Leopoldo Carlesimo
Una storia d'acqua e lavoro

L’ultimo ballo di Furio

«Subito dopo pranzo il Cinghiale lo convocò di nuovo. Un colloquio a quattr’occhi, stavolta, in quella stanza piccola e surriscaldata che era il suo ufficio da campo, tra pile d’incartamenti polverosi, tute da cantiere, stivali infangati...»

Non ne intuì subito la gravità. Quando Linaldo interruppe la riunione, Furio pensò solo a una seccatura tra le tante, una delle venti o trenta che gli piovevano sulla scrivania tutti i giorni. Non ascoltò neanche fino in fondo quel che aveva da dire. Dopo le prime parole credette d’aver capito, lo liquidò brusco con un gesto della mano e tornò alla riunione.

Un suo difetto, questo. Non coglieva mai le cose al primo colpo. Il secondo arrivò mezz’ora dopo: la riunione era ancora in corso, la segretaria si chinò alle sue spalle e gli sussurrò all’orecchio che quel tale lo voleva al telefono. L’uomo che, in quel periodo della sua vita, Furio odiava di più. Ma non poteva dirgli di no, non attraverso una segretaria. Sospirando, interruppe la riunione per la seconda volta e andò a prendere la chiamata dal suo ufficio. Col solito tono autoritario, ai limiti dell’offensivo, quel tale gli ingiunse un intervento immediato.

Tornò a concludere la riunione e ordinò alla segretaria di far preparare la jeep, sarebbe uscito in cantiere subito dopo. Era ancora persuaso che si trattasse di un affare da nulla.

Non ci fu bisogno del terzo colpo, che comunque arrivò in serata, con la telefonata del Primo Ministro. Bastò quel che aveva davanti agli occhi. Parcheggiò la jeep una decina di metri dietro il container, calzò gli stivali e avanzò nel fango. E appena oltre la svolta, quando la visuale s’aprì mostrandogli quella piccola vena d’acqua che sgorgava una decina di metri sopra al piede del rilevato, capì che guaio stava per piombargli addosso.

* * *

A dispetto del nome aggressivo, Furio era un uomo mite, uno dei più miti in quell’ambiente. Chissà grazie a quale particolare ricetta di sopravvivenza vi aveva resistito tanto a lungo. Il suo curriculum era costellato di grandi dighe fatte in luoghi difficili. Cose – entrambe – inadatte alle persone miti. Quindi Furio covava dentro di sé un perenne conflitto tra la sua indole e il suo mestiere. Per quanto si sforzasse di nasconderlo, affiorava nelle rughe che gli solcavano il viso, nello sguardo torvo che sovente lo rabbuiava e in certi tic che tutti gli conoscevano.

Prima di Rogùn, le sue ultime dighe in ordine di tempo erano state Karanjukha in Islanda e Ingula in Sud Africa. Le dighe di gioventù, invece, quelle del suo periodo di formazione, le fece in Sud America. Di quella fase della sua vita si portava ancora appresso una moglie argentina e un’ottima conoscenza del castigliano. L’una e l’altra inutilizzabili, a Rogùn. Il castigliano da almeno dieci anni non l’esercitava più e non gli sarebbe servito a nulla lì in Asia Centrale dove, a meno di conoscere il russo o le lingue del posto, l’unico canale di comunicazione erano infidi interpreti dotati di una rozza dimestichezza con l’inglese. Quanto alla moglie, da lungo tempo non lo seguiva più nei cantieri.

Era una donna che chi aveva conosciuto giovane, in Sud America, descriveva vivace, socievole, allegra. E che gli anni nomadi al seguito del marito, tra l’Artico e l’Africa australe, avevano spento. Non era adatta a quel tipo di vita. Il fatto di non aver avuto figli complicava ulteriormente le cose. Da circa un decennio la signora viveva a Ravenna, una città per lei straniera. Aspettava lì i radi e fugaci rientri di lui. Nel frattempo costeggiava pericolosamente i territori della depressione femminile in età matura e della dipendenza da alcol e farmaci, con qualche incursione più o meno grave nell’interno, tanto da richiedere di quando in quando brevi ricoveri.

