Leopoldo Carlesimo
Una inedita storia metropolitana

Il finto zoppo

«Era un tardo pomeriggio invernale, già buio. Dopo un po’ che m’aggiravo per quello strano quartiere, trovai finalmente il portone giusto e stavo per entrare, quando dall’altra parte della strada, chi ti vedo? Lo zoppino»

Ha un’aria talmente umile, laggiù sul lastrico del marciapiede. I lineamenti gracili e minuti e quella spalla tanto più bassa dell’altra. Il dorso è curvo, la pelle di un colorito olivastro. I capelli – folti e neri – sempre spettinati. Non è di qui, forse rumeno o albanese. Parla con accento straniero un italiano scarno e corretto. Le poche parole che gli ho sentito pronunciare esprimono sempre sentimenti buoni. “Grazie, signore.” “Dio la benedica, signora”. E’ educato, gentile. Avrà sì e no vent’anni.

Se nel fargli l’elemosina l’osservi più da vicino, la pelle del viso, delle mani – le sue parti nude – ti pare lustra e tirata, quasi trasparente, come se non vi fosse carne sotto. Tiene sempre il capo un po’ inclinato, guardandoti dal basso in alto – perché è piccolo di statura – e allunga il collo obliquamente come un gallinaceo.

Lo zoppino che batte il tratto di Via Merulana tra Largo Sant’Alfonso e Via dello Statuto – marciapiede est – è ormai quasi un landmark del rione, una sua icona mobile. Quel corpo strano, tutto scolpito dalla deformità, cattura gli occhi dei passanti. In molti rallentano il passo, si fermano a guardarlo, finiscono col mettergli una moneta in mano. Anche i commercianti di questo tratto di strada l’hanno preso a benvolere. Il pizzettaro ogni tanto gli allunga un avanzo di teglia, la cameriera del bar gli offre un po’ di latte in un bicchiere di carta. Lui trotterella avvinto alla stampella per quaranta, cinquanta metri, non di più. Come un cucciolo sfortunato adottato dal quartiere, che mostra nei suoi confronti insospettate riserve di bontà.

La domenica – giorno migliore per le elemosine – i fedeli che sciamano giù dalla breve scalinata di Sant’Alfonso se l’aspettano, di trovarlo lì. Lo cercano con gli occhi, cambiano apposta strada per passargli accanto, nel fargli la carità qualche pia donna ha una parola per lui. E’ un attrattore, tanto di sguardi quanto di sentimenti, se mancasse ne avvertirebbero l’assenza. Lui non li delude mai.

Sicché, in una gelida domenica di tramontana, anch’io mi conformo al rito e andando a comprare il giornale all’edicola di Largo Leopardi traverso apposta la Merulana dinanzi San Vito e passato sul marciapiede opposto ficco nel berretto teso qualche spicciolo.

* * *

Non molto tempo fa mi trovavo in una zona sconosciuta della città. Dietro i palazzoni dell’ultimo tratto di Tuscolana, poco prima del raccordo, ero andato a sbrigare una pratica per un tizio che m’era debitore di un piccolo indennizzo. Lasciata la via principale, m’inoltrai in motorino per un dedalo di viuzze curve e scoscese, fermandomi di quando in quando per consultare il navigatore. Oltre spiazzi ancora vagamente inurbati, immondezzai e sfasci di macchine, arrivai ad una piazza quadrata, al centro di un blocco di edifici nuovissimi.

In assenza di numeri civici, perlustrai i diversi portoni e lessi le targhe esposte. I palazzi ospitavano al pianterreno negozietti d’abbigliamento casual, un supermercato, bottegucce di street food e un’enorme sala giochi – videogame, slot machine, biliardi, totalizzatori di scommesse – davanti alla quale sostava un folto gruppo di giovani. Un paio di altoparlanti affissi sopra l’insegna diffondevano musica dal timbro vagamente orientale e in mezzo a una selva di motorini parcheggiati a casaccio ragazzi e ragazze bevevano birra, mangiavano hamburger e kebab, socializzavano. Una sorta d’isola urbana distaccata, un minuscolo satellite della città, affollato soprattutto di giovani.

