Periscopio (globale)
Keats e il dolore
Duecento anni dopo, John Keats è ancora lì: un monumento alla morte che si sostituisce alla vita. Perché nei suoi versi si riversa la sua smania di passioni, luoghi e sentimenti. Quasi una fiammata di desiderio destinata, per umana natura, a soccombere
Il lettore mi perdonerà se stavolta comincio con una lunga citazione, tratta da Fuga da Bisanzio di Josif Brodskij. Nell’introdurre un capitolo dedicato a Mandel’stam e alla sua opera poetica, Brodskij annota quanto segue: “Per qualche strano motivo l’espressione ‘morte di un poeta’ suona sempre un po’ più concreta che non ‘vita di un poeta’. Sarà perché ‘vita’ e ‘poeta’, come vocaboli, sono quasi sinonimi nella loro nobile indeterminatezza. Mentre ‘morte’ – anche come vocabolo – è qualcosa di ben definito, quasi quanto è definito il prodotto stesso del poeta, cioè una poesia, che ha come elemento principale il suo ultimo verso. Un’opera d’arte, quale che sia la sua sostanza, è una corsa verso il traguardo, ed è il traguardo, l’epilogo, a deciderne la forma e a negarle la risurrezione. Dopo l’ultimo verso di una poesia non c’è più posto per nulla, se non per la critica letteraria. Così, quando leggiamo un poeta partecipiamo alla sua morte o alla morte delle sue opere.” E più avanti precisa: “L’arte non è un’esistenza migliore, ma è un’esistenza alternativa; non è un tentativo di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca la carne ma trova parole.”
Una descrizione, questa, che si attaglia a Mandel’stam come a qualunque altro vero poeta, ma che diventa particolarmente significativa se pensiamo a quelli morti giovani o giovanissimi, prima di aver potuto in teoria spiegare pienamente le loro ali liriche, ma avendo in realtà già lasciato ai posteri un’opera, se non compiuta, comunque davvero impressionante per bellezza e maturità. È il caso di John Keats, che soccombeva a una grave forma di tubercolosi duecento anni fa, il 23 febbraio 1821.
Una vita breve, appena venticinque anni, quella di Keats, segnata non solo dalla malattia ma anche dall’incomprensione critica e dalla sottovalutazione dei suoi versi, che avrebbero ottenuto eco e consacrazione solo dopo e forse proprio a seguito della sua morte prematura.
Nato il 31 ottobre 1795, Keats sviluppa fin da giovanissimo un forte interesse per le antichità classiche, la storia e la letteratura, studiando in una scuola di stampo relativamente liberale che ne favorisce l’attività riflessiva e speculativa. Orfano di padre ad appena otto anni, viene allevato praticamente dalla nonna – la madre si risposa quasi subito, ma lascerà presto il secondo marito e morirà qualche anno dopo di tubercolosi –, poi va a vivere come apprendista presso un medico-farmacista da cui impara i rudimenti del mestiere, iscrivendosi come studente al Guy’s Hospital, un’istituzione, facente parte oggi del King’s College, che all’epoca formava giovani medici. Nel 1816 ottiene la licenza di farmacista, ed è opinione comune che la sua strada professionale sia tracciata. Ma Keats, che aveva cominciato a comporre poesia, decide altrimenti, sia perché sente il richiamo di una diversa vocazione, sia perché i farmacisti si trovavano al gradino inferiore della scala gerarchica medica e la carriera che gli si prospettava non era poi così seducente.
L’anno successivo esce il suo primo volume, Poems, che sarà subito maltrattato dalla critica. Nasce tuttavia lentamente una nuova corrente poetica nella quale Keats riesce a inserirsi abbastanza agevolmente, entrando in contatto con letterati influenti dell’epoca quali Charles Lamb, William Hazlitt e John Hamilton Reynolds. Nel frattempo, il fratello Tom si ammala gravemente di un male all’epoca molto familiare, la tubercolosi, e John lo assiste insieme all’altro fratello George, che si trasferirà presto oltreoceano e morirà anch’egli, anni dopo, di tubercolosi. Nel giugno del 1818 John partecipa a una lunga escursione in Scozia con il fraterno amico Charles Armitage Brown e in luglio, sull’isola di Mull, è preda di un brutto raffreddore che lo costringe a interrompere il viaggio, ma non senza aver prima scalato il Ben Nevis, contravvenendo alle raccomandazioni del medico consultato in loco. Nel mese di dicembre Tom muore, e intanto John, che è stato in costante contatto fisico con il fratello, si è probabilmente esposto all’infezione.
È in questo periodo, fra 1818 e 1819, che nascono alcune fra le composizioni più acclamate di Keats, fra cui quasi tutte le famose odi. È anche il momento della storia d’amore con Fanny Brawne, una frequentazione molto assidua che durerà un paio d’anni, sia pure a fasi alterne (prima si fidanzeranno, poi Keats romperà il fidanzamento non avendo fondi sufficienti a impostare una vita matrimoniale), fino alla sofferta decisione del poeta di lasciare l’Inghilterra alla ricerca di un difficile miglioramento delle condizioni di salute. Nel settembre del 1820 Keats s’imbarca infatti con l’amico Joseph Severn – non il suo migliore amico, peraltro, ma l’unico che in quel momento fosse disposto ad accompagnarlo – sul piroscafo Maria Crowther alla volta di Napoli. Il viaggio sarà orribile, funestato da tempeste e da giorni di bonaccia che ritardano l’arrivo, e a Napoli tutti i passeggeri saranno messi per dieci giorni in quarantena per un presunto caso di colera scoppiato in Inghilterra subito prima della partenza. Giunti finalmente a Roma, i due vanno ad abitare in Piazza di Spagna, ma le condizioni di salute di Keats si aggravano progressivamente, malgrado gli sforzi di un medico inglese di stanza nella capitale, James Clark, che fa del suo meglio in base alle conoscenze dell’epoca, ma non riesce a salvare un giovane ormai troppo debilitato (e peraltro perfettamente consapevole di quanto stava avvenendo). L’autopsia rivelerà che i polmoni di Keats sono completamente distrutti dalla tubercolosi. Il poeta sarà poi sepolto nel cimitero acattolico all’ombra della Piramide (per chi volesse visitarla, è la tomba 159, nella zona A/51), immortalato dall’amico Shelley nel suo poema Adonais e fatto oggetto, da quel momento, di un vero e proprio culto laico, sebbene in vita di tutti i suoi componimenti non avesse venduto, a quanto pare, che duecento copie.
