A proposito di "Papà"
I padri perduti
Il romanzo di Régis Jauffret è di quelli da non perdere. Un'inchiesta (apparentemente) privata dello scrittore in cerca del mistero del proprio padre. In realtà si rivela presto un viaggio nella psiche di un adulto, eterno fanciullo
Fa molto snob camminare per le stanze e i corridoi con il quotidiano francese Le Monde sotto il braccio. Se lo si fa negli spazi delle case editrici, è giusto pretendere che quel giornale lo si legga, almeno un po’. Una sbirciatina alle pagine culturali sarebbe obbligatoria. Ma non succede così spesso. La mia (quasi) polemica non riguarda editori come Mondadori o Rizzoli, oggi attratti soprattutto dal genere “commerciabile”, ritenuto (a torto?) il più vendibile. Eppure qualche tempo fa su Le Monde c’era una recensione, magari un po’ enfatica, che doveva in teoria attrarre l’attenzione dei critici e degli editor. Si leggeva: «Régis Jauffret è lo scrittore che oggi nel mondo sa raccontare meglio di chiunque altro le zone più oscure della psiche. E ciò significa che è probabilmente il più grande scrittore vivente». A parte l’ultima affermazione che, abbiamo detto, è fortemente retorica, un editore medio-grande avrebbe dovuto prestare attenzione, o soltanto curiosità. In Italia per fortuna c’è stato: si chiama Edizioni Clichy, ed è di Firenze. Grazie a esso ci si può accostare a un romanzo originale che ha come suo baricentro la figura paterna. S’intitola Papà (199 pg., 17 euro). L’autore è appunto Regis Jauffret.
L’autore non più giovane, si rende conto di sapere poche cose di suo padre. Cose per nulla eroiche, anzi. I difetti superano di gran lunga i pregi. Salvo che, per caso, un giorno vede un cortometraggio, fatto a Parigi sotto il regime collaborazionista di Vichy, sotto dominazione nazista. Il breve filmato ritrae il padre di chi lo guarda mentre viene portato via a forza da un portone e sbattuto in una macchina. Allora cambia tutto, a patto che la pellicola sia autentica e risalga appunto al regime fascista. Dubbio mai risolto. In ogni caso il protagonista-autore rimette un po’ di ordine nella memoria che ha di suo padre Alfred. Chiede lumi ai parenti sulle ragioni di quel presunto arresto. Risposta: «Mistero» Anche sulle ragioni di quell’azione poliziesca. E ancora: «La famiglia non ha brillato durante la guerra. Avremmo dovuto celebrare quell’arresto come una specie di prova di resistenza. Avrebbe (Alfred, ndr) potuto sostenere con modestina di essere stato arrestato per errore e immediatamente liberato. Sarebbe comunque rimasto un dubbio. Molti eroi tacciono, rifiutano le decorazioni e si adirano quando vengono evocate le loro imprese». Giustissimo, le testimonianze in questo senso lo comprovano. Régis allora mostra, nel 1953 (10 anni dopo il presunto arresto), la sfocata immagine alla madre. Che dice: «Non vedo granché».
Alfred Jauffret morì nell’aprile del 1987. Il figlio viene informato da una telefonata: «Papà sta male. Papà sta malissimo». Il medico non poté fare nulla, sottovalutò la situazione, altrimenti l’avrebbe spedito in ospedale. Si sa qualcosa di più leggendo Le Porvencal, quotidiano regionale: Alfred era afflitto da anni da un aneurisma dell’aorta addominale, e si era accasciato sul tappeto mentre beveva una tazza di caffè. Racconta un testimone: «È morto tranquillamente come era vissuto, senza fare baccano».
Lo scrittore scava nella memoria, che però è lacunosa e breve, e si arroga il diritto di ricorrere alla fantasia per ovviare all’oscurità mnemonica. Insiste sul filmato e un esperto gli dice: «In generale ai tedeschi non piaceva lasciarsi documenti alle spalle, li distruggevano il più possibile prima di fuggire». Giusto anche questo, ma qualcosa può essere sfuggito.
Régis rammenta di un pomeriggio, quando beveva un caffè sul mare: «Avevo la sensazione di aver seppellito un personaggio secondario della mia vita. Avevamo parlato così poco, fatto così poche cose insieme e non mi aveva mai dato l’impressione di essere un uomo da cui in caso di bisogno avrei potuto sperare di ottenere un minimo aiuto. In realtà non avevo affatto un padre, o quasi. Nell’infanzia avevo dovuto contentarmi di un pezzetto di papà… un pizzico di papà, un pizzico malgrado tutto perché per due volte Alfred si comportò con me come un vero padre». Nel novembre del ’60 «lui mi aveva detto che a scuola non dovevo farmi mettere i piedi in testa e che eventualmente avrei dovuto proclamare la mia innocenza. Dimostrando di avere ragione». Si comportò da papà una seconda volta, lo stesso anno. Era la festa della mamma. Cerimonia degli auguri e regalo alla madre, la quale mostra indifferenza, anzi dispetto. Scambio complice di sguardi tra padre e figlio. Sensazione di forte intimità.
