Su “Il cannocchiale del tenente Dumont”
L’avventura delle parole
Il nuovo romanzo di Marino Magliani racconta una storia avventurosa tra il mare e la terra ligure al tempo di Napoleone. Una storia di transumanze dei pastori, e bivacchi, casolari di contadini terrorizzati dalla guerra, lebbrosari, paesi spettralmente abbondonati...
Marino Magliani è una figura di scrittore atipica per ragioni sia biografiche che linguistiche/stilistiche – egli vive oggi, in solitudine, fra le sue valli liguri dove è nato, a Dolcedo, 61 anni fa, e Ia costa olandese; ma è a lungo vissuto all’estero, fra Spagna e Sudamerica, svolgendo i più diversi mestieri (mozzo, lavapiatti, cameriere, bracciante…) ha scritto parecchi libri, fra cui, l’ultimo, Prima che te lo dicano gli altri Chiarelettere 2018, traduce dallo spagnolo occupandosi per vari editori di letteratura ispanoamericana… e anche il suo stile di scrittura è abbastanza inusuale nel nostro panorama: raffinato, colto, letterario, educato sui classici, diresti, e su qualche minore pregiato della sua terra, Biamonti fra gli altri, testimone del suo rapporto sofferto e fecondo con la lingua… in un’intervista che ho trovato sul web ha spiegato: «Ho dovuto ripossedere/riappropriarmi di una lingua che non mi apparteneva più. Probabilmente la mia prima lingua, l’unica lingua che io abbia mai davvero considerato mia, è stato il dialetto [ligure]. Sono arrivato in prima elementare che non sapevo una parola di italiano, quindi ho dovuto scrivere molto».
In questo suo nuovo libro – Il cannocchiale del tenente Dumont, L’orma editore – a cui l’autore ha lavorato per 20 anni, come apprendiamo dalle note al volume, convivono diversi modelli narrativi (romanzo storico, epistolare, cronaca di guerra, di viaggio, romanzo d’avventura…) in una in una originale e dinamica combinazione di matrice postmoderna (un po’ come Gianluca Barbera con Magellano, 2016, Castelvecchi, la linea mi sembra quella). Ambientato in epoca napoleonica, Il cannocchiale racconta l’epopea di tre fuggiaschi, di tre disertori dell’esercito napoleonico – un capitano, un tenente, un soldato basco – che si danno alla macchia durante la sanguinosa e fallimentare campagna d’Egitto, dopo aver scoperto la dolcezza di una nuova sostanza, l’hascisc, che lenisce le ferite dell’anima, che viene ritenuta responsabile della loro diserzione – sostanza sulla quale viene anche condotta una sorta di segreta inchiesta medico-scientifica, ordinata dallo stesso Napoleone, un “esperimento sanitario” organizzato da un tale dottor Zomer, un olandese che pure avrà un ruolo nel racconto…
Un romanzo avventuroso, quindi, di impianto all’ingrosso realistico, collocato proprio a cavallo del Diciannovesimo Secolo, che continua con il viaggio di ritorno dei disertori in mare, in due fregate, «Dal cassero, ufficiali e comandante seguitano a impartire ordini, il nostromo li distribuisce, la ciurma esegue. Il rumore ferroso delle catene che issano le ancore e ripassano nell’occhio di cubia tiene tutti quanti con le braccia sul parapetto: anche loro, in mezzo alla folla dei savant, a guardare le scialuppe remate dagli indigeni che si allontanano».
E poi l’approdo in Liguria, nella Repubblica Democratica Ligure, fra orti e scogliere a picco sul mare, in quei luoghi cari all’autore, fra spie e uniformi, tutte indistintamente nemiche nella loro condizione di fuggiaschi disertori, schivando le epidemie di colera o di tifo, incontrando lungo la strada le transumanze dei pastori, e bivacchi, casolari di contadini terrorizzati dalla guerra, lebbrosari, paesi spettralmente abbondonati… ma non intendo spoilerarvi troppo… aggiungerei soltanto che il tutto è narrato con maestria tecnica e un linguaggio ricco, anche di parole arcaiche o dialettali, talvolta, seguendo quasi sempre il punto di vista del tenente Dumont. Nel racconto non mancano dialoghi fra i fuggiaschi sui più svariati argomenti, sulle armi e le strategie belliche, l’amore, la pesca, l’onore, la diserzione, la medicina ecc. con qualche dissimulato intento didattico-divulgativo… e poi lettere, dispacci, relazioni mediche, note di viaggio, elenchi di materiali ecc. che convivono insieme a bellissime parti descrittive, paesaggistiche, anche notturne, attente alle sfumature cromatiche come in questo breve estratto: «Se non ci fosse foschia sarebbe l’ora dei diamanti, ma la visibilità sulla valle è lo stesso buona. Nel cannocchiale brillano le scaglie di porcellana del campanile, e man mano che si apre il giorno un’ombra rada si sparge fra gli olivi». Oppure in quest’altro: «Lo sguardo si stende sulle incandescenze (in basso si spande già l’ombra), fin su a cercare le pietraie contro l’azzurro. Guardare è un compito che non si esaurisce, trasforma le cose, come in un delirio, un picco di pietra scura diventa subito un guardiano gigante, e domina, divide il cielo, crolla e si rialza».
Accanto al titolo, un’inquadratura di “Napoleon” di Abel Gance