A sessantatre anni, con una situazione personale e familiare ormai irrimediabile alle spalle, Furio dirigeva a Rogùn la sua ultima diga. Una diga che non aveva cominciato – visto che la costruzione era iniziata trent’anni prima, in epoca sovietica – e non avrebbe finito – perché per completarla ne sarebbero occorsi altri venti. Fatto comune, nel suo mestiere. Occuparsi di un’opera di cui non s’è visto l’inizio e non si vedrà la fine è la norma. Nel caso di Rogùn, quel che assumeva una rilevanza inconsueta era la scala di questa marginalità. Ma quasi tutto, a Rogùn, è notevole solo per un fattore di scala. Sarà la diga più alta del mondo, quando sarà finita, e le sue componenti – dal lavoro industriale, al progetto ingegneristico, alla volontà politica che l’ispira – sono di natura gretta e ordinaria, però affette da gigantismo. Corrispondono alle dimensioni materiali e temporali dell’opera, che amplificano la sproporzione con l’arco di competenze di un uomo solo.

A bilanciare questo squilibrio, c’era la decisione di smettere dopo un paio d’anni. Cosicché, se il lavoro di Furio rappresentava per Rogùn solo un trascurabile contributo alla sua costruzione, anche quest’opera colossale non avrebbe costituito nella vita di Furio che un passaggio marginale. Terminale. Gli mancavano giusto quei due anni alla pensione. Non vedeva l’ora.

* * *

La telefonata del Primo Ministro, in tarda serata, lo precipitò nell’ansia. La giornata non disponeva più di abbastanza ore per smaltirla, per cui – lo sapeva già – sarebbe stata una notte insonne. E quello successivo, di conseguenza, un mattino di merda. Inutile cercare di addomesticare l’ansia con le tecniche che conosceva, non avrebbe funzionato. E non poteva certo imbottirsi di sonniferi e tranquillanti – come avrebbe fatto sua moglie –  con tutto quel che aveva da affrontare il giorno dopo. Per cui prese l’unica decisione che gli parve sensata, l’abitudine lo spinse a questo: ottundere l’angoscia con l’azione, per quanto inutile. Uscì dall’alloggio – erano più o meno le undici di sera, fuori era buio pesto e il termometro segnava cinque sotto zero – salì sulla jeep e guidò fino al cofferdam.

All’uscita dal tunnel la pista correva dritta fino all’alveo, per poi curvare in corrispondenza dell’ansa del fiume, terminando a ridosso della parete di roccia che faceva da spalla al rilevato. Lo chiamavano cofferdam, ma era già una diga. Una piccola parte del suo corpaccione finale, l’unghia di monte sulla quale quel mastodonte di terra e roccia alto oltre trecento metri avrebbe appoggiato il resto del peso. Un pezzettino, quindi, un primo tassello, ma alto già un’ottantina di metri, quota che nel novero ordinario di quelle opere ne faceva comunque una large dam.

C’era un’altra ragione – oltre alle dimensioni – per cui quella definizione di cofferdam era inadeguata. Visto che, per motivi comprensibili ancorché rischiosi, era stato deciso di riempire d’acqua il bacino a monte già in fase di costruzione. Poche settimane prima le paratoie dei tunnel di deviazione erano state chiuse e l’invaso aveva avuto inizio. L’acqua saliva, allagando il catino della valle del Vakhsh, su a est, dove si profilavano in lontananza le prime vette che annunciano il Pamir. Nell’arco di una quarantina di giorni il lago avrebbe sommerso tutta la parte bassa della valle e il pelo libero avrebbe raggiunto la quota minima – 1055 – che consentiva di mettere in funzione le turbine. Cioè di generare la prima energia elettrica a Rogùn, obiettivo che il Presidente perseguiva da vent’anni.

Per questa ragione, in occasione del suo 65° compleanno, il 16 novembre 2018, era stata programmata l’inaugurazione ufficiale dell’opera, col Presidente in persona ad abbassare la leva che avrebbe avviato le macchine, davanti a capi di stato di una mezza dozzina di Paesi, delegazioni diplomatiche, amministratori di fondi internazionali e una nutrita rappresentanza popolare – almeno ventimila persone, quante poteva ospitarne quell’area del cantiere – portata lì ad attestare l’orgoglio della nazione per l’impresa compiuta. Tutti fantasmi che s’agitavano davanti alla mente angosciata di Furio, mentre guidava nella notte verso il piede della diga. A quel 16 novembre mancavano meno di due mesi.  

