La poesia angloitaliana di Barbara Carle
Enigmi e rammendi
L’autrice e celebre traduttrice, grazie al suo essere “tra le lingue” usa un lessico libero ed esatto. Attraverso il quale, in questa raccolta che torna 11 anni dopo, ci invita a “toccare” la vita degli oggetti
Torna dopo undici anni, in un’edizione largamente riveduta e riscritta, un libro che aveva colpito al momento della sua pubblicazione per nettezza di misura ed elusiva originalità (Touching What Remains = Toccare quello che resta, Ghenomena, Formia 2021, 139 pagine, 15 euro). Barbara Carle, italianista dell’Università di Sacramento e autrice dalla doppia origine, per parte familiare, statunitense e francese, lo ha scritto in italiano volgendolo nel contempo in inglese, con le libertà e le invenzioni che solo a chi traduce sé stesso sono consentite. L’essere “tra le lingue”, come Barbara rivendica nel segno di Ungaretti (si veda Jean-Charles Vegliante, Ungaretti entre les langues, Parigi 1987), la porta a un’elaborazione personalissima che si è andata affinando negli anni grazie anche a un’intensa pratica traduttiva che la colloca tra i migliori interpreti della poesia italiana negli Stati Uniti. Il lessico dei suoi testi è infatti elaborato e dotto, la scansione metrica attentamente studiata, l’intertestualità di complesso disegno.
Francis Ponge, nella sua lenticolare, sorprendente attenzione alla vita degli oggetti – Le parti pris des cose – è certo fonte di ispirazione di questa poesia e figura in esergo quale sua chiave d’ingresso. Pure credo che l’ispirazione del libro abbia fonte in una tradizione più antica, che risale almeno agli emlèmes della poesia lionese del Cinquecento – penso soprattutto a quelli che corredavano le edizioni di Maurice Scève – e ai valentins che nel secolo successivo allietarono a Parigi la “civiltà della conversazione”. Il componimento poetico di Barbara Carle ha spesso forma di limerick, di indovinello, di escursione concettosa lasciata senza titolo al lettore perché la sveli. E in omaggio a tale tradizione i titoli compaiono solo in indice al volume, a completare la démarche enigmistica di chi li compulsa.
Ogni oggetto ammette così un ribaltamento, un’inversione o allargamento del campo prospettico, e dunque un invito allo sguardo a confrontarsi con la sua fisiologia: «Al superstite Achille il mandato / narrativo di indicare i miti della sorte – / foggiate coi dipinti le prodezze / omeriche animano le curve. / Rialzando gli scudi questi guerrieri / accettarono l’arte della morte». Sapremo in explicital volume che l’oggetto di cui si parla è l’Anfora. «Tessuti nella ruvida fibra gli uccelli / sono geometrici come dei solari. / I petti di sangue e le ali gialle / vibrano quando cantano. // Nutrono intimità / tra piedi e testa». Qui l’autrice ci parla del Tappeto, che intuiamo manufatto di perizia arcaica. Ma gli oggetti possono essere molto più umili, di uso quotidiano allora che quotidianamente la loro grazia, anche ironica, tende a sfuggirci.
Più di dieci anni fa mi capitò di vedere a Parigi, al da poco inaugurato museo etnografico del Quai de Branly, una mostra dedicata al “rammendo” degli utensili nei villaggi dell’Africa francofona. Si trattava di restauri, ricostruzioni talora bizzarre, esposte e nell’insieme toccanti, pensando a quanto nelle nostre città gettiamo via senza neanche pensarci. L’impressione è che la poesia di questo libro operi in una modalità analoga, di delicato rammendo nel restituirci uno sguardo consapevole su quanto adoperiamo senza considerazione, o vediamo senza vedere. Ed è accezione, questa della poesia come rammendo, che non ha niente di riduttivo o di minimalista, anche perché quanto detto per gli oggetti vale a maggior ragione per la lingua, una lingua che nell’uso quotidiano, con velocità almeno pari a quella che tocca agli oggetti, degrada. (Nella foto Barbara Carle).
Resta da dire che il tono talora ironico, giocoso, non deve trarre in inganno. Se gli adulti hanno generalmente perso la capacità di giocare, i bambini, e i poeti, sanno invece che il gioco è una cosa terribilmente seria. E che un semplice pezzetto di carta con una parola può essere immagine di un dolore profondo che la poesia, grazie alla vita delle cose, sa accogliere e custodire.