Su “La bambina dagli occhi d’oliva”
Roma piccola piccola
Davide Grittani racconta l'orrore morale di una Roma che ormai galleggia sul vuoto. Un uomo, quasi un nuovo "borghese piccolo piccolo" alla Cerami, scava nel suo passato per trovare le ragioni di un decadimento consumato nella violenza
La bambina dagli occhi d’oliva (Arkadia, 186 pagine, 15 Euro), nuovo romanzo di Davide Grittani, mi ha fatto pensare a Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami per il tipo di realismo allegorico che condividono: Sandro Tanzi, come il Giovanni Vivaldi del romanzo di Cerami, è un uomo qualunque che reagisce individualmente all’ingiustizia, al male, scoprendo in sé una forza e una determinazione e una cattiveria che non pensava di avere; un perdente che continua a lottare fino all’ultimo per raggiungere il suo impossibile obiettivo: sfidando un boss della malavita romana, soprannominato Cabriolet (per la sua abilità nel sesso orale alla guida delle decappottabili), vendicare Angelica, liberarla dalla sua schiavitù e risarcirla, almeno un poco, dal male ricevuto. Ma lo fa anzitutto per se stesso, per uccidere il mostro che abita in lui da quando ha scoperto una colpa familiare immonda: suo padre, l’architetto Tanzi, una persona assai perbene, con una specchiata reputazione sociale, era un pedofilo che violentava le bambine, fra cui Angelica medesima, reclutate per lui da un’organizzazione criminale che faceva capo proprio a Cabriolet. Ecco la imbarazzante verità.
Chi narra è Sandro Tanzi, erede/testimone di quella borghesia imprenditoriale cinica, corrotta, che oggi gestisce, simbolicamente, un centro scommesse con annessa scala giochi, un ambiente che viene reso in modo efficace con poche pennellate, in alcuni ritratti di frequentatori incalliti, raccontati come degli “zombi” divorati dalla stessa “febbre subdola e pustolosa da cui non si guarisce”, spesso pericolosi, che il protagonista ha imparato a riconoscere al primo sguardo dalla sua cabina di osservazione e di controllo. Il clima dapprima è da commedia amara, con linguaggio anche colloquiale, basso, dialettale con momenti di comicità (dialetto romanesco). Ci troviamo in un quartiere centrale di Roma, multietnico, caotico, corrotto, chiassoso, diversissimo da quello della sua infanzia – un racconto che è sempre sul punto di tingersi di nero, cosa che succede soltanto nell’ultima parte.
L’indagine retrospettiva di Sandro Tanzi prende le mosse da un disegno infantile che affiora dietro la crosta dell’intonaco nell’appartamento all’ultimo piano, che stanno ristrutturando, per conto di una certa Angelica Capone, la nuova misteriosa inquilina del palazzo, verso cui lui prova un’immediata attrazione e un istinto di protezione. Ma c’è anche una vecchia madre malata d’Alzheimer, Ada – parcheggiata a vita in una costosa casa di cura (“la sua morte apparente garantisce la mia apparente sopravvivenza”) che partecipa all’indagine del figlio, con frasi enigmatiche, silenzi carichi di significato, improvvisi sprazzi di lucidità e di memoria, anche nei dialoghi con Farouk, il suo “sublime” e onesto badante indiano che viene a trovarla regolarmente – fino al suicidio inaspettato (e all’ambiguo messaggio nella lettera d’addio) gettandosi di sotto dal terrazzo al terzo piano della clinica, su un roseto spinoso, una fine particolarmente atroce che viene risparmiata agli altri ospiti della casa per non impressionarli: “ci sono schizzi di sangue ovunque, la sagoma impressa nel cespuglio sembra il morso strappato a un panino, la camicia da notte è rimasta impigliata fra le spine, le ciabatte infilzate sembrano coltelli in un ceppo”. Ecco, basta forse questo piccolo estratto per avvertire subito il particolare timbro stilistico di Grittani, la sua prosa ricca di immagini (visiva) e abbondantemente metaforica. Il personaggio di Angelica Capone, quella bambina dagli occhi d’oliva del disegno sul muro e del titolo viene su a poco a poco, attraverso i dialoghi con il protagonista, i ricordi di famiglia, e le sue (di Sandro) frammentarie ricostruzioni del passato, in momenti solo immaginati ma lo stesso carichi di una sinistra tensione. Sono pagine terribili, quelle sulla violenza alla bambina – ma di acume psicologico e direi antropologico – con quegli odiosi, ingannevoli preliminari, le “lezioni di geografia” sul corpo della piccola Angelica, seienne o settenne: “riesco a vederla, con tutto il male che fa, la lezione disegnata sulle braccia, sulla pancia, sul seno, nell’inguine di Angelica…”. Pagine che affrontano un vero tabù narrativo, editoriale, culturale, quello della violenza sui bambini all’interno delle storie, e sulla pedofilia: forse perfino più “scomodo” dello stupro come tabù.
La riprovazione e la condanna verso il padre è irrevocabile, il narratore finisce per orinare sulla sua tomba, in un gesto simbolico pieno di disprezzo, perché “quello che facciamo ai bambini resta per sempre”.
L’autore avverte nella bandella di essersi ispirato alla tragica storia di Dolores O’ Riordan, leader del Cramberies, alla quale dedica anche il libro e il finale quando arriva colpisce per la sua necessità drammaturgica – non poteva finire diversamente – e un po’ anche per come neghi qualunque facile consolazione al lettore e al protagonista.
Due parole ancora sullo stile. La scrittura di Davide Grittani anche nelle parti dialogate resta vivace e inventiva. Ma ha pure un forte tratto “cinematografico”, è un film già fatto!, diresti. Anche per il modo in cui è costruito l’intreccio, un po’ da thriller psicologico, soprattutto nella seconda e terza parte, con molti dialoghi, svolte narrative e colpi di scena. Come lo era Un borghese piccolo piccolo, che infatti diventò film, di Monicelli, con Alberto Sordi in una delle sue migliori interpretazioni, che venne sceneggiato dallo stesso Cerami. L’analogia con il romanzo di Cerami – non paia volontaristica o peregrina: gli è che in entrambi si respira una cert’aria romana – grigia piovosa carica malata, “dove tutti hanno paura di voltarsi di schiena” – e pensare che l’autore è pugliese! – che prelude alla tragedia, e “trasfigura la borghesia in una potenziale macchina da guerra”. Ma soprattutto ci sono due scene in qualche modo gemelle, simmetriche: quella tumultuosa, dantesca, delle tombe stipate in quel deposito del Cimitero, che esplodono in un polverone che cade a pioggia sulle teste dei parenti, ne Il borghese piccolo piccolo, e al “cimitero” stavolta delle macchine, all’autodemolizioni dove si reca Sandro Tanzi: quando recupera i disegni e le multe della Mercedes del padre, ulteriori indizi della sua colpevolezza, ascoltando il “canto delle lamiere e della pressa che schiaccia un’auto ogni 10 minuti, producendo lunghi rutti d’acciaio”.
Accanto al titolo: “Roma”, foto di Roberto Cavallini