* * *

Raggiunse il cofferdam e parcheggiò la jeep dietro al container. Pochi metri più avanti riconobbe il fuoristrada di Linaldo. Anche lui lì a quell’ora. Alla luce delle torri faro, tre escavatori arrampicati lungo la parte bassa della scarpata posizionavano blocchi di roccia per arrestare l’erosione. Appena al di sopra, dove l’acqua sgorgava, un gruppo di uomini in tuta e caschi rossi stendevano rotoli di geotessile a foderare quella ferita aperta, un crepaccio che affondava nel corpo della diga. Come garze a suturare un’emorragia. Il loro compito era fermare la migrazione di fini che l’acqua asportava dal ventre del rilevato. Bloccare il regresso dell’erosione, impedire il formarsi di caverne. Per quel che si poteva curare in superficie. Ma dentro?

Il lavoro è un buon antidoto all’angoscia. Stare sul pezzo, stancarsi fisicamente e mentalmente, partecipare seppur solo con lo sguardo alla fatica di quegli uomini arrampicati lassù: tutte molle che li avevano spinti fuori entrambi, lui e Linaldo. Anche se, naturalmente, la loro presenza era del tutto inutile. C’era già Duran, il capo moviter, a condurre le operazioni coi suoi assistenti. Più geologi, topografi, meccanici e tutte quelle macchine che impegnavano un centinaio di operatori e manovali. Dumper andavano e venivano, rovesciando carichi di roccia. Escavatori la collocavano lungo il pendìo e pettinavano le scarpate coi loro bracci meccanici. La filiera di produzione girava in autonomia senz’alcun bisogno di loro.

In piedi sul terrapieno, a una trentina di metri l’uno dall’altro, Furio e Linaldo per tutto il tempo non si scambiarono neanche una parola. Qualche sguardo in cagnesco, di quando in quando. Nessuna rivalità espressa, ma neanche mascherata. Un incontro imprevisto sgradito a entrambi, ciascuno alle prese coi propri conti interni da regolare. La mole scura del cofferdam, lì davanti, significava cose diverse per l’uno e per l’altro, con una modesta area di angoscia condivisa, un piccolo dominio d’ansia comune. Né voglia né scopo a parlarne.

Il primo ad andarsene fu Linaldo, poco dopo mezzanotte. Accennò appena un gesto di saluto avviando il pick-up, tirò su il vetro del finestrino e scomparve nel buio. Furio rimase solo sul rilevato che tagliava di traverso l’alveo del Vakhsh, chiuso tra i contrafforti di roccia di quella gola larga non più d’un centinaio di metri: il punto più facile per strozzare quel corso d’acqua torbido e violento che porta già nel nome – Vakhsh in tajiko significa selvaggio – l’impronta della sua natura.

Ci soffia sempre un vento freddo e tagliente, in quell’imbuto. Aria gelida che scende dal Pamir, dai suoi ghiacciai. S’intirizzì fino alle ossa, benché imbacuccato nel suo parkha pesante, col cappuccio imbottito, il copriorecchie, il sottogola e il bavero tirati su. Diede due o tre sorsate alla fiaschetta di grappa che portava nella tasca interna. Il freddo, il cantiere al lavoro, la grappa avrebbero forse aperto la strada al sonno. Verso l’una, quando rientrò, provò a dormire per qualche ora prima di affrontare il mattino.

* * *

Nella sala interamente rivestita in legno, munita di telecamere e microfoni nascosti, su un lato del tavolo era schierata l’imponente delegazione tajika. Sul lato opposto, quello che aveva la luce abbagliante della vetrata dritta in faccia, sedeva la sparuta squadra della Compagnia. Quattro in tutto, Furio e tre suoi collaboratori dei servizi tecnici. Entrò il Cinghiale.

