Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Incubi d’amore

Un amore di provincia travolgente (e quasi virtuale) per Pierre Michon; un amore di famiglia (tradita) per Ann Patchett; un amore surreale per i polli (e altri volatili) per Rubem Alves. Tre modi diversi di raccontare le passioni

La preda. Pensieri di corteggiamento, a volte cortesi a volte brutali, per la tabaccaia Yvonne. Un’ossessione fatta di carne, sorrisi, timidi svelamenti, sogni destinati a rimanere tali, ma enfiati dalla nebbia della Valacchia, dove piove molto. Senza dubbio pagine di forte intensità amorosa, che s’abbattono sul lettore come rami che s’inarcano, che sfiorano chi cammina come la volpe, col suo malefico destino. Questa è la prosa, sovente barocca, di Pierre Michon (La grande Beune, Adelphi, 76 pagine, 11 Euro). Un giovane insegnante arriva a Castelnau e i suoi occhi sono immediatamente rapiti dalla «crudele eleganza» della tabaccaia, dal profumo dolce e selvatico; gran camminatrice tra boschi, dirupi, sponde del fiume. È lei la preda, dalla quale l’io narrante attende un gesto, un movimento delle labbra, un invito sia pure ambiguo. Siamo nella terra dei briganti valacchi col berretto in capo e le cerate nere come l’inchiostro. Briganti con «i loro oscuri doveri di traghettatori, di dormienti». Si respira l’aria purgatoriale di Dante.

Lontano dai bambini che «si adoperano per diventare grandi», il giovane maestro ammira «quel volto regale che era nudo come un ventre». Donna alta con tacchi sempre alti, di carnagione bianca, sui 30/40 anni. «Tutto in lei era conoscenza del piacere… e questo piacere era vivo come una ferita». La sua gonna ampia era qualcosa di più della stoffa «che accarezza le cosce». E il giovane osa pensare che un giorno Yvonne possa appartenere interamente a lui: «Ero in quell’età in cui crediamo di non avere niente da dare, niente per ricambiare simili ricchezze». Libro sontuosamente scarno quello di Michou, che doveva essere la prima parte di un romanzo lungo.

La casa. Il rapporto tra due fratelli può essere molto intricato, soprattutto se non riescono a separarsi. Tutto avviene attorno e dentro una casa, dove Maeve e Danny hanno trascorso l’infanzia. La casa, «costruita dal nulla» nei sobborghi poveri di Philadelphia, dà il nome al romanzo di Ann Patchett (Ponte alle grazie editore, 353 pagine, 18 Euro). L’autrice di Casa olandese si è già misurata con l’arduo rapporto tra genitori e figli (vedi: Stupori) e sa, con maestria entrare nei contorti meandri dei rapporti familiari. L’edificio, sontuoso, che «accoglie tanta luce ma anche tanti tormenti». Elna, la moglie del proprietario, Cyril, si sente perennemente in colpa, anche con i servitori. Dopo un esaurimento nervoso, abbandona il consorte e parte per l’India, con l’intenzione di lavorare al fianco di suor Madre di Calcutta. Il proprietario si butta negli affari e corteggia donne. La prima donna a entrare a Casa Olandese è Andrea. All’inizio folgorata dalla bellezza della villa, a poco a poco se ne impossessa. Viene a viverci con le due figlie. Quando il marito muore per infarto, riesce a sbarazzarsi sia di Maeve sia di Danny. Passano cinquant’anni. A rievocare il passato che, come tutti sanno, può essere più felice, anzi più folgorante, del presente. Le memorie comuni tuttavia impediscono loro, dentro e davanti alla casa perduta, di immaginare e costruire un futuro. La Patchett scrive: «Abbiamo avuto un infanzia tremenda, è orribile essere ricchi e poi non esserlo più, ma adesso è ora di crescere?». Gli avvenimenti che seguono (che comprendono un lutto), mai emozionalmente lineari, inducono Danny a realizzare di «non essere mai stato capace di costruire nulla». Tenta di ricostruire e “aggiuntare” la propria esistenza, ma si rende conto che i suoi sforzi non sono altro che «un disperato tentativo di narrare la storia della sorella». L’autrice infila una sonda sottile in quel groviglio che può essere la vita familiare. E lo fa molto bene.

Le due strade. Contrariamente a quanto il lettore comune di solito fa, è consigliabile leggere la postfazione (di Paolo Vittoria). Il libro in questione (Pinocchio alla rovescia, del portoghese Rubem Alves) è apparentemente semplice (Marietti 1820 editore, 48 pagine, 7 Euro). Infarcito di sogni, spesso contradditori, il bambino protagonista, Felipe, è uno scolaro diligente: impara quel che c’è da imparare, ma si rende conto che prima i maestri e poi i professori (quelli che lo porteranno alla laurea) non rispondono realmente alle sue domande. È affascinato, se non ossessionato, dai volatili. In ospedale una dottoressa intuisce la verità vera del paziente: «Il tuo cuore è un nido di uccelli. Ma gli uccelli che abitano nel tuo cuore non cantano nelle ore giuste». Seguendo i tradizionali canali educativi diventa esperto di polli: frase che sarà impressa nel suo biglietto da visita, e ci rimarrà quando i suoi capelli diventeranno grigi. Quella di Rubem Alves è un racconto surreale, dove è facile perdersi. Il labirinto è onirico. Torniamo alla postfazione e soffermiamoci su due frasi. «Felipe smarrisce l’incanto delle sue domande»; «I sogni di Felipe sono la metafora del perdersi nel labirinto della coscienza». Parole che richiamano, sia pure indirettamente alla psicoanalisi.

Facebooktwitterlinkedin