Raoul Precht
Periscopio (globale)

Povero Dostoevskij!

In vista del secondo centenario della nascita di Fëdor Dostoevskij, vale la pena rileggere il suo primo romanzo, "Povera gente", un'opera che introduce tutti i grandi temi dello scrittore russo. Fino a trasformarlo quasi in un preludio filosofico e stilistico

Di fronte a un bicentenario così importante come quello della nascita di Fëdor Dostoevskij, il prossimo 11 novembre, chi voglia ricordarne sia pure sommariamente l’opera ha due sole strade da percorrere: inquadrarne storicamente la figura e tracciare una sintesi almeno dei maggiori romanzi (strada impraticabile, visto lo spazio a disposizione) o limitarsi a un solo aspetto, e magari a una sola opera, di uno scrittore la cui centralità nell’Ottocento (non solo russo) non è mai stata in dubbio. Proverò quindi, scegliendo questo secondo percorso, a raccontare del mio incontro con il giovane Dostoevskij.

Prendiamo dunque il caso di un diciassettenne che, preso dal sacro fuoco dell’amore incrociato per la letteratura e il teatro, si proponga, con qualche improbabile alleato o compagno di strada, di trasformare un romanzo che l’ha molto colpito in una rappresentazione teatrale. Esperimento oltre tutto, per quel che ne sa, mai tentato prima (siamo poco oltre la metà degli anni Settanta) con l’opera in questione. Il ragazzo, volenteroso ma confuso, è ovviamente alle prime armi, ma altrettanto alle prime armi era stato, circa centoventi anni prima, l’autore del romanzo, di questa “opera prima” che si sarebbe chiamata Povera gente e con cui tale Dostoevskij avrebbe fatto un’entrata roboante nel milieu artistico di Pietroburgo. Diciassette anni, dunque, l’adattatore (che poi avrebbe presto abbandonato l’impresa, dedicandosi ad altro), e appena ventiquattro l’autore, al momento della stesura del romanzo completamente sconosciuto.

Povera gente è quindi un romanzo d’esordio, e come tutti i romanzi d’esordio sconta qualche difetto nello sviluppo, qualche ingenuità nella costruzione dei personaggi, qualche piccola pecca stilistica; rivela anche con molta chiarezza le sue fonti e i testi di riferimento, primo fra tutti il Cappotto di Gogol’, da una manica del quale lo stesso Dostoevskij avrebbe fatto in seguito discendere, con piena cognizione di causa, tutta la letteratura russa significativa dell’Ottocento (e almeno in parte, aggiungeremmo noi oggi col senno del poi, anche del Novecento). La figura dell’impiegato maltrattato dai superiori, che svolge mansioni astruse e incomprensibili e resta imprigionato in una miseria che può portare all’alienazione e alla follia, è insomma il modello al quale Dostoevskij attinge a piene mani. Le differenze rispetto al Cappotto, tuttavia, sono altrettanto importanti delle similitudini: e se non arriviamo certo a riscontrare una contrapposizione piena a un modello così recente – Il cappotto era uscito nel 1842, Povera gente è del 1845-46 –, dobbiamo però riconoscere che Dostoevskij se ne distacca in molti punti importanti.