Era il nomignolo che gli Italiani avevano affibbiato al suo omologo tajiko, il direttore dell’autorità pubblica cui era affidata la costruzione di Rogùn. Nella fattispecie, un vecchio ingegnere pluridecorato, senatore della Repubblica, in rapporti diretti col Primo Ministro e col Presidente, che aveva partecipato alla costruzione di Nurek in epoca sovietica. Con i suoi trecento metri Nurek è a tutt’oggi, fino a quando non sarà finita Rogùn, la diga più alta al mondo; ed è singolare che in un paese piccolo come il Tajikistan e lungo il corso di un fiume sconosciuto ai più, si succedano da valle a monte, a distanza di pochi chilomentri, la diga più alta mai costruita – cioè Nurek – e la diga in costruzione che un giorno la supererà – cioè Rogùn.

I rapporti tra i due uomini non erano mai stati buoni. A differenza di quelli tra lavoratori italiani e lavoratori tajiki, che tutto sommato, pur diffidando gli uni degli altri e litigando di continuo, alla fin fine in cantiere collaboravano, cedevano alla naturale e più forte pressione della fatica comune; e talvolta la sera, a Obi Garm, si ubriacavano assieme. I due capi, invece, non si comprendevano, non si stimavano e non avevano nemmeno quel minimo di fiducia reciproca che è indispensabile a tessere anche il più miserabile dei rapporti d’affari.

Tuttavia v’era una forte asimmetria nell’ostilità che regnava tra loro. Rogùn era l’opera della nazione, presidiata dall’esercito, sotto l’onnipresente controllo dei servizi di sicurezza. L’organizzazione governativa era dappertutto e in cima a quella piramide c’era il Cinghiale, che aveva sopra di sé solo il Primo Ministro e il Presidente. I rapporti di forza non erano certo pari.

La riunione durò poco. Meno di un’ora di requisitoria da parte del suo staff tecnico e legale, dopodiché il Cinghiale prese la parola e condensò in pochi minuti d’invettiva tutto il suo sdegno, la sua incredulità e la sua rabbia per la situazione in cui la Compagnia aveva messo il progetto. Quelle perdite al piede della diga, mentre il lago a monte s’alzava, la cerimonia d’inaugurazione a rischio… Furio tentò di spiegare, di argomentare; ma uscì come sempre battuto, piegato dal carico di legnate che riceveva regolarmente nel corso di quelle riunioni, molto più simili a un processo senza diritto di replica che a un incontro mirante ad affrontare un problema.

* * *

Guidò mestamente fino al cofferdam. L’angoscia e le offese lo riportarono lì. Non era certo nello stato d’animo per sedersi a una scrivania, in ufficio, e tentare una serena analisi della situazione: convocare i suoi collaboratori, esaminare i dati tecnici, telefonare a Milano, consultare esperti, ipotizzare soluzioni… Tutto questo poteva aspettare.

C’era il cofferdam, prima, la mole di terra e roccia che aveva davanti agli occhi, con quella vena d’acqua che, al suo interno, scavava. Qualcosa d’indifferente e opaco, sfuggente all’analisi degli esperti. Le spiegazioni che aveva cercato di darne in riunione non l’avevano portato a nulla… I Tajiki non erano interessati a capire, volevano solo risolvere. E non s’erano lasciati convincere nemmeno a quello, non era riuscito a ottenere neppure un breve rinvio. Quell’ipotesi catastrofica – che avrebbe significato ritardare la cerimonia, rinunciare all’inaugurazione, confessare al Presidente un fallimento – era al momento per il Cinghiale più spaventosa della minaccia fisica del fiume. Fino a quando sarebbe stato così, dipendeva in larga misura da lui. Con un senso di nausea Furio fu costretto ad ammetterlo. Chi altri avrebbe dovuto far valere le ragioni della prudenza, della tecnica?

L’acqua a monte continuava a salire. Sulla pista che s’annodava a tornanti lungo la spalla destra della diga, una fila pressoché ininterrotta di dumper saliva a cassoni vuoti fin su in cava. Ne discendeva carica di roccia, da sversare ai piedi del rilevato. Dozer la spingevano e pale la caricavano su camion più leggeri, che s’arrampicavano sulle forti pendenze delle rampe stese a coprire la faccia di valle del rilevato. In diversi punti di quella rete, dove le risorgenze d’acqua affioravano, gli escavatori piazzavano massi di rinforzo, mentre più in alto squadre di manovali stendevano sabbia e ghiaia, per filtrare l’acqua e tamponare l’erosione.