Non è questo il luogo per una disamina dell’opera di Keats: sintetizzando in modo quasi brutale, si può accennare tuttavia almeno al fatto che la sua poesia si basa su una rivalorizzazione dell’esperienza umana, compresa quella negativa, che diventa anzi soggetto precipuo della visione poetica, perché all’identità vera si arriva, per Keats, solo attraverso il dolore. In altri termini, il negativo non va rimosso, ma vissuto e assunto con piena consapevolezza, all’interno di un percorso creativo. Perché solo ciò che è creativo può salvare se stesso, e non c’è salvezza che possa venire dall’esterno. Viaggio interminabile fra mille ostacoli, labirinto, nebbia che tutto divora: in queste metafore della vita, nei frequenti paradossi e ossimori, come pure nei continui rimandi ad antichi “padri fondatori” (da Omero a Dante a Milton) evocati come se fossero pienamente contemporanei, c’è tutto il dispiegamento del genio di Keats, teso a unificare verità e bellezza: “’Beauty is truth, truth beauty,’ – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know” ovvero “Bellezza è verità, verità bellezza,” – questo solo / Sulla terra sapete, ed è quanto basta” (versione di Silvano Sabbadini).
Di Keats, oltre all’opera poetica, rimangono le numerose lettere a diversi destinatari (Fanny Brawne, i fratelli Tom e George, Brown, Shelley), in cui compare fra l’altro la famosa metafora del mondo come “vale of Soul-making” (valle del fare Anima), ripresa oggi per esempio nella psicologia post-junghiana di James Hillman, nonché numerose e calzanti annotazioni sulle proprie composizioni e sul processo poetico in generale. Thomas Stearns Eliot, che era un grande ammiratore non solo della poesia, e in particolare delle odi, ma direi soprattutto delle lettere di Keats, osserva che esse sono lettere-modello in cui, come dovrebbe avvenire appunto nella corrispondenza di un autore, le buone idee scaturiscono da una ridda di banalità e s’impongono tuttavia con nettezza. Sebbene, scrive Eliot, Keats non fosse forse a priori un grande osservatore degli aspetti storico-sociali del mondo in cui viveva, non gli sfuggono tuttavia le questioni pubbliche, e proprio nelle osservazioni sparse nelle lettere dimostra di saperle valutare con grande acutezza.
Il mito di Keats, dicevamo, è molto diffuso e ha coinvolto anche scrittori che con lui sembrerebbero avere poco in comune. Un solo esempio. In un racconto intitolato Strange Comfort Afforded to the Profession, che compare nella raccolta Hear Us o Lord from Heaven Thy Dwelling Place (Ascoltaci, o Signore, edito in Italia da Feltrinelli), Malcolm Lowry immagina che grazie a una borsa Guggenheim il suo personaggio Sigbjørn Wilderness – uno dei tanti nomi che ricorrono nella narrativa dell’autore e che non bastano a dissimularlo – soggiorni a Roma, e come prima ineludibile tappa si rechi proprio al museo dedicato a Keats e Shelley. Nel corso della sua visita, in un’abitazione che gli appare immersa in una “comforting darkness”, prende alcuni appunti e trascrive dei documenti, fra cui un paio di lettere di Severn, e in particolare la lettera scritta da Severn a Brown con cui gli annunciava la morte del poeta. Per Lowry/Wilderness tutte queste annotazioni sembrano saldarsi con le sue proprie preoccupazioni artistiche e compositive e stabilire una singolare affinità di sentimenti, al di là dei limiti dettati dallo sfasamento temporale. Dalla “cinereous evidence of anguish” che dà il tono alla casa di Keats parte una carrellata d’immagini di scrittori e artisti, molti dei quali, primo fra tutti Gogol’, hanno vissuto a lungo a Roma, e che saranno tutti preda, in un dato frangente della loro esistenza, di qualcosa che Lowry chiama tortura o supplizio (la sua tortura, come sappiamo, sarebbe stata per tutta la vita l’alcool). Lo “strange comfort” del titolo è allora la strana sensazione, di sollievo misto a orgoglio, di essere riuscito fino a quel momento a evitare gli scogli su cui la fragile scialuppa di altri creatori, e Keats ne è un caso emblematico, si è infranta. Se Keats non annetteva alcun merito consolatorio o salvifico alla poesia, della cui valenza extraletteraria ha anzi sempre dubitato, ecco dunque che a svolgere questa funzione salvifica, per gli altri scrittori che lo hanno letto e per noi contemporanei che continuiamo a leggerlo e amarlo, è forse il semplice fatto che sia esistito, che ci abbia parlato.