli con curiosità, con passione, gioca a ‘spiazzare’ il lettore, ascolta i demoni, si sporca le mani, vede coi suoi personaggi ciò che è inaudito, guarda nel baratro della vita (Francis Scott Fitzgerald: «Spingi la sedia sull’orlo del precipizio e ti racconterò una storia»: è proprio questo che fa Doninelli). Lo scrittore si commuove, si fa del male, è visionario. Il visionario – ce lo ha insegnato Cristina Campo (Gli imperdonabili) – lavora su una surrealtà, su una vertigine di mistero, di destini, di simboli, con la parola esatta, «con lieve cuore, con lievi mani» (è un verso di von Hoffmansthal). Il suo narrare è trama orditura tela di attimi inafferrabili, come la poesia si fonda su memoria, paesaggio, sogni, morte e eternità.

La seconda cosa importante che mi ha detto Doninelli è «ho scritto in stato di grazia». Sì, uno scrittore lo può sentire bene quando è ispirato, quando vede ciò che altri non vedono, quando sa trovare il nesso tra il mondo delle parole e il mondo delle cose, quando descrive il cammino dei desideri e di tutto ciò che ci tocca il cuore. Quando racconta il sentimento dell’incontro con il destino, con la morte, con la musica, con l’amore la carne e il piacere dei corpi, con il sesso delicato e il sesso violento, con il male e il suo contrario, con il senso della magia che sta oltre il visibile l’apparenza la realtà. I suoi personaggi sono quasi sempre di passaggio, in viaggio, in bilico tra un al di qua e un al di là del tempo. Come in Dostoevskij sono lasciati al libero arbitrio dell’imprevedibilità. I dialoghi a volte sono vaghi, reticenti. Doninelli sceglie il tempo eterno dei bambini, l’estensione del tempo come nell’infanzia, sceglie la simpatia umana e il suo contrario, sceglie l’occhio dello spirito, racconta con l’anima il vertice della spiritualità e il vertice del male. «Tiene l’infinito nel palmo di una mano» (è un verso di William Blake). Solo, con la sua immaginazione da saltimbanco, tocca le verità più profonde.

È questo che voglio, è questo che vogliamo, che cerchiamo nella letteratura? Si, voglio sognare una miriade di vite possibili.

Voglio essere il piccolo Jeremy, di 8 anni, in viaggio sul treno Venezia Vienna. Jeremy Spencer con la sua vita straordinaria. Il padre scende per recuperare l’ultima valigia, il treno si mette in moto, Jeremy lo cerca. Che cosa c’è di più intollerabilmente violento che essere sconosciuto ai propri genitori? Vederli, credere di scorgerli, il padre che bacia la mano di sua madre, ma non è sua madre, non è suo padre. Jeremy percorre gli scompartimenti perché ha bisogno di stare a contatto con un essere umano, incontra persone, ascolta storie. E il finale contiene una similitudine (ce ne sono tante nel libro) bellissima, con un lieve tocco ironico: «Permaneva in quello spazio il profumo che la mamma indossava al momento del loro felice incontro, il suo profumo di sempre, quello che lei si metteva tutte le volte che stava per uscire di casa e che lui andava sempre di nascosto ad annusare, aprendo la boccetta magica e subito richiudendola e scappando via, come il cucciolo di leone o di cervo o di cinghiale quando annusa l’odore della sua mamma e lei s’infastidisce a causa dell’irritazione cutanea prodotta, la cosa è inevitabile, dalla maternità» (p 15).

E voglio essere Matt che vive con il fratello Don in una baracca ai margini della prateria nel Montana (i luoghi nel libro sono tanti e disparati): è un assassino, eppure coltivava il sogno di diventare medico musicista e scrittore. E scrittore lo è nella testa, per Mary che Matt ha abbandonato insieme a suo figlio. Tu credi che io dorma (titolo felice) dice al fratello e gli racconta una storia che esiste solo nella sua testa. Matt continua a ritoccare il suo romanzo mentale in attesa della polizia. Il finale è potente come una stilettata dritta nel cuore.

È magnifico perdersi, smarrirsi, errabondare in questo libro, quasi «un giacimento di vite ritrovate» (Bruno Quaranta, Una città per Proust, Hacca Edizioni). In fondo non ci resta che leggere, in questa civiltà della perdita, perché la letteratura ci salva la vita.

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