Difficile dire fino a quando questi mezzucci l’avrebbero tenuto in piedi. Macchine e uomini si muovevano come formiche attorno al corpo di un gigante malato. Si notava, in quell’informe moto browniano, un pick-up bianco a cabina singola, di quelli in dotazione al personale subalterno, che sfrecciava su e giù per la diga a velocità doppia, tripla, rispetto al movimento d’insieme. Come una scheggia impazzita. Saltava dalle zone di carico a quelle di stesa, dalle aree di pompaggio a quelle di posa dei filtri e dreni. Furio osservò con disperazione quel giovanotto scendere dal pick-up, urlare istruzioni rabbiose agli operatori, saltare di nuovo a bordo, ripartire sgassando… Dieci, venti, trenta volte, esagitatamente. Un’inutile e forsennata dispersione di energie. Non capiva perché Linaldo e Duran avessero affidato l’incarico a un ragazzino, quel Toni… Ma questo era un dettaglio, non era certo il nodo della questione. Il nodo era: per quanto tempo ancora avrebbe consentito al Cinghiale di pensarla così.

* * *

Subito dopo pranzo il Cinghiale lo convocò di nuovo. Un colloquio a quattr’occhi, stavolta, in quella stanza piccola e surriscaldata che era il suo ufficio da campo, tra pile d’incartamenti polverosi, tute da cantiere, stivali infangati. A tu per tu con quell’uomo grasso, greve, che seduto accanto a lui su un enorme divano in cuoio emanava un intenso odore animale – sporcizia e sudore, miscelati alle fiatate di una laboriosa digestione – il testone completamente calvo, le gote cascanti e madide… Parve a Furio molto più vecchio, più stanco e scoraggiato di tre ore prima. Il tono era meno arrogante, il piglio meno energico e sicuro.

Poteva approfittarne. Incunearsi in quegli spiragli. Aveva argomenti fortissimi a disposizione: l’imponderabilità del rischio, le potenziali conseguenze di un errore di valutazione… Avrebbe potuto spaventarlo, senza magari metterla giù troppo dura: prendersi solo un po’ di tempo per studiare il problema… In ufficio aveva avuto modo di consultare rapidamente le carte: dossier tecnici, calcoli di stabilità, simulazioni di flussi. Con quei dati – non c’erano dubbi – era suo dovere fermare l’invaso. Era una decisione tecnica, non politica. Le sue conoscenze, la sua esperienza, la deontologia professionale, tutto glielo imponeva. Perciò quel che gli si chiedeva era semplicemente di prendere una posizione ferma, resistere alle pressioni, mettere avanti i numeri… E poi proteggersi dietro lo scudo della Compagnia, nessuno a Milano gliene avrebbe fatto una colpa.

Ma non lo fece. Accondiscese alle richieste del Cinghiale. Diede la sua parola, s’impegnò personalmente… Non aveva alcuna idea del perché.

* * *

Non lo capiva proprio, cacciarsi in quel guaio… Insomma, quella era la sua ultima diga. Tra meno di due anni si sarebbe ritirato. Aveva una moglie depressa e semialcolizzata che lo aspettava a Ravenna. Non aveva nessuna meta di carriera, nessun obiettivo economico o personale in vista, nessun particolare legame affettivo né debito morale nei confronti di quell’opera o quel Paese, e in fondo neppure verso la Compagnia…

In serata, sfruttando la differenza di fuso, fece un rapido giro di consultazioni. La maggior parte dei consulenti ed esperti che aveva coinvolto sul tema consigliavano ovviamente di fermare l’invaso. Gli altri direttori della Compagnia, su a Milano, tiravano indietro il culo, non volevano assumersi responsabilità. Se avesse imboccato anche lui quella strada, nessuno avrebbe trovato nulla da ridire. La Compagnia ci avrebbe semplicemente rimesso un po’ di faccia e una manciata di milioni. E con ciò? Non era certo questo a preoccuparlo…