Tanto per cominciare, il protagonista del romanzo, l’impiegatuccio quarantasettenne (e dunque all’epoca già attempato) Makar Alekseevič Devuškin, non si limita a copiare delle lettere come il collega gogoliano Akakij Akakievič Bašmačkin, ma le compone con molta cura e passione, destinandole a una donna di cui si è innamorato (invaghimento che in sostanza sostituisce quello di Akakij Akakievič per il cappotto). La descrizione dei luoghi e delle condizioni di vita tanto di Makar quanto della giovane amata, Varvara Alekseevna Dobroselova (o Varen’ka), una cugina di secondo grado che vive in un appartamento dirimpetto al suo e quanto il suo fatiscente, nonché le quinte cittadine davanti alle quali si sviluppa la loro abortita vicenda sentimentale, fanno già presagire una preoccupazione sociale che si va estendendo a macchia d’olio e che contrassegnerà tutta la letteratura successiva. Non è probabilmente un caso che Dostoevskij avesse appena finito di tradurre in russo Eugénie Grandet. Se può essere insomma visto anche come il capostipite, o uno dei capostipiti, del romanzo sociale, come rilevato all’epoca dall’influente critico Belinskij, lo si deve insomma a Povera gente e alla storia, triste, comica e disperata come la vita, che l’autore vi racconta. E si può di certo partire dalla famosa definizione di Michail Bachtin che in uno dei suoi testi più famosi, Dostoevskij. Poetica e stilistica, ricorda come tanto in Povera gente quanto nel successivo Sosia Dostoevskij ingaggi un “nascosto dialogo, sul tema di se stesso, con l’altro, con l’estraneo”. In Povera gente, del resto, il racconto gogoliano è citato direttamente e letto da Makar che se ne adonta e offende, riconoscendo la grandezza dello scrittore ma dispiacendosi che la sua vita abbia potuto essere colta e congelata con tanta precisione e ferocia. Quello che in Gogol’ era un personaggio prende qui in mano le redini della narrazione: si passa dalla descrizione della coscienza di una figura muta, vista dall’esterno, all’eruzione dell’autocoscienza di un protagonista parlante, visto dall’interno. Scrive ancora Bachtin: “…nella prima opera di Dostoevskij è raffigurata una specie di piccola rivolta del personaggio contro l’atteggiamento distante, esteriorizzante e definitorio della letteratura verso il ‘piccolo uomo’. (…) Makar Devuškin legge Il cappotto di Gogol’, e la lettura è per lui una profonda offesa personale. Egli si riconosce in Akakij Akakievič e si indigna perché hanno spiato la sua miseria, hanno analizzato e descritto tutta la sua vita, l’hanno definito compiutamente una volta per sempre e non gli hanno lasciato nessuna prospettiva.”

Questo primo romanzo di Dostoevskij ebbe comunque bisogno di una levatrice d’eccezione. Ai tempi in cui la critica contava ancora e aveva il potere di orientare e influenzare, era praticamente impensabile che si potesse fare a meno, nel caso di un esordiente assoluto, di un padrino importante. Tale funzione fu ricoperta nel caso che ci interessa qui da uno dei più famosi critici letterari dell’epoca, il già menzionato Vissarion Grigor’evič Belinskij, fondatore di una scuola narrativa di stampo realista. Alla richiesta di Nikolaj Alekseevič Nekrasov, scrittore e amico di un amico di Dostoevskij, di leggere il libro, pare che Belinskij abbia tentato inizialmente di sottrarsi, prendendo in giro il povero Nekrasov, reo, secondo lui, di “veder crescere ovunque i Gogol’ come i funghi”. (Sulla popolarità di Gogol’, soprattutto fra i giovani intellettuali, ci sarebbe molto da dire: lo stesso Dostoevskij racconterà trent’anni dopo, nel Diario di uno scrittore, come capitasse sovente che i giovani si riunissero e trascorressero anche notti intere a leggere Le anime morte ad alta voce. E lo stesso succederà a Nekrasov e al comune amico Grigorovič appunto con Povera gente.) Ma torniamo a Belinskij: il quale, passata una notte insonne a divorare il libro, finisce per condividere il giudizio di Nekrasov, che aveva già annunciato a gran voce urbi et orbi appunto la nascita di un nuovo Gogol’. Davanti al romanzo il severo critico, del quale Dostoevskij temeva sommamente il giudizio, scopre di essere completamente disarmato, al punto da voler incontrare subito quel sorprendente giovanotto e da accoglierlo con euforiche manifestazioni di simpatia, riconoscendogli un’estrema finezza nella descrizione dei caratteri e soprattutto la dote di saper arrivare all’essenza delle cose, a quella verità poetica che al recensore è preclusa, ma a cui il grande creatore – se lo è, e nel caso di Dostoevskij il critico ne era assolutamente convinto – perviene, almeno all’apparenza, senza alcuno sforzo.

