Piedi per aria
Illusione olimpica?
Non si può giudicare un Paese attraverso uno stadio. Non solo. Ma, insomma, ci vorrà tempo, ci vorranno anni per rendere ordinario tutto quello a cui abbiamo assistito in questi giorni
I Giochi di Tokyo sono in archivio. La vittoria è già un ricordo. Le Olimpiadi più difficili e che non si dovevano fare hanno contenuto il morbo e sono andate avanti come accadeva nella Grecia antica: tutto si doveva sospendere, anche la guerra, ma non i Giochi. Figuriamoci con sponsor e contratti televisivi che premono e pretendono.
Bisognerà fare un grande sforzo di fantasia e indossare un bell’abito di ottimismo per credere che questo grande Paese, l’Italia, un combinato di geni e di fancazzisti, di lavoratori e di sfaticati, di persone di buona volontà e di odiatori di professione, possa cambiare dopo due settimane di palloni che rimbalzano, di corse e di marce, di nuotate e di tuffi. Una comunità che riesca finalmente a includere invece che ad escludere.
Desalu che dà il testimone a Tortu nella staffetta e gli grida dietro fino ad accompagnarlo alla vittoria è l’immagine più bella, molto più degli inni urlati, di una Italia diversa, multistrato, più mappamondo che poliedro. La realtà non è solo bianca o nera. Almeno su una pista, in una palestra, su un parquet. I problemi iniziano quando si esce dagli stadi e dai palazzetti e si cammina nella vita di ogni giorno. Una realtà che è poi è fatta anche di donne che vengono dalla Nigeria e si prendono cura di un anziano italiano e non possono rispondere a Sara Simeoni in tv perché stanno lavorando, grazie tante per i complimenti per Fausto. Oppure la quotidianità diventa quell’Ercole arrivato da Cuba, nessun barcone, nessuna frontiera attraversata da clandestino, ma semplicemente la voglia di vincere qualcosa nella lotta, la più antica disciplina dei Giochi, e lì nell’isola comunista non è possibile, c’è uno che lo batte sempre. Abraham de Jesus Conyedo Ruano vuole andare a trovare il Papa, l’ha detto dopo aver atterrato l’avversario sul tappeto e dopo essersi appeso al collo una medaglia di bronzo. Ama Dio, Abramo, e chiede a lui di dargli una mano non per evitargli ostacoli, ma semplicemente per aiutarlo a superarli. Infatti, Dio è generoso e si è mimetizzato in un piccolo funzionario della Questura che gli ha messo un po’ di timbri e una scritta “cittadinanza italiana” sulla carta d’identità e sul passaporto. Italiano per meriti sportivi nel giro di qualche anno, un record.
Quante belle storie abbiamo ascoltato in questi giorni di Olimpiadi? Quante ne ascolteremo ancora? Anche tra le strade e le piazze nella vita di tutti i giorni? Ha scritto il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari: “Poiché l’Italia multietnica è già una vibrante realtà, la delicata questione che abbiamo davanti è come portare il Paese legale a fare i conti con il Paese reale. Come trasformare l’incontro fra italiani per nascita e italiani per scelta in un volano di crescita collettiva – identitaria, culturale ed economica – destinata a premiare le nuove generazioni”.
Ecco, questo è il punto. Non abbiamo buoni precedenti. Molinari ricordava l’ostilità viscerale tra Nord e Sud dopo l’Unità, il razzismo contro i meridionali, le leggi razziali del fascismo contro gli ebrei, l’intolleranza verso i migranti, “e il più recente risveglio dell’orgoglio etnico-regionale ci dicono come nel nostro dna c’è anche il pericoloso seme del rigetto del prossimo”. Per poi concludere che abbiamo un altro dna, quello del “seme della coesione, dell’intesa con il prossimo”.
Anche con l’atletica leggera non è che avessimo buoni precedenti. Facciamo una cosa, intanto: aspettiamo qualche settimana, qualche mese e vediamo se la gente che torna in misura ridotta negli stadi per il calcio si metterà ad urlare certe cose. Essendo in pochi, forse i cretini avranno vergogna di farsi notare. Non si può, tuttavia, giudicare un Paese attraverso uno stadio. Non solo. Ci vorrà tempo, ci vorranno anni per rendere ordinario tutto quello a cui abbiamo assistito in questi giorni.