No. C’era dell’altro. Ricevette una telefonata da sua moglie, più tardi. Erano due giorni che non la sentiva. A cosa s’è ridotto un rapporto, quando uno attende certe telefonate con angoscia, le vive ormai come una minaccia incombente di cui però non può fare a meno, percepisce il silenzio come una minaccia peggiore? Quella sera Soledad doveva aver alzato parecchio il gomito, aveva la voce delle sue serate più nere. Furio si sorprese a pensare, ascoltando i suoi sfoghi, che s’avvicinava il momento in cui avrebbe dovuto chiamare quella specie d’infermiera che aveva le chiavi di casa e sapeva dove portarla quando non restava altro da fare. Il suo personale pronto soccorso a distanza. Immaginando questo, mentre lei all’altro capo inveiva e piangeva, si distrasse e non fu in grado di rispondere alla domanda semplice che lei gli pose. Le chiese di ripeterla. Soledad probabilmente capì perché.

Riattaccò. E quel senso d’angoscia in cui riconosceva diverse anime s’impossessò nuovamente di lui. Ve n’erano di prevalenti: Soledad, il cofferdam; e di ausiliarie: il Cinghiale, Linaldo. Quasi soprappensiero, stese questa gerarchia. Non sapeva lui stesso quanto corretta. Né sapeva valutare in che modo e secondo quale alchimia l’intreccio di quei fantasmi contribuisse a fondere quell’unico nemico.

* * *

Il problema, si disse Furio al mattino svegliandosi, non erano i Tajiki. Né il Cinghiale o Linaldo. E neppure sua moglie. L’unico vero problema era il cofferdam. Quell’acqua che, nel suo corpo, scavava.

Malgrado tutto, riteneva di disporre di un buon risveglio. Vedeva più chiaro, nelle prime ore del mattino. Perciò ricorse alle sue conoscenze professionali per affrontare l’unico nemico con mezzi noti. Quel giorno stesso imbastì il baraccone di controllo. Contattò consulenti, esperti, la direzione tecnica di Sede, mise su il modello. Ordì tutto questo anche se sapeva benissimo qual era l’unica cosa giusta da fare e che era suo preciso dovere farla.

Così, furono inseriti tutti quegli strumenti nel corpo del rilevato – piezometri, inclinometri, celle di pressione, estensimetri – e fissati sulla cresta della diga e lungo le scarpate di valle tutti quei benchmark. Una cortina fumogena per la sua coscienza.

Le letture avvenivano due volte al giorno, alle sei del mattino e alle sei di sera, con la prima e l’ultima luce. Nei piezometri e nelle celle veniva letta la pressione dell’acqua in quel punto. Le letture degli altri strumenti davano spostamenti e deformazioni in superficie e in profondità. Era stato predisposto un modello di calcolo in cui tutti quei dati venivano elaborati. E un certo numero di esperti – geologi, ingegneri, consulenti vari, selezionati in modo da tenere ragionevolmente in bilico il giudizio – valutavano le risposte. L’inviluppo di tutti quei parametri configurava una certa linea. Che si muoveva attorno a dei limiti fissati, concordati con quegli esperti. Un confine giallo, avvicinandosi al quale sarebbe stato necessario fermare la salita dell’acqua. E uno rosso, raggiunto il quale occorreva svuotare l’invaso.

Nulla di scorretto il ciò che stava facendo. Metodici step di valutazione e gestione del rischio. Ovvero: alibi. Non per ingannare la propria coscienza, però. No, Furio era oltre questo. Darsi un pretesto d’esistenza… era forse una definizione meno inesatta.

Alla lettura degli strumenti provvedeva un team appositamente addestrato. L’elaborazione dei dati veniva sviluppata indipendentemente sia in cantiere che a Milano, e i risultati confrontati e discussi a distanza. Non solo la risposta del modello ma anche tutti i dati grezzi venivano analizzati col team d’esperti, le cui riunioni in videoconferenza Furio s’attrezzò per presiedere tutti i giorni. E con ciò pretendeva di avere il fenomeno sotto controllo.