Era un tardo pomeriggio invernale, già buio. Dopo un po’ che m’aggiravo per quello strano quartiere, trovai finalmente il portone giusto e stavo per entrare, quando dall’altra parte della strada, chi ti vedo? Lo zoppino. Inforcava uno scooter e se ne stava tutto sbracato sul sellino in mezzo a un gruppo di ragazzotti: giacche di pelle nera, borchie, piercing, jeans attillati e frange ossigenate. Nessuna traccia di stampelle, nei paraggi. Scherzava coi suoi amici e a un tratto parve litigare con uno di loro, lo rincorse, l’agguantò e per un po’ fecero alla lotta. Avrei creduto che se le dessero per davvero, se non li avessi visti ridere e fraternizzare, mentre si tiravano calci e pugni, così per gioco.

Ero in piena luce davanti all’ingresso del palazzo, sotto i neon che l’incorniciavano. Sicché, tornando indietro, lo zoppino mi vide e mi riconobbe. Ci scambiammo uno sguardo imbarazzato. Subito dopo entrai nel portone, cercai l’ascensore, salii all’undicesimo piano e sbrigai la mia faccenda. Quando tornai dabbasso lo zoppino non c’era più.

L’indomani, lungo la Merulana, lo vidi sul pezzo come sempre. Tutt’uno con la stampella, arrancava curvo e macilento per il consueto tratto di marciapiede. Gli passai accanto e lo fissai severamente, andando a comprare il giornale. Anche lui mi fissò. Occhi negli occhi. Non gli feci naturalmente alcuna elemosina.

Nei giorni successivi non potei fare a meno di pensare a lui. Lo incrociavo tutte le volte che scendevo in strada. Passanti e commercianti continuavano a riempirlo d’attenzioni (e di mance) e nessuno vedeva ciò che a me ormai pareva tanto evidente. Quell’impostore. Ci aveva presi per il naso tutti quanti, e talmente a lungo… Com’era possibile che nessuno si fosse mai accorto ch’era fasullo? Pareva quasi che la deformità simulata lo proteggesse come un velo che, per qualche ragione, non si squarciava. E quel numero, che replicava tutti i giorni davanti a tanta gente… come poteva non tradirlo mai? D’altra parte, però, dovevo riconoscere che il suo magnetismo funzionava anche dopo, con me, a segreto svelato. Io sapevo, ma non per questo il mio sguardo ne era meno attratto.

Mi secca dirlo, ma m’inquietava quel piccolo segreto che avevamo in comune, mi causava un sottile disagio. Scartai subito, naturalmente, l’idea di svergognarlo davanti a tutti. Ma non riuscivo neanche a fregarmene e passare semplicemente oltre, continuavo a fissarlo.

Direi, quasi, con ammirazione. La sua capacità d’ingannare, di catturare l’attenzione dei passanti – il pubblico davanti al quale quell’artista di strada s’esibiva – m’intrigava. Che fosse finzione, aveva importanza? E d’altra parte, era possibile che in quel ragazzo banale che avevo visto in sella a un motorino davanti a un caseggiato di periferia in mezzo a un gruppo di bulli, si nascondesse un artista, un falsario, un circense? Quand’era in parte, sul suo palcoscenico, valeva molto, molto di più… Insomma devo riconoscere che il finto zoppo ebbe un effetto su di me, tant’è che eccomi a scriverne. In realtà, sono io più turbato e a disagio di lui, che quando passo oltre senza dargli nulla mi squadra con quegli occhietti furbi… Finché decisi di evitare del tutto il suo tratto di marciapiede. All’edicola di Largo Leopardi ormai ci arrivo dal lato di Palazzo Brancaccio, marciapiede ovest. Diavolo! Per risolvere la questione potrei forse davvero smascherarlo in pubblico e farla finita. Ma non oso. In fin dei conti lui ha smascherato me, non io lui.


Accanto al titolo, Via Merulana a Roma: foto di Claudio Bortolesi.

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