Régis ammette che si è necessariamente lacunosi quando si cerca di inventariare la propria vita, magari esagerando i momenti o i periodi di infelicità. Tuttavia scrive: «Alfred, ti amo con il beneficio del dubbio». Questa riserva è destinata a scomparire, mettendo in risalto un’affermazione affettuosamente perentoria: «Papà, ti voglio bene. Anzi, papà Champagne!».
Alfred era affetto da sordità crescente, il che aumentava – e giustificava – il suo stare in disparte. «Non sentendosi, urlava quando usciva dal suo ebetismo. Gli capitava anche di ridere da solo di idiozie di cui doveva avere un repertorio nascosto nella memoria». Leggeva il giornale e fumava Gauloise sulla sua poltrona preferita. Talvolta sonnecchiava. Una presenza neutra, distante. «Avrei preferito non averlo conosciuto» afferma amaramente l’autore. Che poi rincara la dose: «Mi sarebbe piaciuto che facesse lo sforzo di morire da eroe». E continua: «In quel caso l’avrei preferito a tutti quei padri vivi devastati dalla mediocrità del quotidiano, capaci a malapena di farsi venire la pancia e le rughe. Lui invece sarebbe rimasto giovane e bello». Un essere triste nei cui occhi il figlio ricorda di aver visto passare «il colore del suicidio».
Rabbia, amarezza e affetto si mescolano nella re-invenzione del padre: «Sei morto ma il tuo ricordo freme come un neonato… di un bebè fai quello che vuoi… del ricordo di te vorrei fare quel papà adorato di cui non eri nemmeno l’ombra». Régis si rammarica per il fatto che suo padre morì prima di dimostrare chi era, e spiega perché scrive di lui: «Per resuscitarti più bello di quanto sei stato… aiutami papà». Vorrebbe conservare un ricordo che non ti fa sentire freddo. Si chiede quale ponte potesse esserci stato tra due cervelli, del padre e del proprio, e scrive: «Alfred, non ne posso più di scusarti». Eppure affiorano alla memoria spezzoni di vita allegra: «Oggi, a 64 anni» scrive l’autore «dovrei essere già guarito dalla mia infanzia, peraltro meravigliosa e delicata. Sono stato amato, viziato, coccolato, carezzato. L’essere umano può sperare di smettere un giorno di considerarsi un vecchio bambino? Mai fare inventari, intacca la gioia di vivere. Siamo però imbottigliati dentro di noi».
Jauffret, quasi a conclusione di un viaggio sgangherato all’interno dell’infanzia, scrive: «Se il figlio fa onore al padre, il padre non può essere considerato come un perdente perché il suo gamete ha superato gli ostacoli che la maggior parte delle cellule uscite dai coglioni del giacimento di borghesi di cui era contemporaneo non ha nemmeno visto».
Certo, il padre Alfred «esisteva in parallelo, non preoccupandosi né dei miei successi scolastici né dei miei desideri o delle mie aspirazioni…mi guardava spuntare di sfuggita come una pianta vivace che si contenta di pioggia e di sole». Ma non è del tutto vero: bastano pochi istanti per animare la sagoma paterna. Quando comprava una bottiglia di sciroppo: «Si serviva senza preoccuparsi di me ma visto che io mi servivo appena dopo di lui potevo avere l’impressione che mi avesse servito di conseguenza e perché no – i futuri romanzieri hanno immaginazione – che fosse venuto a cercarmi per andare a bere il bicchiere che mi aveva preparato con amore». Oppure le volte che tornava a casa con dei marroni caldi. Un grande cono di carta di giornale che poggiava accanto a sé sul tavolino: «Un ricordo delizioso perché immaginavo che li avessi comprati con l’intenzione di dividerli con me… ancora oggi ricordo con piacere quegli istanti di privilegio».
Il romanzo di Jauffret è intriso di rabbiosa dolcezza, è l’inseguimento di un padre che non è sempre visibile, anzi. E lui rimedia con un anelito verso una memoria che ha bisogno dell’immaginazione per essere quasi completa.
Accanto al titolo, Régis Jauffret in una foto di Francesca Mantovani