Tutto il contrario di quel che vedeva coi suoi occhi ogni volta che andava ad affacciarsi al fiume. Tra le pareti scoscese di quella gola che il Vakhsh scavava nella roccia friabile. Quanto tempo ci avrebbe messo a fare altrettanto nel corpo del cofferdam? Le risorgenze, a valle, aumentavano. La portata di filtrazione cresceva. Appesi alla parete di terra e roccia, una ventina di macchine gialle e lunghe file di camion depositavano sabbia e ghiaia, che via via il fiume inesorabilmente lavava. L’acqua si raccoglieva torbida nei fossati e nelle vasche di calma, dove batterie di pompe la prelevavano per convogliarla nei canali a valle. A quel punto, era innocua. Il lavoro maligno lo faceva a monte, dove il battente cresceva e l’acqua penetrava nel corpo del rilevato. All’uscita, vedeva la vena ingrossarsi, malgrado tutte le misure di protezione messe in campo da mezza organizzazione di cantiere schierata sulla parete del cofferdam (condotta da un ragazzo di vent’anni!) che giorno e notte stendeva rotoli di geotessile, compattava sabbia e ghiaia, rivestiva con blocchi di roccia le parti danneggiate, imbottiva le spalle d’iniezioni cementizie per stabilizzarle. All’interno dell’opera era ormai penetrato il fiume. Impossibile prevedere in quale direzione avrebbe spinto i suoi artigli. Lo si scopriva solo dopo, a valle, dove le risorgenze affioravano. Per quale motivo, in base a quale credenza quell’ammasso di terra e roccia perforato dall’acqua avrebbe dovuto conformarsi a un modello? E chi poteva assicurare che tenendosi costantemente al di qua di un limite giallo o rosso, comunque fissato, sia sempre possibile tornare indietro? Esistono fenomeni irreversibili, che una volta innescati non si può più fermare. Il sifonamento di una diga, la malattia mentale di una donna, come altre catastrofi, sono probabilmente tra questi.

Dovette sostenere diversi altri scontri con Linaldo, nei giorni che seguirono. E plasmare l’opinione di tutti quegli esperti, quando fu necessario. Non credendoci lui stesso, dovette convincere il Cinghiale e i Tajiki, fornir loro spiegazioni dettagliate su come il modello funzionava e sopportare le loro angherie, quando le perdite al piede crebbero da trecento a settecento e poi a milleduecento litri al secondo – cioè quattro volte il limite consentito – e il numero di risorgenze sul paramento di valle aumentò da tre a undici a venticinque.

C’è di buono che, una volta avviate, certe cose vanno avanti da sole. Quella rete di controllo – il modello – s’era ormai trasformata in un automatismo, un conformistico rituale di scaramanzia. Mentì parecchio a se stesso e a tutti quelli che aveva attorno, in quel periodo. Si trascinò dietro, mimetizzandosi dietro il suo schermo, l’intero apparato della Compagnia, obbligandola a sua insaputa a prendersi un rischio di cui nessuno a parte lui – così gli parve – aveva la reale percezione. Ma dovette riconoscere, dentro di sé, che un pezzetto di quel rischio lo trasferiva ad altri: era in debito verso Linaldo, che ob torto collo fu efficace nel mettere in atto interventi in cui non aveva nessuna fiducia; e verso quel ragazzo alle prime armi, quel Toni, che stringendo i denti si faceva le ossa nell’impresa.

* * *

Tuttavia non provò alcuna particolare soddisfazione il giorno in cui – un paio di settimane prima di quel 16 novembre – l’acqua raggiunse quota 1055 e fu chiaro a tutti che le perdite s’erano stabilizzate, erano assurdamente, irresponsabilmente alte, ma non crescevano più, non avevano prodotto il crollo. A dispetto del fiume che l’attraversava, il corpo della diga teneva. Un’operazione tutta borderline che ormai approdava in porto.

Entrandovi, dopo quell’incosciente navigazione, frugò dentro di sé in cerca di qualcosa che ne valesse la pena. Qualcosa di meglio dell’arido coronamento di un lavoro cui non teneva. L’emozione del baro che va oltre le sue possibilità vincendo una mano impossibile, per esempio, o quella del fuorilegge quando un colpo avventato va a segno… Nulla di tutto questo. Solo  stanchezza, e quel noto senso di perdita per qualcosa che, con disgusto, si conclude.