Va detto che i successivi rapporti fra i due non saranno facili, e di certo molto meno cordiali: come talora accade, il critico voleva indirizzare lo scrittore lungo un percorso ben preciso – quello appunto del romanzo sociale – che quest’ultimo vedeva invece come limitante, e già all’uscita del Sosia, appena un anno dopo, il disappunto e la delusione di Belinskij saranno patenti e si concretizzeranno in una serie di attacchi da parte sua e della sua scuola ai danni di un giovane scrittore che non si lasciava incasellare facilmente e che avrebbe poi preso tutt’altra strada.

Su Povera gente Belinskij aveva tuttavia perfettamente ragione. Il romanzo è rimarchevole anche sotto il profilo stilistico e strutturale: si tratta infatti di un romanzo epistolare – genere peraltro già molto diffuso, e da secoli, in tutta la letteratura europea – le cui voci principali sono rappresentate dai due personaggi che abbiamo già evocato, un modesto scrivano e la lontana parente di cui finisce per invaghirsi, vagheggiando una vita in comune che resterà del tutto illusoria. Approdata a Pietroburgo dove rimane orfana di entrambi i genitori e dunque sola al mondo, “selvatica”, come si autodefinisce, e indolente, ma soprattutto annientata da una miseria a cui vuole sottrarsi a tutti i costi, alla fine del romanzo la giovane Varvara sceglierà infatti di accompagnarsi all’uomo che l’ha offesa, Bykov, preferendolo al nostro scrivano, cugino galante ma anche un po’ ridicolo, che la ricopre (indebitandosi) di regali inutili e di scarso gusto. Al di là della differenza d’età e (forse) di sensibilità, la ragione è semplice: Bykov, almeno, è ricco e in grado di garantirle una vita all’apparenza agiata o meno squallida. Sullo sfondo, rafforzata anche da alcuni comprimari “umiliati e offesi” e da figure di contorno assai ben delineate, c’è una delle più impietose descrizioni che siano mai state fatte di Pietroburgo, città che già Gogol’ aveva esecrato e da cui era fuggito dopo l’incomprensione riservata dal pubblico al suo Revisore. Città opulenta, creata con grande sfarzo ma artificialmente, costruita su una palude da operai ridotti alla condizione di schiavi, metropoli che si sviluppa selvaggiamente a detrimento di un sottoproletariato misero e tartassato, con terribili malattie e spesso morti premature che s’insinuano in tutte le famiglie, negli anni Quaranta Pietroburgo è già l’epitome della disperazione collettiva e dell’assurda e pervasiva burocrazia statale che finiranno per portare, sessant’anni dopo, ai primi conati rivoluzionari.

Ma Povera gente – che, ricordiamolo ancora, precede i grandi capolavori e le terribili vicissitudini biografiche del Nostro, fra cui la mancata fucilazione – è in filigrana anche un libro sulla forza e sull’inganno della letteratura. È grazie ad essa, infatti, e alle illusioni che sprigiona, se Makar, aspirante narratore proprio come il giovane e sconosciuto Dostoevskij, può affrontare e sopportare le umiliazioni quotidiane, ed è dietro di essa che nelle sue fantasticherie nasconde la realtà, e forse la sua vera anima. Nasce infatti il dubbio, sapientemente orchestrato da Dostoevskij, che per Makar anche l’infatuazione per Varvara sia in fondo strumentale e subordinata all’esigenza di maturare, attraverso le lettere con cui la tempesta, uno stile elevato, che gli consenta di scrivere finalmente un’opera degna di questo nome e di entrare nel vagheggiato universo dei grandi scrittori. E che la totale solitudine in cui la partenza di Varvara lo fa piombare sia anzitutto il riflesso della pochezza e della vacuità dell’animo suo e di quanti lo circondano. Animi, appunto, di povera gente, di gente che alla povertà materiale e spirituale è irreversibilmente condannata.

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