Italia multietnica. Italia giovane. Vediamo un po’: se hai dieci anni e vieni dall’altro capo del mondo, puoi iscriverti ad un club o ad una società sportiva e puoi giocare in un campionato. Ma se sogni di indossare la maglia azzurra quando diventi più grandicello, questo non lo puoi fare, devi aspettare almeno di compiere 18 anni. Se lo chiedi prima, devi avere tanta pazienza, fare molte anticamere, comprare quintali di carta bollata e forse sarai italiano e potrai mettere la maglietta colorata come il cielo. Gennario Serio sul manifesto ha fatto questo semplice ragionamento: “Fostine Desalu, detto Fausto, è nato a Casalmaggiore (Cremona) nel 1994 da una famiglia nigeriana ed è diventato cittadino italiano quando ha compiuto 18 anni, nel 2012… Questo vuol dire …che il campione olimpico Desalu non ha potuto svolgere gare con la maglia dell’Italia quando aveva sedici o diciassette anni”. Giovanni Malagò, celebrato presidente del Coni, ha richiesto già alla politica lo “ius soli sportivo”. E chissà, forse qualcosa si smuoverà. Ma gli altri? Di tutti i ragazzini che non fanno sport agonistico e stanno seduti a scuola nello stesso banco dei nostri nipoti o vanno con loro a nuoto, un Abraham, un Marcell, uno Yeman, nati a Varese o a Reggio Calabria, che cosa ne facciamo, li continuiamo a tenere fuori dalla porta fino a quando non sono maggiorenni? No, tu no. (Nella foto Moise Kean).
Guardando le immagini che arrivavano dai palcoscenici sportivi giapponesi (a proposito, ora non spegnete la tv e guardatevi le Paralimpiadi), nemmeno ci si accorgeva delle sfumature della pelle e questo continuo distinguere, setacciare, classificare è sembrato lontano dalla chiacchiera della fila alla Posta e dai notiziari di cronaca nera di tv e giornali. Diciamo la verità: se vedi un match, una gara ormai non ci si fa più caso.
E poi le cose sono andate bene. Come italiani usciamo da una edizione piena di soddisfazioni. La vittoria alimenta il patriottismo sciovinista. Il trionfo crea identità. Da Berrettini a Chiellini a Jacobs (voleva almeno un messaggio da Bolt, ha confessato alla Gazza: via Marcell non è che ti sia già montato troppo la testa?), è tutto un “esultate”, un “dagli agli inglesi” che rosicano perché da Wembley al New National Stadium di Tokyo li abbiamo beffati. E quelli poi insistono, con americani e francesi, sul doping e altre schifezze. Non è che siamo, come loro, dei santarellini con le pozioni magiche. Ma se accusi, devi portare prove. Punto. Dunque, quanti evviva e quanti applausi assordanti ai vincenti. Che sono sembrati, a volte, tanti Jack Shepard, il freddo, capace e pieno di empatia protagonista del vecchio Lost.
Guardate invece che cosa è capitato alla povera Paola Egonu, appena le ragazze del volley sono state buttate fuori dal torneo di volley. E’ facile stare con i primi, è più difficile stare con gli ultimi.
L’Italia dello sport è già multietnica. 46 azzurri su 384 atleti presentati in Giappone sono nati all’estero, il 12 per cento della spedizione. Per non dire di quelli nati in Italia da genitori che venivano da altre realtà e culture. Il mondo è cambiato totalmente, e da un bel pezzo, ma facciamo fatica a percepire la cosa. Sulla Gazzetta dello Sport Valerio Piccioni ha fatto un po’ di conti: 93 Paesi sono saliti sui podi olimpici di Tokyo e dintorni, 6 in più rispetto a Rio de Janeiro 2016. Per la prima volta 3 Stati hanno vinto una medaglia: San Marino (3 medaglie, 34 mila abitanti), Burkina Faso (1 bronzo nel triplo maschile), Turkmenistan (1 argento nel sollevamento pesi femminile). Per la prima volta l’India ha conquistato una medaglia d’oro nell’atletica leggera (Neeraj Chopra nel giavellotto; sembrava che gli indiani, oltre 1 miliardo e 300 mila abitanti, dovessero vincere solo nell’hockey su prato), per la prima volta nella storia dei Giochi, le Filippine (108 milioni di abitanti) hanno vinto un titolo olimpico (sollevamento pesi). Dal cappello a cilindro dei signori del Cio sono state tirate fuori 5 nuove discipline: il baseball e il softball, il karate, il surf, lo skateboard e l’arrampicata sportiva. Anche così la platea globale si allarga.
L’Italia ha tracimato. Riesce a stare nella top ten delle nazioni sia pure borderline, al 10° posto in quella bizzarra classifica che è il medagliere: 40 medaglie totali, 10 di oro e 10 di argento, 20 di bronzo. Un inedito assoluto. Il top furono, fino all’altro giorno, le 36 medaglie di Los Angeles 1932 e Roma 1960. Parliamo di altre epoche. A Rio ne prendemmo 28 e finimmo al 9° posto, esattamente come a Londra, quattro anni prima, nel 2012. Ma in Brasile furono 8 medaglie d’oro (ben 4 dalle specialità del tiro), 12 di argento e 8 di bronzo; in Inghilterra: 8 ori, 9 d’argento, 11 di bronzo. A Pechino 2008 il totale fu 27; ad Atene 2004, 32; a Sydney 2000, 34. Adesso nella classifica delle medaglie ci precedono Francia e Germania, ottava e nona,con 33 e 37 medaglie (la Francia ha 2 medaglie d’argento in più dei tedeschi). Anche l’Olanda è avanti, settima, 36 patacche al collo. Tutte però non lontane dagli azzurri. Anzi, se si somma il numero di medaglie la squadra italiana è settima, primo Paese della Ue. In cima al medagliere giapponese ci sono finiti all’ultimo momento gli Stati Uniti, 113 medaglie totali ma con un solo oro in più della Cina, 39 invece che 38 (le medaglie cinesi sono complessivamente 88). Dietro i due colossi, il Giappone padrone di casa (58), la Gran Bretagna (65) e la Russia, qui chiamata Roc e mandata dietro la lavagna per via del doping (71 in tutto ma 5 medaglie d’oro in meno dei giapponesi e 2 in meno dei britannici). (Nella foto Giovanni Malagò, presidente del Coni).