Ricevette una telefonata da sua moglie quella sera. Soledad stava un po’ meglio. L’avevano appena dimessa dalla clinica dove per quasi una settimana era stata ricoverata. La sua voce gli parve meno aspra, più serena. Il temporaneo effetto di tutte quelle pillole, certamente.

La sera del 16 novembre, dopo la cerimonia ufficiale del primo giro di turbina a Rogùn, il Presidente diede un ricevimento a Palazzo. Erano invitate le delegazioni dei Paesi ospiti, rappresentanze diplomatiche, una nutrita pattuglia di ministri e generali tajiki e anche, mescolati agli altri, Furio e Linaldo a nome della Compagnia. Gli fu comunicato che nella scaletta dei discorsi, subito prima della cena, era stato previsto anche un suo intervento. Non più di due minuti, dopo il Primo Ministro e il Cinghiale e prima dei rappresentati dei Fondi.

Preparò con cura il discorso, il cui testo fu sottoposto alla segreteria del Cinghiale per approvazione. E quando fu il suo turno salì al leggìo. Mentre s’avviava alla scaletta del palco decorato dalle magnifiche composizioni floreali in cui le donne tajike sono maestre, ebbe la chiara percezione dell’insensatezza di quel che andava a dire. Ma lo disse lo stesso, e vide con indifferenza le sue parole, tradotte in russo dalla voce neutra dell’interprete, infrangersi contro il muro di volti ostili, sprezzanti, di tutti quei generali in uniforme di gala e ministri con decorazioni sul petto.

Dopo il discorso del Presidente – esteso, patriottico, continuamente interrotto da applausi sfrenati – passarono in un’altra sala del Palazzo, dov’era apparecchiata la cena. Il tavolo destinato a Furio e Linaldo, assieme ad altri rappresentati di società europee che partecipavano all’opera, non era neanche troppo lontano dal palco centrale, dove sedeva il Presidente, col Primo Ministro e i Capi di Stato ospiti. La cena fu ottima, anche se troppo abbondante, e venne conclusa con la tradizionale razione di plov, il piatto nazionale tajiko: riso amalgamato con grasso di argali – il muflone del Pamir – condito con stracotto di spalla della stessa bestia, quaglie disossate, uova di quaglia, verdure lesse, uva passa e seccumi.   

Dopo cena, l’orchestra che l’aveva accompagnata con canti popolari interpretati da vari artisti tajiki virò su marce militari e inni patriottici, seguiti da motivi più ballabili, dal marcato timbro marziale. Fu fatto spazio tra i tavoli e gli uomini – solo gli uomini, nessuna delle non numerose donne presenti – s’alzarono a ballare. Danze tradizionali tartare, guerresche, raffiguranti, nei movimenti lenti e amplificati di braccia e gambe, scene di lotta e combattimenti. E Furio vide con orrore il Cinghiale avvicinarsi al suo tavolo e invitarlo.

Non poté tirarsi indietro. Lo seguì al centro della sala, in mezzo a un folto gruppo di ministri e generali, e per diversi minuti danzò con loro, mimando goffamente passi a lui ignoti, che maldestramente copiava da chi aveva intorno. Era sgraziato e ridicolo, una specie d’orso ammaestrato in mezzo al gruppo dei suoi domatori. Il risultato, e probabilmente l’intento, erano chiaramente umilianti. Vide risolini di scherno sulle facce dei commensali e l’espressione nauseata di Linaldo, al tavolo, offeso d’esser partecipe di quella gogna.

Durò parecchio. Finché, forse mossa a compassione, l’ambasciatrice di Francia – una donnina magra, colta, spiritosa, con cui aveva avuto talvolta occasione di conversare – venne a salvarlo. Non era previsto che le donne partecipassero a quelle danze. Ma lei, rompendo il protocollo, lo fece. Spezzò il cerchio di generali che l’attorniava e li costrinse un po’ tutti – sorpresi, perplessi – ad accogliere un’amazzone tra loro. Il che diede a Furio l’opportunità di uscire pian piano dal cerchio e in una pavida, disonorevole ritirata riguadagnare il tavolo.

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