Un’apoteosi azzurra. L’atletica che dà 5 ori, il 50% del metallo più prezioso, il nuoto nessun oro ma 7 medaglie (2 argenti e 5 bronzi, comprendendo anche quello di Paltrinieri in acque libere) e poi una enorme quantità di altri podi da ben 19 discipline diverse. Non c’è stato un solo giorno della manifestazione in cui non si è vista l’elegante divisa di Armani, con il tricolore sullo stomaco, vincere qualcosa. Ora Malagò busserà da Draghi e chiederà molte cose. La battuta migliore sul presidente del Coni l’ha fatta Gene Gnocchi nella sua rubrica sulla prima pagina della Gazzetta, “Il Rompipallone”: “Malagò euforico: ‘E’ un risultato storico, abbiamo ottenuto lo stesso numero di medaglie di Figliuolo’”.
Verrebbe da dire: abbiamo vinto nonostante tutto. In questi giorni ho letto che l’unico velodromo rimasto in funzione sta a Montichiari, vicino Brescia: lì si sono allenati i quattro che hanno vinto la medaglia d’oro dell’inseguimento, scriveva Moris Gasparri sul Foglio di qualche giorno fa. Quell’impianto è stato chiuso per infiltrazioni d’acqua tra il 2017 e il 2019. Capite: chiuso, come un velodromo olimpico romano qualsiasi lasciato andare in rovina per decenni. Qui è andata meglio. “Vinciamo nonostante il sistema politico, amministrativo, educativo e culturale italiano”. Nonostante continuiamo a considerare lo sport nelle scuole come una sorte di ricreazione collettiva.
Eppure, questi risultati non sbocciano all’improvviso. Il Coni si è dato una mossa ed ha messo molte discipline e la preparazione olimpica sotto la lente di osservazione dell’Istituto di Scienza dello Sport (ne ha parlato La Stampa). In Giappone sono stati impiegati materiali nuovi e sono stati sperimentate tecniche di allenamento all’avanguardia. Esistono, ormai da molti anni, centri come quello di Formia ma anche quello di Tirrenia, o la Galleria del vento di Orbassano, che sono piccoli avamposti di efficienza e di capacità. Poi ci stanno gli staff che lavorano con gli atleti di vertice e lo sport d’élite ha parecchi soldi a disposizione, nonostante gli screzi in un recente passato tra governo e Coni sulla gestione finanziaria. Come al solito, resta il divario tra gli investimenti e gli impianti tra il Nord ed il Sud dell’Italia. Ma la quantità di medaglie prese a Tokyo e distribuite su atleti di tutte le regioni ha detto anche che, almeno in una occasione, questa disparità non si è vista.
Infine a sostenere sacrifici e tanto altro ancora ci sono le famiglie che si fanno carico di problemi e del mantenimento di piccoli e grandi campioni. E le società di base, dove i soldi arrivano con il contagocce, che andrebbero sgravate da carte e tasse altrimenti i ragazzi se ne vanno, si arruolano perché almeno così a fine mese prendono uno stipendio e non è che devono presentarsi in caserma o al commissariato. Non è un caso che il 70% degli atleti azzurri vesta una divisa: polizia, guardia di finanza, esercito ed altri corpi. I giovani vanno via anche dalle squadre di calcio, di basket, di volley. Perché alla fine non sopportano di essere messi da parte a favore di qualcuno che arriva da lontano ed ha sempre il posto in squadra. Le società di vertice non curano i vivai preferiscono pescare all’estero. Conviene, dicono, raccontando una balla. L’insuccesso degli sport di squadra, la faccia negativa della spedizione italiana in Giappone, ha forse qualche motivo anche in questa politica sbagliata.
Vedremo a Parigi tra tre anni se saremo stati tanto bravi da continuare sulla strada intrapresa (ma pare che già i dirigenti e i tecnici dell’atletica stiano litigando) e di correggere gli errori che pure ci sono stati. Forse lo sport, come spesso è accaduto, può insegnare qualcosa a questo Paese. Anche fuori dalle piste e dalle palestre.